Ha scritto Giovanni Valentini –
la Repubblica del 15 di dicembre, “L’ultimo
revival dell’illusionista” -: (…). Ora Pierferdinando Casini scopre che
l'illusionista è in uno "stato confusionale". Ma da quanto tempo è
così? E dov'era Casini all'inizio della malattia? Dov'erano tutti gli altri,
amici, sodali, cortigiani, quando la degenerazione era ormai in atto? Oggi fa
quasi impressione ascoltare dalla loro viva voce che tanti ex berluscones non
lo sopportano più, lo detestano, anzi lo "odiano". L'infatuazione è
finita, l'incantesimo s'è rotto. La Sindrome di Arcore finalmente è superata.
Ma quanti danni nel frattempo sono stati prodotti all'Italia, anche con la
complicità di chi non voleva vedere né sentire; quanti errori sono stati
commessi; quante occasioni e quante opportunità sono state perse; quante
risorse sono state sprecate. (…). Ed ancora oltre, in quel pregevole pezzo:
"Ma
chi è questo B?", si chiede adesso con malcelato sarcasmo Roberto Maroni,
l'erede del senatùr alla guida del Carroccio, dopo aver fatto più volte il
ministro del misterioso personaggio in questione. Già, Mister X: un nome
impronunciabile, una figura da rimuovere, un incubo da dimenticare. Ma anche la
Lega è correa del misfatto, alleata e complice per vent'anni del "signor
B". (…). Due citazioni che rendono ancor degna ed accettabile l’esistenza
di questa rubrichetta da quattro soldi. La rubrichetta del “doveravatetutti”,
allora… Con quella che voleva pur essere una domanda, la più perfida che si
possa immaginare. E che abbisognerebbe di risposte. Ma di risposte non ce ne
sono. E non ce ne saranno. Mai. E poi mai. Non rientra nello stile, nei canoni
della gente del bel paese avventurarsi sulle impervia strade delle domande. Ché,
per dirla con una famosissima battuta cinematografica, è pur vero che le
domande rendono saggi, ma le risposte rendono umani. Manca l’umanità al nostro
tempo, per l’appunto. L’umanità che è mancata anche al natale appena passato. Ed
ora che il natale ha preso la sua via, allontanandosi con il suo diluvio d’inutile
bontà, anzi di inutile buonismo dispensato a buon prezzo, non ci resta che
confrontarci con la squallida e perigliosa realtà dei nostri giorni. Ché tali
rimangono, cadute le ultime illusioni. Ovvero, l’illusione d’avere messo da
parte cialtronerie e cialtroni e quant’altro afferisca alla turpe pratica
dell’illusionismo collettivo. E forse di un ritorno non sarebbe il caso proprio
di parlare. Ché poi è stato sempre lì, ben acquattato dietro le quinte di quel
teatrino della politica che tanto, a suo dire, aborre. Ma che non pensa di
abbandonare. È che questo natale ci ha portato anche la prima ricorrenza,
tristissima, della dipartita di un testimone dei nostri tempi, di quel Giorgio
Bocca l’assenza del quale rende ancor più difficili i giorni nostri. Scriveva
quel testimone attento – il Venerdì di Repubblica del 28 di gennaio dell’anno
2011, “Il turpe spettacolo che dà il
sultano sul viale del tramonto” -: “Nei giorni del suo tramonto, il Cavaliere
continua a dispensarci i suoi detti e motti di vanità e di stoltezza. In un suo
messaggio alla nazione ha detto: “Fra le quattro mura di casa, nel suo privato,
ciascuno può dire e fare quello che vuole”. L’esatto contrario della morale
kantiana dell’uomo solo di fronte agli imperativi della sua coscienza. Ecco la
morale degli uomini che fanno e non pensano: occhio non vede cuore non duole.
