(…). Il sistema italiano ricorda
sempre meno un`economia di mercato alimentata dai redditi commerciali e
d`impresa, cioè aperta. Il corso della storia non prevede la retromarcia, ma
credo vada presa sul serio la diagnosi proposta dall`economista Luigino Bruni
(Le prime radici, Il Margine) quando adombra il pericolo di una sorta di nuovo
feudalesimo di ritorno: "A distanza di qualche secolo stiamo tornando a
una situazione molto, troppo simile a quella feudale, poiché il centro del
sistema sta tornando a essere la rendita. E quando l`asse si sposta dal lavoro
e dall`impresa alle rendite, l`arricchimento di alcuni non produce più vantaggi
sociali per molti, perché sono molto ridotte, se non sono nulle, le ricadute di
quella `ricchezza` nei territori e nell`economia circostanti". Così
ha scritto Gad Lerner il 4 di aprile – sul quotidiano la Repubblica col titolo “Il revival feudale della democrazia”
-. Sembrava, a prima vista, che la Sua fosse una “boutade” o, se non
proprio, un’esagerazione, una forzatura del pensiero minimamente intelligente.
Un ritorno al feudalesimo? Ma via! Orbene, vi invito ad osservare con
attenzione il grafico posto a lato. È la rappresentazione molto schematizzata
dell’antica piramide della vita feudale. Un monarca, più o meno illuminato; una
sotto-corte di famigli e cortigiani, d’intrallazzatori e saltimbanchi che
all’ombra di quel monarca vivono, ed una moltitudine di disperati che
sopravvivono, legati permanentemente alla “zolla” – “gleba” nell’antica
lingua di Roma -, per la qualcosa gli storici li han denominati “servi
della gleba”. Mancano, nella schematica rappresentazione, i chierici,
stanziali a corte, sempre dalla parte del potere, i cavalieri e tutto quel
mondo che viveva parassitariamente sulla fatica di quei servi. Accadeva poi che
quei servi si potessero sottrarre ai loro doveri di eterni, indefessi sfruttati
abbandonando i luoghi di nascita per trasferirsi nell’inferno, per loro, delle città
di quel tempo. In verità quella opportunità era concessa ai “servi
della gleba” nella Germania di quel tenebroso tempo, tanto che si era
diffuso il detto "stadtluft macht frei", ovvero "l'aria della città rende
liberi". Cose da brividi, solo a pensare che qualche secolo dopo in
quei luoghi vigeva il detto “arbeit macht frei”, ovvero il “lavoro
rende liberi” nei campi della morte nazisti. Il cinismo della Storia! Ecco
perché si è detto che la storia non fa che ripetersi. Riporta una citazione il
professor Umberto Galimberti in un Suo scritto – pubblicato sull’ultimo numero
del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica col titolo “Siamo ancora schiavi?” -: Scrive
l'antropologo Claude Meillassoux: "La schiavitù non è finita. Essa perdura
nelle società che si definiscono umanistiche, anche se edificate sulla
spoliazione dell'uomo". Nell'Introduzione al libro dell'antropologo Claude
Meillassoux, Antropologia della schiavitù (Mursia), Alessandro Triulzi
individua l'essenza della schiavitù nel fatto che gli schiavi sono "socialmente
sterili", nascono e si riproducono biologicamente, ma non nascono nella
società, dove non hanno rilevanza. Hanno lo statuto della merce e al pari della
merce rispondono ai criteri del valore d'uso e del valore di scambio.
L’analisi è penetrante ma al contempo capace di rischiarare l’orizzonte cupo
del tempo che ci è toccato di vivere, tempo in cui il paventato da Lerner
ritorno ad un “feudalesimo” da terzo millennio sembra realizzarsi nella
confusione e nella sprovvedutezza dei più. Continua così la riflessione del
professor Galimberti: …la nostra Costituzione si definisce
"fondata sul lavoro", perché il lavoro è la porta d'ingresso nella
società, ma se il lavoro non c'è perché il mercato non lo richiede, i nostri
giovani rientrano nella categoria dei "socialmente sterili", proprio
come gli schiavi. Talvolta vengono impiegati per un certo periodo di tempo,
rispondendo al pari delle merci al valore d'uso, e poi, quando il contratto a
tempo scade, si offrono al valore di scambio diventando "flessibili".
L'unica differenza rispetto alla schiavitù classica è che gli schiavi
dell'epoca coloniale avevano un padrone (come peraltro ancora oggi gli
immigrati che, in condizioni disumane, raccolgono nel meridione pomodori o
arance), mentre gli "schiavi" odierni e i loro "padroni"
sono dalla stessa parte e hanno come controparte il mercato. E come fai a
prendertela col mercato o a ribellarti al mercato, anche quando esso confligge
col mondo della vita, al punto da creare masse sempre più ingenti sotto la
soglia della povertà? Mancano gli strumenti, non si intravvedono strategie, al
massimo si sfoga la propria indignazione in manifestazioni che non modificano
alcunché. Sta tutta qui la “cecità” storica di questo tempo.
Aver fatto ritrovare, a differenza di quel composito quadro che è stato il
feudalesimo, gli sfruttati dalla stessa parte degli sfruttatori, anzi i primi
ad avere, erroneamente, gli stessi obiettivi, rincorrere gli stessi stili di
vita dei secondi. Ma quando il meccanismo si è inceppato –
produzione/consumismo/alterazione dell’ambiente/depauperazione delle risorse
naturali – quella contrapposizione sfruttati/sfruttatori, sempre vigente seppur
minimizzata, si è materializzata a pieno con un crescente impoverimento delle
masse, con una crescente negazione dei diritti. Conclude il professor
Galimberti: Con riferimento alle forme di schiavitù mascherata, mai chiamate col
loro nome, (…), possiamo dire che quando parliamo di "precariato"
diciamo subordinazione della vita umana alle esigenze di mercato. Quando
diciamo "delocalizzazione" dovremmo dire sfruttamento di mano d'opera
nei paesi meno sviluppati. Quando parliamo di immigrati dobbiamo pensare
all'abbattimento dei costi del lavoro, quando non al lavoro nero. La vita dura
in media 70 o 80 anni, ma chi perde il lavoro a 50 è troppo vecchio per
trovarne un altro, e perciò, al pari degli schiavi, rientra nella categoria dei
"socialmente sterili" per la sua irrilevanza sociale, allo stesso
modo dei "troppo bravi", costretti a emigrare da un paese che ancora
fatica a riconoscere la meritocrazia. E poi c'è la schiavitù sommersa delle
donne, divise tra lavoro e famiglia, senza adeguate strutture di supporto per
la cura dei figli e un margine di tempo per pensare a se stesse e alla
realizzazione dei propri sogni. Se l'antica schiavitù massacrava i corpi con
pesanti turni di lavoro ed esemplari punizioni, la moderna schiavitù massacra
l'anima, rendendola esangue nell'implosione di ogni progetto e nel brusco
risveglio da ogni sogno anche solo accennato. Sono le nuove forme di schiavitù,
proprio da “servi della gleba”, che la ridistribuzione tra le “classi”
sociali della ricchezza e la sua nuova destinazione, dal mondo della produzione
e del lavoro al mondo della finanza e della speculazione, in una lotta di
classe che, vado ripetendo da qualche tempo, si è realizzata all’incontrario,
rendono sempre più attuali. E Gad Lerner rinforza i toni del Suo scritto: “I
nuovi ricchi non hanno più bisogno dei `poveri` delle loro città, perché vivono
in sub-città segregate, acquistano i beni in tutto il mondo, e pagano le tasse
se e dove vogliono". Le conseguenze sociali di questa prevalenza della
rendita in un`economia di mercato soffocata sono già drammaticamente evidenti
nella vita quotidiana dei molti che ne sono tagliati fuori. Meno chiare sono le
ripercussioni sulla nostra democrazia di questo revival feudale. (…). Nel
feudalesimo di ritorno è naturale che politica ed economia tornino spesso a
sovrapporsi, in deroga alle più elementari regole democratiche, fino a
coincidere. Basti pensare ai potentati venutisi a determinare nei settori
convenzionati: dalle infrastrutture ai trasporti alla sanità, fino al caso
clamoroso delle frequenze televisive. Rendite di posizione che hanno da tempo
snaturato il mercato e che occupano più o meno vaste porzioni di territorio, a
beneficio di veri e propri potentati. (…). Così la politica s`è fatta sempre
più rancorosa non perché guidata da un eccesso di convinzioni morali, ma
esattamente per il contrario: perché svuotata di contenuto morale e spirituale.
Infeudata. Ed allora lo scandalo
morale ed etico dell’”antipolitica” che è al governo del
bel paese trova in quest’ultimo passaggio dello scritto come un disvelamento,
se ce ne fosse stato bisogno, e quella piena visibilità che ben difficilmente si
riesce a ritrovare nelle analisi interessate o nella pubblicistica prezzolata corrente.
L’”antipolitica”
al potere, intesa nella “casta” che ha impresso il suo enorme
deficit di moralità e di eticità alla sua azione nella conduzione della cosa
pubblica, ha impregnato tutti i gangli vitali del bel paese, rendendo
subalterna la democrazia alla finanziarizzazione della ricchezza collettiva.
Scrive a conclusione Gad Lerner: È un docente di Harvard, il filosofo Michael
J. Sandel, di cui Feltrinelli ha appena tradotto il saggio ‘Quello che i soldi
non possono comprare’, a segnalarci come la logica di mercato nuoccia al nostro
dibattito pubblico. Che il massimo della libertà sia stato fatto coincidere con
la libertà di comprare tutto o quasi tutto, mercificando gran parte delle
nostre relazioni, ha svuotato di argomentazione morale la vita pubblica. Il
mercato si compiace di non giudicare i valori che non siano di natura materiale
e chiede alla politica di fare altrettanto, fino a bandire l`idea di vita buona
dal dibattito pubblico. Così, se una politica sempre più rancorosa rinuncia
alla passione morale espressa nei valori e nella spiritualità, perché dovremmo
scandalizzarci di fronte al cittadino indebitato che torna servo della gleba?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 28 aprile 2013
giovedì 25 aprile 2013
Eventi. 6 “Ora e sempre Resistenza”.
La Memoria*. “Ora e sempre Resistenza”, “ode” di Giovanni Torres La Torre, pittore, scrittore e poeta, scritta in
memoria di Irma Bandiera nata a Bologna l’8 di aprile dell’anno 1915 ed
assassinata a Bologna il 14 di agosto dell’anno 1944, partigiana e Medaglia
d'oro – alla memoria - al valor militare. Di famiglia borghese e benestante,
sentì fortissimo il richiamo della Libertà divenendo staffetta partigiana nella
VII brigata GAP di Bologna col nome di battaglia di “Mimma”. Catturata dai
fascisti dopo un trasporto di armi alla base di Castelmaggiore, venne torturata
e fucilata al Meloncello di Bologna. Il suo corpo fu esposto sulla strada
adiacente alla sua casa per un intero giorno. In suo ricordo una formazione di
partigiani operanti a Bologna prese il nome di “Prima Brigata Garibaldi Irma
Bandiera". Affermò Piero Calamandrei a Milano il 26 di gennaio dell’anno
1955, in
un Suo discorso indirizzato ai giovani sulla Costituzione nata col sacrificio,
anche della propria vita, nella Resistenza: “Se voi volete andare in
pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle
montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei
campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la
libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché
là è nata la nostra Costituzione”. Il “dovere costituzionale” della
Memoria.
Sul nome della tua pietra
tornano palpiti di canti
bella fanfara
di quando da valle a valle
scendeva allegrando l’alba
nella festa che si annunciava.
Nel ricordo, così, l’anima si consola
di luce che riconforta
per quella canzonetta novella.
Non c’è scampo, però, al disincanto degli anni
le speranze da te amate
non hanno assunto il comando
e la vita non è quella che volevi
pace libertà lavoro
fontana piena che d’allegria spande
ma gioco di coltelli
orizzonti di cimiteri,
stupri di pace e di guerra
vetro nel seno e boschi riarsi
serpe nel cervello e sorgenti avvelenate.
Chi tornerà a salutarti
per amore che ancora stringe
e i figli dei nostri figli
smarriti nel mondo per un pezzo di pane
per farti coraggio diranno che
verrà un giorno la volta buona
ma noi non potremo vederla.
Un morso lacera ancora il tuo scialle
Piegato nel riposo più eterno e fondo
mentre nelle lontananze
geme un silenzio che si rintana.
Inquieta, a piedi nudi
si avventura una luna di cera
e nelle ombre delle porte
bussa cercando riparo.
Sul petto dell’amoroso nome fioriscono le belle parole
“ora e sempre Resistenza”.
*Per cortese, amichevole
concessione dell’Autore.
Per una Memoria condivisa. Da “Il
senso di Arturo per la Liberazione”, del poeta, scrittore e musicista
Andrea Satta, sul quotidiano l’Unità del 24 di aprile dell’anno 2011, poiché la
Liberazione è stata fatta per tutti e la Costituzione che ne è derivata non è
stata scritta dai “bolscevici”.
Arturo portava “er tranve” a
Roma. «…so’ der ’36 e so’ entrato all’Atac nel ’63 ». (…). «…ho portato er 5
che annava alla Garbatella, er 10 su pe’ er Policlinico, er 7, er 13, er 15 che
me ricordo partiva da Piazza Lodi». (…). Da qui, (…), cominciava la campagna. (…).
«Dopo la mietitura s’annava a fa la spiga, a quii tempi se magnevamo pure le
radici …». Arturo era ancora piccolo, alla fine della guerra, ma la storia se
la ricorda bene. Si narra di uno zio fascista, che però pare fosse umano, di un
certo Bragoni, altro fascistone del quartiere (uno smargiasso che abusava del
suo potere) e del Guercio che invece era tanto comunista. Il Bragoni, proprio
il Guercio continuamente provocava e minacciava. Per umiliarlo di più, ogni
tanto, a capriccio, lo offendeva andando a prendere uno dei due nanetti che
abitavano a via Giovanni Brancaleone, due fratelli piccoli piccoli, che quella
banda di balordi si trascinava dietro. «Uno, me ricordo ancora, che se chiamava
Arturo, proprio come me. In quattro teneveno fermo Er Guercio, spalle ar
tavolo. E giù schiaffoni dal nanetto, issato in piedi sulla sedia». Alla fine,
esasperato, il Guercio arrivò fino alla sezione del Fascio a raccontare tutto e
lì, incontrò lo Zio Michele, che lo comprese, intervenne, lo difese e la storia
finì. Nacque una inconfessabile stima fra il Guercio e lo Zio. Dopo la
liberazione, le carte si rovesciarono. Un pomeriggio, certi tipi armati,
vennero a cercare Zio Michele: era la resa dei conti. Partigiani? No, forse
solo gente che si faceva largo per aver ragione con mezzi spicci… Proprio
davanti alla trattoria del Guercio c’era un gran numero di persone, tutte prese
dall’odio e armate di fucile: «Al fascista! Al fascista! - si urlava - Questo
lo fuciliamo!», gridò altissimo uno indicando lo Zio Michele. Il Guercio uscì
dalla trattoria, richiamato dal fracasso e ottenuto il silenzio, fiero, disse:
«Non v’azzardate a toccare quest’uomo, non sapete neanche che cosa ha fatto per
me!». Così, Zio Michele, un fascista, salvò la pelle grazie al Guercio, un
comunista. Grazie Arturo per la storia e per il vino. Buona Festa della
Liberazione!
mercoledì 24 aprile 2013
Eventi. 5 “I bambini che videro la morte”.