Nei giorni del suo tramonto il sultano dà il peggio di sé. “Mi diverto un
mondo” ha detto, “non me ne vado”. E, per rammentare ai suoi accusatori la sua
umana generosità, ha ricordato di aver aiutato il gran ruffiano di corte che
gli forniva le donne da conio. Se c’è un peccatore di cui i moralisti
dovrebbero ricordarsi per la tristezza della lussuria è proprio lui. Si sa che
le orge sono le manifestazioni più vergognose dell’umanità, quelle in cui si
perde ogni rispetto di sé e degli altri, in cui ci si abbandona al turpe e al
ridicolo. L’idea che erano il solo modo di svagarsi che il nostro avesse dopo
una giornata di duro governo è deprimente. Al sultano in disgrazia i nemici, ma
anche gli amici, consigliano “un passo indietro”, che nel linguaggio della
politica significa scappa, ritirati se vuoi evitare il peggio. Ma lui digrigna
i denti, dice che non mollerà mai il potere, promette danni e lutti e sale al
Quirinale, dice al capo dello Stato di essere ingiustamente calunniato, accusa
l’intera magistratura di complotto ai suoi danni, prima di lui Tiberio aveva
avuto l’accortezza di far sparire i testimoni dalle rupi di Capri. Ma lui è
buono, se li è tenuti tutti attorno e ora racconta per filo e per segno ai
sudditi sbalorditi di quali vergogne fosse al centro. La stampa al suo servizio
continua a difenderlo con l’unico risultato che vengono fuori le debolezze e i
vizi pubblici, la generale acquiescenza al potere, la viltà di fronte alle sue
minacce. Se si pensa al regime fascista, alla dittatura mussoliniana si fa un
confronto umiliante per il presente: il dittatore fascista era attento alla sua
immagine di amico del popolo, era di vita privata modesta, di peccati nascosti.
Si dirà che nel regime fascista si rubava poco perché c’era poco da rubare e
che l’attuale abbondanza è una delle ragioni della corruzione generale, ma
anche nella dittatura alcuni ritegni, alcune vergogne, alcuni timori di una
punizione restavano. Con il Cavaliere siamo scesi al fondo e ci vorranno anni,
decenni per risalirne”. Cadono così le illusioni. Tutte. Mi pare di
rendere così un omaggio, in questo sempre più svogliato natale, alla carissima
memoria di quel testimone, nell’indifferenza generale di quanti non amano
proprio che si pongano domande del tipo “doveravatetutti” quando Giorgio così
scriveva. O che forse disturbava proprio per quella Sua scrittura diretta e
spigolosa, come il Suo carattere di resistente, d’intrepido montanaro.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 26 dicembre 2012
mercoledì 19 dicembre 2012
Cosecosì. 36 Quando il Natale era un’orgia consumista.
Quando il Natale era un’orgia
consumista. Mi viene da scrivere al passato. Che non lo sia più un’orgia
consumista? Auspicabile. Però, come si suol dire, “i casi della vita”: “L’idolatria
del Natale contemporaneo è bel altra cosa dalle sue origini pagane. Fa
prevalere l’arroganza di chi ha rispetto a chi non ha, il misurarsi sulla
quantità dei doni” . È che me ne sono ricordato, di quella intervista
ad Enzo Bianchi priore di Bose, concessa a Gad Lerner il 24 di dicembre
dell’anno 2010 e pubblicata sul settimanale il Venerdì di Repubblica, dopo aver
ascoltato per televisione l’ultima intemerata del capo della chiesa di Roma.
Come sempre giunge tardi, l’intemerata intendo dire. Fuori tempo massimo. Pronunciata
quella, prima di eccellere nell’arte del magistero etero-diretto con
l’intemerata pronunciata contro le sessualità diversamente vissute che
metterebbero a rischio la pace planetaria. Trasecolo. In quella intemerata,
pronunciata con notevole ritardo rispetto ai tempi della umana storia, che è
certamente diversa e diversamente scandita rispetto alla storia pensata e
vissuta dalla chiesa di Roma, il capo di quella chiesa declama l’orrore suo per
la mercificazione della imminente festività natalizia. Sic! Per l’imminente, a
suo dire, orgia consumista che stravolgerebbe il senso cristiano della festa.