Onore e merito alla RAI ed al suo servizio reso finalmente
“pubblico”.
Ieri, sul canale RAI 5, è passato il film “L’uomo
che verrà” del regista Giorgio Diritti. È un film che l’industria
cinematografica, assassina e non più culturale, ha lasciato nell’ombra, anzi
nella oscurità più assoluta. Non penso sia passato per le sale del bel paese.
Io l’ho conosciuto a seguito della scoperta di un altro gioiello di Giorgio
Diritti che è il film “Il vento fa il
suo giro”. Un film bucolico quest’ultimo, una bella e tragica storia
ecologica vissuta in un inesplorato mondo delle Alpi occitane. Il film passato
ieri su RAI 5 è tutt’altra cosa. È la storia di un inverno tra i più terribili,
il 1943. È la storia della piccola Martina, 8 anni, che vive in una povera
famiglia di contadini alle pendici di Monte Sole. La morte di un fratellino, a
pochi giorni dalla nascita, l’ha rinchiusa in un suo mondo fatto di silenzio
assoluto. Martina non parla. Quando la mamma rimane incinta Martina vive
nell'attesa del fratellino che verrà. La guerra infuria non risparmiando nulla,
uomini e cose e rendendo la vita sempre più difficile alle famiglie di
quell’angolo martoriato del bel paese, strette fra le brigate partigiane ed i
ferocissimi nazi-fascisti. Nella notte tra il 28 e il 29 di settembre 1944 nasce
il bambino tanto atteso, in uno scenario terrificante di distruzione e dolore.
Infatti, proprio in quei giorni, le colonne delle SS scatenano nella zona un
rastrellamento senza precedenti. Il 29 di settembre dell’anno 1944 le SS
trucidarono 770 persone tra bambini, donne e anziani in quella che la dolorosa
Storia di quegli anni ricorda come ‘la strage di Marzabotto’. Il massacro toccò
anche l’area di Monte Sole. Il film si chiude con una scena struggente, indimenticabile:
rimasta sola a seguito del massacro della intera sua famiglia, Martina riesce a
salvare il piccolo fratellino per il quale intona una ninna-nanna riprendendo
così a parlare dopo il traumatico, lunghissimo silenzio. Un film straordinario
che ha come protagoniste Maya Sansa – la madre -, Alba Rohrwacher - la
zia - e Claudio
Casadio il papà di Martina. Perché vi ho parlato di questo
straordinario film? Poiché è inimmaginabile quante altre “Martina” siano vissute
negli atroci anni della guerra di Liberazione. Non se ne ha memoria. Liliana, Gli ex bambini salvati per caso” dei quali Simonetta Fiori – su la
Repubblica del 21 di aprile – ci ha parlato in occasione della pubblicazione
del volume “Io ho visto” di Pier
Vittorio Buffa – Nutrimenti editore, pagg. 365, € 19.50 -, ed in occasione dell’attivazione
del sito www.iohovisto.it Dovere della Memoria. Scrive Simonetta Fiori: Alessandro
è uno dei ragazzini sopravvissuti a una guerra dimenticata, la “terza guerra”
dei nazifascisti contro i civili italiani tra il ’43 e il ’45. Quindicimila
vittime. Dopo un lunghissimo silenzio i loro famigliari hanno deciso di
raccontare. Trame che hanno il passo dell’epica, da leggersi con la cautela
dovuta quando si attraversano intimità sconvolgenti. Racconti preziosi per
restituire un capitolo di storia altrimenti minacciato dall’amnesia collettiva.
(…).
Ogni testimonianza è infelice a modo suo, ma quasi sempre c’è un motivo che
ricorre. La scarica della mitragliatrice e l’eco tagliente delle gutturali.
L’odore amaro della polvere da sparo e quello dolciastro del sangue. L’istinto
insopprimibile di fuga, raggelato dalla vista del fuggiasco tramortito dalle
pallottole. Il corpo materno che fa da scudo, e cadendo sul figlio ne
garantisce la salvezza sotto il mucchio dei cadaveri. E quei “racconti
preziosi”, brevi, brevissimi, quasi un lampo, sono proposti di seguito
come “dovere”
insopprimibile della Memoria.
Liliana Del Monte, undici anni il 24 di giugno
1944. “Abbasso le coperte. Ci sono le fiamme. Ma verso la finestra no, dal
letto alla finestra c’è come un corridoio senza fuoco. D’istinto, perché non
penso di aver riflettuto prima di muovermi, scendo dal letto e raggiungo la
finestra… la mamma e i nonni sono morti. Ho visto i loro corpi. Sulle lenzuola
c’era solo sangue e i nonni non si muovevano più. La mamma era per terra,
contro il muro, insanguinata, immobile”. Bettola, Reggio Emilia, 24
giugno 1944. 32 morti. Tra questi la mamma, il nonno, la nonna.
venerdì 19 aprile 2013
Cronachebarbare. 10 Il “perché”.
Perché, come ha scritto Marco
Travaglio – in “Amedeo Nazzari è morto”,
su “il Fatto Quotidiano” del 18 di aprile – “a un uomo libero come Rodotà non
basta neppure aver fatto quattro volte il deputato nella sinistra e il presidente
Pds per piacere al Pd”.? Ed argutamente specifica: “O
meglio, alle care salme che ne sequestrano i vertici, senz’alcun rapporto con
gli elettori (che invece Rodotà lo voterebbero al volo, e cantando per la
gioia). Tanto che, insinua: “Basti pensare che non vogliono neppure
Prodi, che ha il grave torto di aver battuto due volte B., mentre gli altri
hanno perso tutte le elezioni, infatti sono ancora lì”. A questo stato
comatoso è ridotta la cosiddetta “sinistra” del bel paese. È che i capi di quella
“sinistra” che hanno impersonato magnificamente e maldestramente l’”antipolitica”
che è al potere non solo non riconoscono più il proprio “popolo”, attraverso il
quale ricevono il consenso, ma non conoscono neppure i rappresentanti eletti che
siedono loro accanto all’interno del Palazzo. La cecità è totale. In verità era
nel novero delle cose. La “casta” al potere non ha più
sintonia alcuna con la gente e, per dirla con il filosofo Michele Ciliberto
(nel post “Del dispotismo democratico”
del 17 di aprile su questo blog), essa si è assuefatta al potere a tal punto
che come in “ogni forma di dispotismo il
controllo pubblico (le) è
strutturalmente estraneo; anzi, (le) è antitetico. Solo una
presunta superiorità del proprio ruolo d’interpreti della realtà, una vacua
supponenza, un’immarcescibile – anche nelle condizioni più avverse - opinione
di sé stessi, una cieca, sfrontata albagia, hanno potuto portare allo sfascio un
partito, un gruppo dirigente ed una malaccorta strategia. Viene da pensare che
la strategia perseguita fosse proprio quella delle “larghe intese”, andando al
braccio di quel leader che solamente i mercati sono riusciti a mandare a casa. Era
stata chiarissima Barbara Spinelli nel Suo editoriale dell’altro giorno, “Il coraggio della solitudine” sul
quotidiano la Repubblica, laddove scriveva che la cosiddetta “sinistra” del bel
paese “non può che scegliere un Presidente che nell'ultimo ventennio abbia
avversato l'anomalia berlusconiana, e pensato più di altri l'intreccio fra
crisi economica, crisi della democrazia, crisi della legalità, crisi
dell'informazione, crisi dell'Europa. (…). Non può che votare uno dei tre nomi
politicamente forti emersi dal dibattito nel Movimento 5 Stelle: Stefano
Rodotà, o Romano Prodi, o Gustavo Zagrebelsky”. È che Barbara Spinelli
si è dimostrata più in sintonia con il popolo della “sinistra” di tutti quei soloni
che occupano i posti di comando sulla tolda della nave e che, come un
qualsivoglia capitano “Schettino”, manderanno il paese alla rovina. Ciechi e
sordi anche quando, molto disinteressatamente, l’opinionista Alexander Stille consigliava
di procedere facendo - “Quattro consigli
al leader democratico”, sul quotidiano la Repubblica del 17 di aprile - “il
contrario di quello che vuole Berlusconi. (…). Vent’anni di esperienza hanno
dimostrato molto chiaramente che un governo con Berlusconi, per definizione,
non andrà da nessuna parte. Un governo di larghe intese non è un governo tra
destra e sinistra, ma un governo con Berlusconi. Il centro-destra non esiste:
esiste solo il suo padrone. Un governo con Berlusconi è per forza di cose un
governo di non-cambiamento e di non-riforme, perché un monopolista che ha paura
di finire in prigione non può e non vuole un paese dove la classe politica ceda
il potere ai cittadini, un paese più competitivo dove oligarchie e clientele
vengano sostituite con opportunità per gruppi nuovi”. Queste ore
consegnano al popolo della “sinistra” quelle amare risposte che ingenuamente si
sperava di non ricevere, anche perché, in fondo, quel popolo si è mostrato
tentennante, colpevolmente riluttante, a formulare le domande giuste a quegli
sprovveduti strateghi. Tenta di delineare una risposta a quell’iniziale “perché”
Marco Travaglio nel Suo editoriale di oggi - “Perché”, su “il Fatto Quotidiano”: Se la memoria degl’italiani non
fosse quella dei pesci rossi, che dura al massimo tre mesi, i contestatori in
piazza o nel web contro Marini e chi l’ha scelto ricorderebbero che sono
vent’anni che manifestiamo per la stessa cosa. Dal popolo dei fax ai girotondi,
dal Palavobis al popolo viola, da 5Stelle alle altre emersioni del fenomeno
carsico che Ginsborg chiama “ceto medio riflessivo”, l’obiettivo è sempre il
compromesso al ribasso destra-sinistra contro la Costituzione, la legalità, la
magistratura indipendente e la libera informazione. È ora di cambiare slogan e
prendere atto della realtà: urlare “Perché lo fate?” o “Non fatelo!” è troppo
ingenuo per bastare. Perché l’hanno sempre fatto e sempre lo faranno. E non
perché si sbaglino ogni volta. Non si può sbagliare sempre, ininterrottamente,
per vent’anni. È paurosa la sensazione di disorientamento di queste ore.
Si scopre però una certezza: il popolo della “sinistra” è guidato da strateghi
resi ciechi dalla supponenza del potere, dall’alterigia propria di creature
inadeguate a condurre oltre il guado un paese in affanno ed immiserito.
mercoledì 17 aprile 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 5 “Del dispotismo democratico”.
Quirinale e governo del paese: i
temi del giorno. Il bel paese ad una svolta? Lo si è detto anche in altre
occasioni. Ma ricorrente ed invincibile è da sempre il trionfo del cosiddetto
“status quo”, il cambiamento purché tutto rimanga come prima. Ed invece le
necessità incombono. E la necessità prima è rappresentata da una “rottura”
non più procrastinabile rispetto a pratiche che hanno come disossato il bel
paese, ne hanno “scarnificato” il pensiero. Con tutto ciò che tali pratiche
hanno comportato per la tenuta delle istituzioni, per l’etica ed il costume
sociale e per la stessa pacifica convivenza dei cittadini. Scriveva il 17 di
aprile dell’anno 2011 il filosofo Michele Ciliberto sul quotidiano l’Unità – “Dispotismo democratico” – usando
quell’ossimoro: (…) …il potere, specie quello di tipo dispotico, non ha mai tollerato
la dimensione ‘pubblica’, come spiegò a suo tempo Girolamo Savonarola nel suo
Trattato sul governo di Firenze: “...el tiranno è pessimo quanto al governo,
circa al quale principalmente attende a tre cose. Prima, che li sudditi non
intendano cosa alcuna del governo, o pochissime e di poca importanza, perché
non si cognoschino le sue malizie...”. Ecco: a questa denuncia del
grande ferrarese occorre più che mai che oggi si diano risposte vere, senza
sotterfugi. Ecco perché non hanno senso “larghe intese” o quant’altro possa
afferire a quel “dispotismo democratico” del Ciliberto che sotto traccia ha
segnato la vita politica e sociale del bel paese da un ventennio e passa. Oggigiorno
abbisogna un cambiamento, reale, nella prassi e nella sostanza. E tutto ciò che
andasse contro questa esigenza, espressa anche dalle urne delle politiche di
febbraio, andrebbe pericolosamente a rafforzare quel “dispotismo democratico”
che affossa presente e futuro del bel paese. Continua Michele Ciliberto: Ad
ogni forma di dispotismo il controllo pubblico è strutturalmente estraneo;
anzi, gli è antitetico. Il dispotismo può essere combattuto, e anche sconfitto;
ma non addomesticato. Specificando i tratti propri del tiranno, Savonarola ne
individuava anche un altro, che può essere utile citare, per comprendere
qualche tratto del governo dispotico attualmente al potere in Italia: “si trova
rare volte, o non forse mai, tiranno che non sia lussurioso e dedito alla
delettazione della carne”. Come si vede, alcuni comportamenti (…) erano stati
già illustrati alcuni secoli fa, come pure era stato messo a fuoco, sempre da
Savonarola nel Trattato, il rapporto del tiranno con la legge. Come
diviene possibile stringere accordi con un “dispotismo” che ha lasciato un
segno profondo nel corpo vivo del paese, minandone le istituzioni,
corrompendone lo spirito sino alle più sottili delle sue fibrille? Oggi si
gareggia per l’alto Colle ma lo sguardo è puntato oltre, altrove, per quello
che dovrà essere il governo del bel paese. Non esistono scambi che possano
giustificare pratiche oramai invise alla maggioranza dei cittadini. A quella
data – 17 di aprile dell’anno 2011 - Michele Ciliberto aggiungeva nella Sua
riflessione: Dal punto di vista del potere dispotico, la lotta con il potere
giudiziario è una questione di vita o di morte; né può essere conclusa da
qualche forma di tregua o di compromesso. Stupisce leggere ogni tanto commenti
politici nei quali si depreca questa situazione, auspicando una sorta di tregua,
se non di pacificazione. È un auspicio giusto e comprensibile. Chi non vorrebbe
che si uscisse da questa guerra quotidiana tra potere esecutivo e magistratura?
Ma illudersi su questo significa non aver compreso la situazione attuale
dell’Italia, la conformazione dispotica che ha assunto il nostro tempo storico.