Desta impressione per tanto tempismo. È che a cancellare l’imminente paventata
orgia consumista ci ha pensato la “crisi” che da un lustro almeno
striglia convenientemente le famiglie spingendole a più consapevoli
comportamenti. E le tasse e le gabelle imposte pure. E la mancanza di lavoro
per milioni di persone pure . E l’incertezza di un futuro più nero che mai pure.
Di tutto ciò al capo della chiesa di Roma non sarà giunta notizia alcuna. È che
nel magistero etero-diretto qualche intoppo avrà creato un possibile “baco” nel
fluire della spirituale ispirazione dall’alto. Non desta impressione la
discrepanza temporale nell’azione del magistero dei capi della chiesa di Roma.
Ne è una costante. Ne è la cifra che la rende riconoscibilissima. La pratica
sanguinosa dell’inquisizione, l’uso smodato delle armi benedette nelle
crociate, il rogo di Giordano Bruno, l’isolamento della mente eccelsa dello
scienziato Galileo, e di quant’altri ancora finiti nell’abbraccio delle sue
amorevoli cure, stanno lì a dimostrare come quel magistero etero-diretto a
flussi incostanti sia solamente il frutto di una preoccupazione eminentemente
temporale che non accoglie la trascendenza come riferimento primo della azione
pastorale tra gli uomini. La non dimenticata intervista rilasciata da Enzo
Bianchi – che di seguito trascrivo in parte - sta lì a dimostrare la caparbia
arretratezza di un magistero che si rinchiude tetragono alle novità che il
mondo che sta “fuori” prospetta e aspetta siano ascoltate se non amorevolmente
accolte senza l’attesa di un pentimento che verrà dopo, ma molto tempo dopo.
(…). “Che male c’è se il Natale è
festa accogliente per i pagani?”, mi sorride con gli occhi furbi da contadino
il priore di Bose. “Non ce lo insegna pure l’Antico Testamento? Nel Tempio di
Gerusalemme i sacerdoti avevano pensato il cortile dei goyim, cioè un luogo
adibito a ricevervi i non ebrei. Ed era uno spazio più grande di quello
riservato a Israele nel Tempio”.
Dunque tu immagini un Natale
rivolto ai pagani? “A tutte le genti, direi meglio. Mio padre, che non era
cristiano e che avversò a lungo la mia scelta monacale, è ancora lì che mi
ammonisce a non giudicare mai le persone suddividendole fra credenti e non
credenti. Lottare contro gli idoli che disumanizzano e alienano la relazione
con gli altri è un’esperienza che ci accomuna ben oltre affiliazioni
schematiche”.
Ma chi dovremmo festeggiare la
notte del 24 dicembre? Un poco verosimile Dio bambino? “Gesù è nato uomo,
completamente uomo. Egli giungerà a raccontarci Dio ma attraverso il suo
percorso di vita umana. La sua testimonianza è straordinaria grazie, per
l’appunto, alla sua straordinaria umanità. Dunque chi deifica Gesù sulla terra
commette un errore, lo deifica troppo presto”.
Ciò che dici conforta il mio
punto di vista ebraico, così come mi è piaciuta nel libro la tua definizione
dell’”uomo Gesù che ha raccontato Dio”. Ciò consente di recepire senza
pregiudizi il suo messaggio, come messaggio di un profeta ebreo… “Gesù era
uomo, totalmente uomo, e questo in effetti si può dire anche degli altri
profeti, da Isaia a Ezechiele. Perché no?”.
Ma allora che senso ha adorare
Gesù come incarnazione divina? Io non provo questa necessità di un Dio che si
faccia uomo come precondizione a instaurare una relazione intensa con Lui. “Perché
abbisogna pensare un Dio che si faccia uomo, attraverso Gesù? Forse ti stupirò,
ma accetto questa tua obiezione. Non abbisogna necessariamente. Tanto è vero
che la fede ebraica si è mantenuta, il cristianesimo non l’ha annullata. Noi
cristiani proviamo la necessità di alzare il velo sulla relazione misteriosa
che congiunge l’uomo a Dio, e raccontarci Dio attraverso l’esperienza medesima
della carne umana. Ma non è vero che senza Cristo, cade Dio”.