Il ‘dispotismo democratico’ è fondato sul rifiuto della moderna distinzione dei
poteri. Quello che distingue il moderno ‘dispotismo democratico’ dalle forme
tradizionali di dispotismo è la diffusione a livello di ‘senso comune’,
quotidiana e ordinaria di questo modo di pensare. Il capo del moderno
‘dispotismo democratico’ usa la legge in chiave privatistica, capovolgendo, in
altre parole, il significato stesso della legge e sostituendo ad essa il
proprio arbitrio; ma ha avuto, e continua in parte ad avere, il consenso di una
larga parte del paese. Da qui la sua novità. A ben due anni da quello
scritto le vicende politiche inducono ad una assunzione di responsabilità che,
se tradita o disattesa, potrebbe condurre il bel paese verso scenari ancora più
difficili se non tragici. Aggiunge quasi in chiusura Michele Ciliberto: Non è
necessario citare Kelsen o Bobbio (…); è sufficiente pensare alla storia del
‘900 e alle forme dispotiche – anche di tipo democratico – che lo hanno
connotato: per quanto diverse esse fossero, sono state tutte costruite sul
primato del ‘popolo’ – cioè della sostanza – contro la ‘forma’ – cioè la legge.
(…). È questo il frutto più avvelenato del moderno ‘dispotismo democratico’.
Esso inquina l’ethos del paese, le ragioni sostanziali per cui un insieme di
uomini diventa una comunità di cittadini, una repubblica, uno Stato,
trasformando in un fatto quotidiano la distruzione della certezza del diritto e
della legge. In questo senso, per ricostituire in Italia la vita democratica
non bisogna ricorrere né ai carabinieri, né alla polizia; la prima cosa da fare
è ristabilire, contro la ‘sostanza’, il primato della ‘forma’, su tutti i
piani, a cominciare dalla vita quotidiana. È con la realtà forse
dimenticata – ma non superata - di quei giorni, così come la delineava magistralmente
Michele Ciliberto quel 17 di aprile dell’anno 2011, che il bel paese deve fare assolutamente
i conti: senza sconto alcuno, senza assoluzioni che sappiano di “è
cosa passata”, poiché il “dispotismo democratico” penso sia
la forma peggiore del cosiddetto “dispotismo” – assoluto, senza aggettivazione
– che il bel paese abbia forse inconsapevolmente vissuto, sottovalutandolo,
ignorandolo, ma pagandone oggigiorno un costo altissimo.
martedì 16 aprile 2013
Strettamentepersonale. 9 Noi e la “voglia” grande d’Europa.
A lato. Fernando Botero (1995). Ratto di Europa.
Ho ricevuto, nei giorni scorsi, un
testo del carissimo amico professor Antonio Pasquale Pelaggi. Titolo del molto
documentato e lunghissimo Suo scritto: “Cronostoria
di un utopico progetto del nostro tempo: Stati Uniti d’Europa”. Per ragioni
prettamente editoriali ho dovuto fare ricorso alle spietate forbici, come di un
occhiuto censore, per la qualcosa me ne scuso con l’amico carissimo. E sì che
l’intero Suo scritto avrebbe meritato ben altra sorte, meritevole come non mai
nella sua interezza dell’attenzione e delle necessarie confutazioni laddove
alcune opinioni contenute le sollecitassero, ma non di meno le regole sono
regole e come tali non me ne sono potuto sottrarre. Conosco da anni il professor
Pelaggi (Ninì per tutti coloro che sono gratificati dalla Sua amicizia) e gli rendo
il riconoscimento di una grande onestà intellettuale e di uno spirito permeato
da grandissime idealità. Ma non di meno sento l’obbligo, in nome dell’amicizia
lunghissima che ci lega, di dargli una risposta che non sia delle solite. Per
sfuggire ad un inutile giro di parole, ad un “arrampicarmi sugli specchi”,
mi pare sia necessario ricorrere alla esperienza ed alla facondia lungamente
maturata di un’opinionista tra i più valenti, la giornalista Barbara Spinelli.
È questo il contributo che mi sento di dare, in questo scambio – forse
diseguale - di osservazioni ed opinioni, all’amico carissimo. Scrive infatti
Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del 10 di aprile 2013 col titolo “L’Europa di Kubrick”: (…).
…sempre più spesso, l'Europa è descritta come utopia, parente prossima di quei
messianesimi politici o religiosi che fioriscono in tempi di guerre, di
cattività, di esodo dei popoli. Il vocabolo ricorrente è sogno. I sogni hanno
un nobile rango: dicono quel che tendiamo a occultare. Resta il loro legame col
sonno, se non con l'ipnosi: ambedue antitetici alla veglia, all'attiva
vigilanza. Ebbene, l'Europa unita è qualcosa di radicalmente diverso da un
sogno, e ancor meno è un'utopia, un'illusione di cui dovremmo liberarci per divenire
realisti; o come usa dire: più moderati, pragmatici. E
molto pragmaticamente l’amico carissimo traccia la “cronostoria” di quello
che definisce “un utopico progetto del nostro tempo”: Nel Febbraio del 1992, Giulio
Andreotti nella qualità di Presidente del Consiglio, Gianni De Michelis come
Ministro degli Esteri e Guido Carli come Governatore di Bankitalia, firmano a Maastricht,
con gli altri dodici Stati Membri, il Trattato sulla costituenda Unione Europea.
Con questo inconsulto (inconsulto? n.d.r.) atto, effettuato senza alcun
referendum popolare l’Italia e gli altri undici Stati Membri, rinunciano alla
sovranità monetaria e nel contempo le Banche Nazionali, e, quindi anche la Banca d’Italia, rinunciano
alla loro piena autonomia, rimettendo il sistema monetario europeo nel suo
complesso alla mercè della Banca Centrale Europea, ovvero alla BCE. (…). Ed è a questo punto che il mio
fraterno contributo all’amico carissimo deve per forza fare ricorso alla
facondia di Barbara Spinelli. Scrive la valente opinionista nella riflessione
già citata: La crisi cominciata nel 2007
ha disvelato quel che avrebbe dovuto esser chiaro molto
prima, e che era chiaro ai padri fondatori: l'esaurirsi dei classici Stati
nazione. La loro sovranità assoluta, codificata nel trattato di Westphalia nel
1648, s'è tramutata in ipostasi, quando in realtà non è stata che una parentesi
storica: una parentesi che escluse progetti di segno assai diverso, confederali
e federali, sostenuti già ai tempi di Enrico IV in Francia e poi da Rousseau o
Kant. Gli effetti sulla vita degli europei furono mortiferi: questa
constatazione, fatta a occhi ben aperti, diede vita, durante l'ultima guerra
mondiale, non già al "sogno", ma al progetto concreto d'unificazione
europea. Nel frattempo tale sovranità assoluta - cioè la perfetta coincidenza
fra il perimetro geografico d'un Paese e quello del potere statuale da esso
esercitato - è divenuta un anacronismo non solo incongruo ma inconcludente, che
decompone governi e Parlamenti. I nodi più ardui da sciogliere - una finanza
mondiale sgovernata, il conflitto fra monete, il clima, le guerre, la
convivenza tra religioni differenti - non sono più gestibili sul solo piano
nazionale. Tanto meno lo sono con l'emersione di nuove potenze economiche (i
BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sud-Africa). La loro domanda di energia,
materie prime, beni alimentari, è in rapida crescita e quel che esse
pretendono, oggi, è una diversa distribuzione delle risorse planetarie:
inquiete per il loro rarefarsi, esigono la loro quota. Non è più tollerato che
una minoranza di industrializzati perpetui tramite l'indebitamento il dominio
sui mercati: è attraverso il debito infatti che i ricchi del pianeta
s'accaparrano più risorse di quelle spettanti in base alla loro capacità
produttiva. È il motivo per cui debiti che erano considerati solvibili non lo
sono più: i BRICS non vogliono più rifinanziarli. Il debito sovrano, in altre
parole, non è più sovrano: va affrontato come incombenza mondiale, e per
cominciare come compito continentale europeo. Pensare che i singoli Stati lo
assolvano da soli, indebitandosi ancora di più, è non solo ingiusto mondialmente:
è ridicolo e impraticabile. Cala così sulla questione una realtà
storica che sembra sfuggire ai più. Ed è in quella realtà, magistralmente
delineata dalla Spinelli, che andrebbero inserite le discussioni. Scrive
l’amico Pelaggi: È interessante (…) ricordare come Carlo Azelio Ciampi, ex Governatore di
Bankitalia, ex Ministro del Tesoro, diventato
Presidente della Repubblica Italiana il
13 Maggio del 99, durante il primo governo D’Alema, abbia salutato l’entrata
dell’euro, dicendo: “l’euro è un grande disegno di pace. È l’impegno solenne
assunto dai popoli europei di vivere insieme. È soltanto il primo traguardo
raggiunto e, come la lira dalla sua nascita nel 1862 fu veicolo dell’unità
d’Italia, l’euro deve diventare motore dell’integrazione del vecchio continente
europeo!”. Bel discorso di augurio, ma nessun cenno alla perdita della
sovranità monetaria ceduta alla BCE, nessun cenno alla perdita di parte della
sovranità popolare riguardo le decisioni politiche nazionali da intraprendere e
nessun cenno soprattutto alla Unione di Stati in realtà ancora inesistente! (…).