Riconosci quindi il Natale come
festa intrisa di reminiscenze pagane? “Lo riconosco senza esserne turbato,
perché il Natale è la nostra festa che meglio dimostra l’inculturazione della
cultura cristiana. Ciò sarebbe impensabile nella Pasqua, che celebra il mistero
della morte e resurrezione tanto più difficile da accettare, eppure decisivo.
Mentre la nascita di un bambino, ne converrai, è sempre motivo di festa per
tutti. Il Natale ha una portata antropologica molto forte, non a caso,
soprattutto in Occidente”.
Anche perché vi ricomprende le
tradizioni pre-cristiane, vero? “Certo, pensalo nel nostro Monferrato cosa
significa, appena superato il solstizio d’inverno, celebrare la vittoria del
sole sulla notte, la luce, le giornate che ricominciano a allungarsi. Ovvio che
le luminarie di Natale precedono il cristianesimo, perché precedente è il
bisogno di vincere il buio. Anche l’impiego del vischio, quando la terra è
congelata, era già un’abitudine celtica da noi ereditata. Nel momento più duro
dell’anno naturale la famiglia si raccoglie e per contrasto festeggia, si
consola scambiandosi doni. In questo senso il Natale è più antropologico,
mentre a Pasqua la storia prevale sulla natura”.
Anche tu, però, nel libro,
critichi “l’ideologia del Natale”. La tua indulgenza per i pagani non arriva a
giustificare l’orgia consumistica contemporanea. “Un conto è il presepe, la
capanna della natività che esercita un richiamo meraviglioso perfino su uomini
sapienti che non avevano la fede nel Dio d’Israele: i magi. Penso a loro,
capaci di una ricerca, di una lotta anti-idolatrica, di inseguire una speranza
che abita tutta la storia umana…
Mi stai dicendo che si può essere
pagani e anti-idolatri nello stesso tempo? “Ma certo, di nuovo è mio padre che
me l’ha insegnato. C’è il giusto e l’ingiusto, mica il battezzato e il non
battezzato. L’idolatria del Natale contemporaneo è bel altra cosa dalle sue
origini pagane. Fa prevalere l’arroganza di chi ha rispetto a chi non ha, il
misurarsi sulla quantità dei doni. Fino a rendere questo Natale invivibile alle
persone sole, agli emarginati, ai più poveri. È assurdo, ma in questi giorni di
una festa mal vissuta aumentano perfino i suicidi”.
Se ben capisco, devi ai pochi
anni trascorsi con tua madre la fede cristiana che ha fatto di te uno studioso
della Bibbia e il fondatore di una comunità monastica. “È così, ma se n’è
andata troppo presto e quindi il suo impulso spirituale non sarebbe bastato
senza l’apporto di Cocco e Etta, le due donne al tempo stesso pie e curiose,
aperte, che si presero cura di me dopo la morte della mamma. Un commiato che
aleggia in ciascuna delle mie notti, perché la camera da letto era unica nella
nostra casa dignitosa ma povera; e io ricordo le sue crisi asmatiche, ogni
volta col dubbio di risvegliarmi al mattino senza che lei ci fosse più. Sono
passati più di sessant’anni ma tuttora non amo andare a letto, fatico a
addormentarmi”.
Ricordi il Natale con tua madre? “Lo
ricordo con gioia e lo perpetuo nella sua ferma volontà che la cena natalizia
preveda diciassette portate, non una di meno! Bisognava che si facesse festa
dello stare insieme. E siccome in famiglia eravamo solo tre mentre – come
diceva la mamma - la tavola ha quattro lati, c’era sempre il posto per chi era
rimasto vedovo da poco, o per il girovago delle nostre campagne. Proprio come
fate voi ebrei nella cena pasquale, quando apparecchiate un coperto in più per
il profeta Elia”.
mercoledì 12 dicembre 2012
Cosecosì. 35 Matera: un dono per Gaia*.