Come di rimando (all’amico carissimo) scrive Barbara Spinelli: L'unità
politica fra Europei è insomma la via più realistica, pragmatica, e la più
promettente proprio dal punto di vista della sovranità: cioè dal punto di vista
del monopolio della coesione civile, del bene pubblico, della forza.
L'abbandono-dispersione del monopolio conduce all'irrilevanza del continente e
al diktat dei più forti, mercati o Stati che siano. (…). Non è più vero che il
re è imperator nel suo regno: superiorem non recognoscens (ignaro di poteri
sopra di sé), come nella formula del Medio Evo, quando l'impero era sfidato dai
primi embrioni di Stati. La formula risale al XIII secolo, e nell'800-900
divenne dogma malefico. Oggi il singolo sovrano deve riconoscere autorità
superiori: organi internazionali, e in Europa poteri federali e una Carta dei
diritti che vincola Stati e cittadini. Neanche la sovranità popolare è più
quella sancita nell'articolo 1 della nostra Costituzione: non solo essa viene
esercitata "nella forme e nei limiti della Costituzione" - dunque è
divisibile - ma sempre più è scavalcata da convenzioni transnazionali (il
Fiscal Compact è tra esse) che minacciano di corroderla e screditarla, se non
nasce una potente sovranità popolare europea. Chiude il Suo scritto
l’amico carissimo: (…). È (il Fiscal Compact n.d.r.), (…), l’atto finale di un vero e
proprio piano di annientamento e di consequenziale sottomissione dei Paesi
dell’Eurozona, in particolare di quelli che sono già in difficoltà economiche e
di quelli che presto lo saranno, alla detta Finanza dei Tecnocrati che si
nascondono dietro le Istituzioni UE, nominate da privati e controllate da
privati, a loro volta incontrollabili ed ingiudicabili, secondo le norme ed i
regolamenti di volta in volta inseriti nei vari Trattati. (…). E
Barbara Spinelli conclude: Dove sta allora, oggi, l'utopia? Sta nella
perpetuazione di sovranità nazionali fittizie: tenute in semi-vita da simulacri
di poteri e da cittadini disinformati (le due cose vanno insieme: più
spadroneggia lo status quo, più la realtà vien nascosta ai popoli). (…). Tepidezza,
incredulità, paura: questi i sentimenti che impediscono la nascita di ordini
nuovi. L'ordine vecchio è difeso con partigianeria, anche quando è
manifestamente defunto. Quello nuovo con tiepidezza, anche quando è
manifestamente necessario. (…). Dunque quando incontriamo un antieuropeo
dovremmo replicare, se vogliamo cambiare il mondo: sono io lo scettico, non tu
che stai sdraiato nel falso ordine vecchio per timore del nuovo che già è
cominciato. Ha scritto nell’incipit del testo l’amico carissimo: Negli
anni 50, subito dopo la seconda guerra mondiale ed ancora sotto gli effetti
disastrosi ad essa consequenziali, alcuni leader quali: Beyen, Adenauer, Bech,
Churchill,De Gasperi, Spaak Hallstein,Manshot,Monnet,Schuman e Spinelli, in una
condivisa visione di pace, stabilità, crescita e prosperità dei popoli europei,
hanno ispirato la creazione dell’Unione Europea, nella speranza di allontanare
dall’Europa il pericolo di nuove guerre fratricida. Mi chiedo, in una
scala di valori condivisi, quale altro imperativo possa sopravanzare la
ricerca, con tutti i mezzi possibili, della pace? I 68 anni di pace ad oggi vissuti
in Europa, pur nel brancolare di questa costruzione europea, penso che
rappresentino la garanzia unica per il futuro di tutti i popoli della vecchia
Europa.
lunedì 15 aprile 2013
Cosecosì. 51 Matite copiative.
“In verità vi dico” – volendo
evangelicamente parlare - che era da tempo immemorabile che non leggevo
qualcosa di veramente “notevole”, “intelligente” – ché pochissime
sono in verità le cose intelligenti da leggere in rete -, “rivoluzionario” – poiché
oggigiorno quasi tutto concorre ad una rivoluzione farlocca che non si invera
mai, basta che quel tutto o nulla appaia su un qualsivoglia dei media -, “epocale”
– come lo sono anche le banalità più becere e grossolane di questi tempi -. L’ho
letto, quel qualcosa intendo dire, quando un intrepido internauta ha postato un
messaggino, piccolo, piccolo, minuto anzi, indirizzato ai “dioscuri” – spero che non
ne abbiano a male quelle divinità per l’incauto accostamento - del “M5S”
– orribile acronimo -, ovvero dei “penta-stellati” ma senza luce
propria, ché le stelle, in verità, risplendono di luce propria. Messaggino che
molto semplicemente invitava quei due guru a ritornare alla “matite
copiative”. Fa proprio scandalo quel messaggino? O non disegna una
realtà ben precisa e che conosciamo tutti? Solamente le “matite copiative”
darebbero un senso compiuto al “mugugno” perenne dell’italico
popolo-elettore. Ché quello stupendo messaggino non fissi, come su di una rupe
di Lascaux, una arretratezza tecnologica e culturale di questo disastrato
paese? Scriveva quel messaggino l’intraprendente e, forse, incauto internauta
dopo la tristissima esperienza delle “quirinarie”. Sappiamo come siano
andate a finire le “quirinarie”. Riservate ai pochi “intimi” della nuova “casta”
asserragliata nella rete, quasi murata in essa, non hanno fatto altro che
precisare i confini di un fenomeno nuovo, ma atteso, ed hanno dato lo spessore vero
di una “non-partecipazione” attiva e consapevole, e senza ritorni, che
oggigiorno fa tornare comodo affidarsi ad una entità nuova, a “quelli
della rete” per l’appunto. Un’evoluzione senza consapevolezza, verrebbe
da dire. E cosa dire, se ce ne fosse bisogno ancora, delle “parlamentarie”? Se non
ricordo male, un paio o tre soltanto di decine di migliaia degli asserragliati
in rete hanno deciso per il rimanente di quello che sarebbe stato il popolo-elettore
di quegli intrepidi. Per il resto, un popolo-elettore che con le pratiche nuove
della rete ha poco da spartire. Del resto, dell’arretratezza tecnologica e