“Sono tornata nella bella città
lucana, patrimonio della Umanità, dopo molti anni. Il primo pensiero su tale significativa residenza era
stato dettato dai ricordi fermi nella mia mente e nel mio cuore, dall’ultima visita. Nell’oggi
sono stati resi più reali, più coinvolgenti”. Inizia così la bellissima
memoria di viaggio di Carolina Benincasa. È che ho sempre desiderato essere un “viaggiatore”,
o un “viandante” per dirla con Galimberti, anziché un “turista” come si suol
essere oggi. Poiché c’è una bella differenza non tanto e non solamente nei
termini d’uso. Viaggiare è ben diverso che fare il turista. Viaggiare è una
partenza che non pensa alla meta ultima ma che anela a vedere e scoprire tutte
le meraviglie che ci sono tra la propria casa e la meta prefissata. Il
viaggiatore vive il viaggio e si avvicina alla meta con animo pieno del senso
della ricerca e della conoscenza. È così che ho immaginato Carolina nel Suo
viaggio. Un approssimarsi alla meta scoprendone al contempo tutto ciò che la
precede e che ne fa un seguito geografico, etnico, antropologico. Ed allora mi
sono ricordato di una bellissima altra corrispondenza, del professor Umberto
Galimberti per l’appunto – “Le ragazze
con l'asinello” sul settimanale “D” del 25 di settembre dell’anno 2010 -.
Ha scritto il professor Galimberti: "Io sono un viandante, diceva
Zarathustra al suo cuore. Infine non si vive se non con se stessi"
(Nietzsche). Tutti noi viaggiamo, ma, (…), non siamo "viandanti", ma
semplici "viaggiatori" diretti in un Luogo, che non sanno nulla dei
paesaggi che li separano dalla meta, puri interluoghi tra una partenza e un
arrivo. (…) Ma per noi, che a differenza del viandante, "viaggiamo",
che ne è dell'intervallo tra l'inizio e la fine? Che ne è del cammino per chi
vuol arrivare? Per chi vuol arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche
per chi mira alle mete prossime, del viaggio ne è nulla. Le terre che egli
attraversa non esistono. Conta solo la meta. Egli viaggia per "arrivare",
non per "conoscere". Così il viaggio muore durante il viaggio, muore
in ogni tappa che lo avvicina alla meta. E con il viaggio muore l'Io stesso
fissato sulla meta e cieco all'esperienza che la via dispiega al viandante che
sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio. (…). Inutilmente
la via ha istituito viandanti, le nostre orecchie sono sorde alle loro voci e a
quelle dei luoghi, le sirene della "meta" e del "ritorno"
hanno cancellato ogni stupore, ogni meraviglia, ogni dolore. (…).” È
così che mi piace pensare Carolina nel Suo viaggio per i Sassi di Matera. Ella viaggia
non per "arrivare", ma per "conoscere". Prima
e dopo. Mi piace pensarla proprio così. Oggigiorno trionfa il “turista”. A me
sarebbe piaciuto essere il “viaggiatore”, il “viandante” del professor
Galimberti. Ritorniamo alla memoria di viaggio di Carolina Benincasa. “È
sera quando giungo presso uno dei tanti “affacci”, per vivere il Sasso
Barisano. Non sono molti i turisti ma tutti, al mio pari, vengono rapiti dallo
strano magnetismo che tali costruzioni emanano, avvolgendo lo spettatore,
penetrando in esso. Una sensazione forte e tenera al contempo che mi
lascia attonita ed immobile nell’ammirare
quell’insieme di costruzioni ove i vari livelli sembrerebbero essere una tradizionale
realtà urbana come si può evidenziare in
molti centri arroccati lungo i
crinali dei colli. Ma… Dopo un più attento esame si percepisce in tutta la sua
complessità, la reale struttura che rende sì magico il Sasso Barisano (etimo di
incerta origine). E questa convivenza
così stretta che rende il paesaggio compatto, quasi fosse una sola dimora,
paragonabile ad un gigante che non incombe sul visitatore ma lo avvolge in un abbraccio
tenero eppur forte, deciso come le braccia dello innamorato che racchiude la
sua amata con la tenera forza dell’amore. È un messaggio vivo, quasi telepatico
che raggiunge tutti i sensi degli astanti. Le luci poste ad
illuminare tale realtà
contribuiscono a rendere le
sensazioni ancora più magiche. A
stento riemergo da
questo sogno, ma non del tutto, la
magia continua quando mi inoltro
tra le vie del Sasso. Le stradine
strette, pulitissime, rese ancora più suggestive dalla scelta
delle luci dei lampioni che sottolineano, nascondono e rendono luminosa la
pavimentazione resa quasi preziosa come il marmo, grazie alla molta frequentazione.
Il silenzio non incombe, ma difende
quelle vetuste mura che narrano, in
assenza di rumori, il loro
andar nel Tempo. Se la luce
artificiale dei lampioni rende ancor più
suggestivo il cammino per il
Sasso, il giorno non riduce la
magia, la rende solo diversa. Il mattino che si era annunciato
con una nebbia bianca che, pur
lasciando intravedere il sole
poteva anche trasformarsi in pioggia, mi
regala un sole
quasi estivo. La visita diurna di tale patrimonio conferma la magia della sera, rivelandomi particolari:
qualche scorcio della gravina che si intravede da un vico, una cisterna che
serviva per il vivere
quotidiano, sita all’interno
della dimora, la cortesia e
l’ospitalità dei rari abitanti. Ancora
una
volta questo sito doveva
affascinarmi, stupirmi. Come ho già
accennato, Matera annovera non
solo il Sasso su descritto, ma anche le Chiese Rupestri costituite da
caverne distribuite lungo
la parete rocciosa
che si erge
a strapiombo su
una valle fluviale, in fondo
alla quale scorre il torrente Gravina. Furono scelte
come abitazioni e
luogo di culto dai frati greco-ortodossi che non si
limitarono ad antropizzarle, bensì adornarono le pareti di tali
grotte con immagini religiose nello inconfondibile stile pittorico.
Vernissage che, se pur datato, non ha certo perso il Suo fascino attraverso i mille anni di
Storia che essi
hanno percorso. Volendo ammirare in uno sguardo d’insieme le due realtà, mi reco in località Murgia Timone, un
pianoro ove il paesaggio dei
Sassi sembrerebbe quasi nascosto;
infatti si intravedono solo le “dimore” del Sasso Caveoso, le Chiese
Rupestri, poste nella zona alta
della Murgia ed il Sasso Barisano rimane nascosto ai miei occhi. Per poter
gioire della vista globale di questo
unico e suggestivo Patrimonio dell’Umanità, devo attraversare un prato di
asfodeli, alle cui basi si possono ammirare moltissime specie della macchia
mediterranea erbacea originaria quale tarassaco, malva che donano un aspetto variopinto al sentiero che
mi conduce sull’orlo della rupe, dalla quale
ammiro un paesaggio, talmente suggestivo
da suscitare in me profonda commozione. Non so quanto sono rimasta davanti a
tale quadro. Il Tempo si era fermato. In fondo alla valle correva, verso il
mare, la Gravina”.
*Memoria di viaggio tratta dal testo di Carolina Benincasa “Viaggio misterico nella magia della città dei sassi” edito da Atrimedia (2011). Per gentile concessione dell’Autrice. Carolina Benincasa si è
laureata in Economia. È docente di climatologia ed etnoantropologia presso
l'Università Verde e di Geografia Economica negli Istituti Tecnici. È Autrice
di articoli aventi per tema l’Archeologia industriale. Ha ricevuto premi
internazionali per la saggistica, la
poesia e… la cucina, intesa come momento geo-etno-antropico e storico. È
Consigliere Nazionale dell'Archeoclub. È presidente regionale e provinciale
nella sede del capoluogo calabrese. È collaboratrice della Sovrintendenza ai beni Archeologici e della
Sovrintendenza ai Beni mobili ed immobili. È collaboratrice della Società
Dante Alighieri.
domenica 9 dicembre 2012
Sfogliature. 16 La menzogna in politica e il diritto alla verità.