culturale del popolo-elettore se ne aveva contezza da tempo, anzi da sempre,
senza menare scandalo. Perché non approfittarne? Il “mugugno” esiste, la
voglia di partecipazione in prima persona del cittadino-elettore alla vita
politica si è ridotta al lumicino, perché non approfittarne? In fondo, il
grosso del popolo-elettore oltre il “mugugno” di rito non ha preteso,
come sarebbe stato auspicabile, un ben diverso comportamento della “casta”
della politica. Un “intrallazzismo” di maniera diffuso ha fatto comodo in alto
come in basso; ed il “tengo famiglia” ha orientato
l’opera degli addetti ai lavori e delle loro ampie confraternite. E poi,
avranno pensato in tantissimi del popolo-elettore, perché non affidarsi ad una “casta”
ancora non sperimentata? Affidiamoci ad essa, seppur essa viva asserragliata
nella grande rete, e speriamo che il “cielo ce la mandi buona”. Oggi, ad
urne oramai chiuse, sembra che non sia così! Il cielo continua ad odiare gli
inetti! Ed allora le “matite copiative” dell’internauta
hanno un senso compiuto e ben preciso. Segnano l’inadeguatezza tecnologica e
culturale di quel popolo-elettore che ha preferito affidarsi, ciecamente, senza
una compiuta consapevolezza, al novello “principe”, “mondo”, “intrepido”,
“tetragono”
alle lusinghe del politichese ma anche alla doverosa responsabilità delle
decisioni, “principe” che monderà le lordure del passato. Scriveva Giacomo
Papi il 28 di maggio dell’anno 2011 – sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica,
col titolo “Le matite copiative” -: Lo
confesso: da quando sono diventato maggiorenne a ogni elezione pianifico il
furto della matita copiativa. Alla base dev'esserci la credenza superstiziosa
secondo cui impossessarmi della sua invisibile incancellabilità significhi
disporre di un oggetto magico, capace di trasformare le speranze in
accadimenti, le idee più belle in mondi migliori, le volontà più giuste in
realtà condivise. Così, anche questa volta, dentro la cabina, prima di votare,
me la rigiro tra le mani e la osservo. È giallina e sopra c'è scritto ministero
dell'Interno e un nome misterioso: Pierleoni srl Roma. Fuori dal seggio,
telefono. Il magazziniere mi passa il responsabile che mi spiega che loro sono
i distributori mentre le matite (circa 250mila a ogni elezione) sono importate
dal Brasile e prodotte dalla Lyra, una ditta tedesca fondata nel 1806 a Norimberga che nel
2008 è stata assorbita dalla Fila. Furono inventate intorno al 1870, le matite
copiative, quando il signor László Bíró non era ancora nato, penne a sfera e
pennarelli non c'erano e si scriveva intingendo il pennino nell'inchiostro. Per
renderle indelebili si aggiunsero anilina e pigmenti alla normale grafite. Si
diffusero in fretta. Durante la prima guerra mondiale l'esercito britannico ne
ordinò a decine di migliaia per gli usi militari. Erano pratiche, economiche e
incancellabili. E poi il “salto” magico del Suo scrivere, di
Giacomo Papi, del quale sono attento ed entusiasta lettore, la magia di
un’intuizione e di un esplorare l’infinito mondo delle idee che rende la
scrittura un’avventura nell’avventura sempre magica e misteriosa all’interno
dei labirinti della mente umana: Erano moderne, ma il bisogno che
soddisfacevano era millenario, anzi ancestrale. Era il bisogno di tracciare
segni perpetui iniziato con le incisioni rupestri, continuato con gli
scalpellini e gli amanuensi che si compiva grazie alla rivoluzione industriale
nel segno della praticità e della produzione in serie. Era il bisogno di
scrivere per sempre, in eterno, una volta per tutte. Di comunicare non solo ai
contemporanei, ma anche eventualmente agli uomini futuri. Per questo, in Italia
furono ritenute adatte alla democrazia. Ecco, il sotterraneo legame tra
le “matite
copiative” e la nostra decadente democrazia. Al tempo dello scritto del
Papi la “casta” della rete non si era ancora compiutamente appalesata.
Ma certamente Giacomo Papi aveva presente l’inadeguatezza, anzi l’arretratezza tecnologica
e culturale del bel paese. E laddove scrive “delle incisioni rupestri”, come
di sfuggita, alle quali assimila il tratto indelebile delle “matite
copiative”, non si può non scorgere la consapevolezza Sua di avere a
che fare, tecnologicamente e culturalmente parlando a proposito del
popolo-elettore, a quegli incisori delle rocce delle famosissime grotte di
Lascaux nella lontanissima era pre-moderna nella Francia sud-occidentale. E
l’internauta, con quel suo innocente messaggino, non ha fatto altro che
ricondurre, senza eccessivo giro di parole, le vicende dell’oggi alla loro tragicissima,
inattesa complessità. Continua Giacomo Papi in quello stupendo Suo scritto: L'articolo
16 della Legge 29 del 6 febbraio 1948 afferma: "Il voto si esprime
tracciando un segno con la matita copiativa sul contrassegno o, comunque, sul
rettangolo che lo contiene o sul nominativo del candidato prescelto". (…).
Matite copiative, cabine, schede e urne appaiono anacronistiche come i tram a
cavalli. Però sono ciò che rimane della democrazia per come l'abbiamo
conosciuta, ciò che la difende da un futuro che facciamo fatica a precisare, ma
di cui è già possibile intuire i contorni. Un'epoca in cui l'opinione pubblica
sarà sondata grazie al marketing e alla statistica, si esprimerà rispondendo a
sondaggi e firmando petizioni online, e il re del mondo verrà telenominato via
sms come il vincitore di Sanremo o di un reality show. Scrisse l'anarchico
gallese Gafyn Llawgoch che però per le elezioni nutriva una vera passione:
"Si vota scrivendo una X. La X è la firma delle persone che non sanno
scrivere. Forse vuol dire che il voto è il nucleo di ogni firma
possibile". Ecco: il bel paese è fermo al tempo della “Legge
29 del 6 febbraio 1948”.
E di quell’articolo 16.
giovedì 11 aprile 2013
Cosecosì. 50 “Tutti fanno tutto pur sapendo poco”.