La cattiva notizia alla fine c’è stata.
Non rimane che apprestare le opportune difese. Ha scritto Adriano Prosperi sul
numero 46 della rivista “Left” del
17 di novembre – “Un Paese illegale”
-: (…).
Con un decreto legge d’urgenza, il CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) consegnò
l’Italia alla Fininvest e l’illegalità divenne legale (…). Poi nell’aprile del
1993 un plebiscito referendario cancellava il sistema proporzionale e
introduceva il sistema maggioritario. Un rimedio peggiore del male. (…). La
strada era aperta all’avventura del partito-azienda di Berlusconi. (…). Un
Paese che vedeva con favore chiudersi l’età
di Tangentopoli e aprirsi quella della libertà dalle leggi. (…). Nel
1991 un Norberto Bobbio ormai scorato scriveva: «La gestazione della seconda
Repubblica, se dovrà nascere, sarà lunga. Ma poiché, se nascerà, nascerà con
gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro
fallimento, non potrà che nascere male, malissimo, come male, malissimo è
finita la prima». (…). Sembra stia per ritornare “lo spirito del tempo”. Esisteva,
nel tra-passato (elettronicamente parlando) blog, una sezione che aveva per
titolo “Zeitgeist”, ovvero “lo spirito del tempo”, che è stata
un'espressione creata nel tardo secolo decimonono per indicare la natura della
cultura dominante in una certa era della Storia. Significato che, per un
processo d’adattamento ai momenti storici che siano in corso, ha l’ambizione di
definire l’aspirazione del presente come atto votato all'eternità. Tale sembra
essere la rinnovata “scesa in campo” che la cattiva notizia ci ha portato, nonostante
le disastrose prove d’inettitudine fornite nel governo della cosa pubblica.
Scorrendo i fogli elettronici dell’e-book, salvato dal “naufragio” elettronico, ritrovo
il post numero 48 di quella benemerita sezione – alle pagine 2.547-2.549, alla
data del 31 di maggio dell’anno 2009 – che ha per titolo “La menzogna in politica e il diritto alla verità“. Qual è la
verità che sta dietro la nuova “scesa in campo”? Lo ripropongo di
seguito.
“Si crede in Italia che l’era di
Berlusconi sia una particolarità, un’anomalia tipica del nostro paese. In
realtà, essa è piuttosto tipica del nostro tempo. Le ideologie sono tramontate,
le classi sociali sono sbiadite, ed emergono uomini politici di nuovo conio,
scelti dagli elettori non tanto per quel che rappresentano, tanto meno per il
partito che possono avere o non avere alle spalle, quanto per la loro
personalità, per le loro promesse, per la loro forza di attrazione: possiamo
dire per il loro carisma. È l’epoca, la nostra del populismo. (…). Nell’era del
populismo, il leader proviene dal nulla e rappresenta solo se stesso”. Avete
appena letto un altro brano tratto dall’ultimo lavoro di Piero Ottone – pagg.
166/167 - che ha per titolo “Italia mia”,
lavoro edito da Longanesi. Ricordo di avere in altra occasione parlato del
cosiddetto “mostro mite”,
un’intelligente intuizione del sociologo Raffaele Simone, ovvero dell’attuale
configurazione planetaria della destra rampante e vincente. A ben ragione anche
l’illustre Piero Ottone, autore del
brano sopra riportato, parla di un’anomalia, anomalia che ha l’esatta misura in
una configurazione delle compagini politiche oggigiorno vincenti che non è
limitata geograficamente ma “è piuttosto tipica del nostro tempo”.
Ed essendo in presenza di un’anomalia di fatto epocale, ci si misura
quotidianamente con uno stravolgimento delle regole politiche e della stessa
convivenza sociale con esiti che difficilmente, al momento, possono essere
intuibili e valutabili. Al riguardo ne ha scritto da par Suo Stefano Rodotà sul
quotidiano “la Repubblica” con un editoriale che ha per titolo “La menzogna in politica e il diritto alla
verità”. Di seguito ne trascrivo le parti più salienti. Si è discettato nei
giorni passati del limite pubblico/privato per un uomo che abbia scelto di “darsi
alla politica”. Di darsi, e non tanto di uomo invocato da alcuno per una sua provvidenziale
“discesa in campo”. Intelligenti pauca. Orbene, su quel limite è come
discettare del sesso degli angeli. O meglio, con un ritornello sentito nella
mia età più giovine, se venga prima l’uovo o la gallina. Irrisolvibile.