“L’ultimo flagello
dell’antipolitica: tutti fanno tutto pur sapendo poco”. Ha così
titolato la Sua riflessione, sul Venerdì di Repubblica del 29 di marzo,
Massimiliano Panarari, politologo ed esperto della comunicazione. Sarebbe il
caso che le lancette dell’orologio del nostro tempo venissero portate indietro,
ovvero al tempo delle “irresponsabilità” di quel sedicente
ministro della “finanza creativa” che osava dire, con voce chioccia ed imperturbato,
come la “cultura” non desse da mangiare. O come amava asserire,
vantandosene, il “conducator” di quel tempo, tempo appena passato ma sempre pericolosamente
presente, di non avere letto un libro da un ventennio abbondante. E lo asseriva
con grande soddisfazione. Torna tutto – a conferma - nel solco di quella forma
di potere che vado definendo come “scarnificazione” del pensiero. E
torna tutto a disdoro di una “casta” dell’”antipolitica” al potere
che è stata asservita, ciecamente, ai dettami di quella “finanziarizzazione” dell’economia
e della vita sociale nel suo complesso che ha condotto l’intero pianeta negli
abissi della insuperabile, con gli strumenti attuali, “crisi”
economico-finanziaria e che ha impedito, peraltro, una visione delle condizioni
di vita e delle esistenze diversa. Laddove il “ben-essere” – sempre con
il trattino - della società nel suo complesso viene riposto esclusivamente –
con il Pil e quant’altro - nel consumo di beni e di cose a tutto detrimento
della sfera della conoscenza e di una più sana relazionalità tra gli esseri
umani. Scriveva l’Aretino (1304-1374) in una Sua lettera all’amico Giovanni
Anchiseo: Non riesco a saziarmi di libri, e sì che ne posseggo un numero
probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come con le altre cose: la fortuna nel cercarli è
sprone a una maggiore avidità di possederne. Anzi coi libri si verifica un fatto singolarissimo: l’oro, l’argento, i
gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti, il destriero dall’elegante bardatura, e le
altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i
libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci
consigliano e si legano a noi con una sorta di famigliarità attiva e
penetrante. È certo che al tempo Suo non esistessero il Pil e lo
spread. Ma tant’è: agli uomini di ogni tempo quel che essi meritano. Ma la
felice intuizione di Massimiliano Panarari riporta alla mia mente la riflessione
dotta del professor Gustavo Zagrebelsky – “La
nostra Repubblica fondata sulla cultura”, sul quotidiano la Repubblica del
5 di aprile -: La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più
approfondite e settorializzate; dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri
la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società
dove pressoché tutte le decisioni politiche hanno una decisiva componente
scientifica e tecnica, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Per prendere
decisioni democraticamente e consapevolmente in campi specialistici, chi non sa
nulla deve potersi fidare di chi detiene le conoscenze necessarie. Non in nome
della Verità, che non sta da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che
può stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in
primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni
intellettuali, la cultura come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e
convivenza sarebbe un corpo morto. È come mettere il dito in una ferita
resa purulenta. Nella ferita inferta al “pensiero” in quanto tale, laddove
l’”immediatezza”
e del “conoscere” purché sia ed al contempo del “non sapere” intuito da
Panarari, affondano, per annullarle, ben altre specificità che al pensiero
degli umani sono state legate per secoli e secoli. Continua il professor Zagrebelsky:
La
chat e i suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup, mailing list,
facebook, messaggi immediati d’ogni tipo – appartengono al mondo
dell’istantaneità; i libri al mondo della durata. I messaggi immediati appartengono
alla comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione vive
dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La comunicazione non ha
onere d’argomentazione e non attende risposte. Il suo fine è dire e ridire su
ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il
libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico – appartiene a un altro
mondo. Nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul
bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto
è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e
scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare?
L’invasione degli instant books è la conseguenza della medesima risposta a entrambe
le domande, rivolte agli autori e ai lettori: poco, molto poco, forse sempre
meno tempo e meno concentrazione. Ecco l’uomo “nuovo” che appare ben
delineato dai e nei progetti di coloro i quali detengono il potere di costruire
le società dell’oggi e del domani. L’uomo “nuovo” che non abbisogna di “concentrazione”
alcuna, e che dell’”immanenza” del pensiero degli umani, che ha contribuito a
costruire ciò che osiamo definire la “Memoria”, pensa di poterne facilissimamente
fare a meno. La “profondità” dell’Aretino è la moneta buona che è stata
scacciata, nel gran mercato degli umani, dalla moneta cattiva dell’”immediatezza”
del conoscere per conoscere estesa anche alla sfera delle loro relazioni. Conclude
l’illustre pensatore: Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza
del libro non è una rivendicazione a favore d’una élite di pochi fortunati
lettori. La diffusione della lettura non appartiene al superfluo d’una società
non solo, com’è ovvio, perché ha a che vedere con la diffusione
dell’istruzione. Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza, cioè
della condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile a quanto
c’è di più decisivo per la tenuta della compagine sociale, cioè la
partecipazione a una delle tre “funzioni sociali”: la funzione politica di
fondo, meno visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più determinante
della stessa azione politica in senso stretto, la quale, nella prima trova i
suoi limiti e i suoi fini. Si tratta, per l’appunto, della cultura.
martedì 9 aprile 2013
Cronachebarbare. 9 La politica del “Bagaglino”.
Quadro primo. L’altro ieri. Andante moderato.
“Berlusconi disprezza i principi
della nostra democrazia, offende la Costituzione, ha in mente una forma moderna
di autoritarismo: non vuole governare, vuole essere il padrone dell’Italia. Non
è il momento della delusione, dell’astensione: non dobbiamo tradire i nostri
padri”. Debutto da segretario Pd il 21 di febbraio dell’anno 2009.
“È il momento in cui tutti gli
italiani che credono nei valori condivisi della Costituzione, dall’antifascismo
alla Resistenza, comincino una lunga battaglia per difendere la democrazia
italiana”. Il 22 di febbraio dell’anno 2009 nella natìa Ferrara.
Quadro secondo. Ieri. In crescendo.
“Non può esserci un nuovo governo
sostenuto da avversari”. Il 3 di agosto dell’anno 2012.
“Non diciamo a Casini di entrare
nel centrosinistra, ma un percorso comune serve al Paese perché non ci saranno,
dall’altra parte, il Ppe spagnolo o la Cdu tedesca, ma Berlusconi e la Lega”.
Il 31 di agosto.
Quadro terzo. Oggi. L’inesorabile.
“Ingroia dice di chiudere la
porta a noi, ma la apre alla destra, perché col Porcellum ogni voto sottratto
al Pd è un voto regalato a Berlusconi e Lega”. Il 19 di gennaio
dell’anno 2013.
“Ai tanti italiani giustamente
arrabbiati e delusi dalla politica, che magari votano Grillo o Ingroia, diciamo
che non è il momento di sprecare un voto, che potrebbe essere determinante per
tornare a far vincere la destra e Berlusconi. Un rischio troppo alto”. Il
25 di gennaio.
“Le parole di Berlusconi sono una
vergogna e un insulto alla storia e alla memoria. Chieda scusa agli italiani”. A
proposito del “fascismo buono”. Il 27 di gennaio.
”Sono vent’anni che Berlusconi
imbroglia gli italiani”. Il 4 di febbraio.
“A ogni persona di buonsenso
dovrebbero venire i brividi solo a pensare a una sua vittoria: spread alle
stelle, derisione nel mondo, ripercussioni in Europa, abuso totale di ogni
regola… uno scenario fanta-horror, l’Italia una specie di Gotham City”. Il
5 di febbraio.
“Ogni voto tolto a Bersani
rischia di far vincere Berlusconi, Calderoli, La Russa. È un incubo che si
evita solo col voto al Pd”. Il 20 di febbraio.
“Se non avessimo la maggioranza,
ci porremo il tema di un allargamento della maggioranza, ma mai alla Lega e
Berlusconi”. Il 22 di febbraio.
“Con Berlusconi non facciamo
intese”. Il 17 di marzo.
“Non c’è dirigente, parlamentare
o iscritto al Pd che non capisca che non esistono le condizioni politiche per
un governo sostenuto da noi e Pdl”. Il 24 di marzo.
Quadro quarto. Domani. La piroetta.
“Non resta che uscire dall’incomunicabilità e abbandonare questo complesso di superiorità, molto diffuso nel nostro schieramento, per cui pretendiamo di sceglierci l’avversario. Ci piaccia o no, gli italiani hanno stabilito che il capo della destra è ancora Berlusconi. È con lui che bisogna dialogare”.
Dichiarazioni rese alla stampa
dal molto onorevole Dario Franceschini e
riportate in “Francesconi” di Marco
Travaglio, su “il Fatto Quotidiano” del 9 di aprile 2013. Ci risiamo! E gli
elettori non contano nulla?
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