Basterebbe ragionarci sopra per cogliere il capo della intricata matassa. Si ha
un bel dire dai famigli del potente di turno che certe “cose” sarebbe cosa buona
e giusta che restassero nella sfera del privato. Se tale ambito fosse stato il
prediletto, in barba anche ad una funzione pubblica per la quale la
ristrettezza del privato va necessariamente sacrificata, per quale motivo di
difficile intuizione l’egoarca di Arcore ha costretto il vespide del piccolo
mostro ad imbandirgli immantinente un’apparizione nel corso della quale ha
riempito l’etere tutto di castronerie subito sbugiardate dalla libera stampa
del bel paese? Castronerie divenute di dominio planetario. È come per il
vescovo di Roma che, in quel d’Africa, ha avuto l’improntitudine di
pronunciarsi su argomenti di non sua competenza pretendendo anche che la stampa
dell’universo mondo tacesse sui suoi inqualificabili pronunciamenti. Lor
signori ambiscono di utilizzare la grancassa dei media a tutto spiano,
pretendendo al contempo di non esserne sbugiardati o quanto meno richiamati
alla concretezza.
“(…). Quali sono i doveri dell´uomo
pubblico? Quale dev´essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e
pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso fin dove può giungere lo sguardo dei
cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo
della comunicazione globale? «La menzogna ci è familiare fin dagli albori della
storia scritta. L´abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le
virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili
negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga
abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo
politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua
intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio
della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole
della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei
cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione
del mentitore. (…). Non un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del
politico rende inammissibile la menzogna. Questo significa che parlare del
rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome
della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella
che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere
espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso possono essere invocati nella
vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante
l´identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il
suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il
sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e
le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La
difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco
della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda
è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica
Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica
di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è
cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta aspettativa di
privacy, proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa
pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una
valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il
presidente del Consiglio sembra tenere tanto. Chi, allora, ha diritto alla
verità? (…). Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento
della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l´accesso alla
verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla
democrazia di Atene. Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è
diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere
ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il
distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a
domande specifiche, e tutt´altro che pretestuose proprio perché riferite a dati
precisi, assomiglia assai a quella facoltà di non rispondere di cui giustamente
può giovarsi l´indagato o l´imputato. (…). Una menzogna può acquietare i fedeli
di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la
fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è
considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero
consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi
soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia,
ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo in pubblico. Qui, in
questa semplice e profonda verità, sta l´inammissibilità della menzogna in
politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei
propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal
rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.”
giovedì 6 dicembre 2012
Storiedallitalia. 32 Il “pasticciaccio” dell’irto colle.
Vi è stato il tempo del “pasticciaccio”
di Via Merulana. È questo il tempo del “pasticciaccio” del cosiddetto colle
del Quirinale. E tutto rotola di “pasticciaccio” in “pasticciaccio”.
Nel bel paese. È che il primo lo si deve alla fervida fantasia dell’Emilio
Gadda. Quest’ultimo lo dobbiamo all’imperativo primo degli abitatori del bel
paese – “tengo famiglia” - per i quali tutto ne segue. Soccorrono i
laudatori ed i turiferari che reggono alto il turibolo per incensare meglio.
Accade così che si tenti di trasformare un affare del “tengo famiglia” in un
attentato agli organi costituiti. In uno stravolgimento istituzionale. Un colpo
di stato. Bum! L’ho di già scritto tante altre volte. Scrive Gianluigi Pellegrino
sul quotidiano la Repubblica: (…). Il Presidente della Repubblica non è
sovraordinato, ma si colloca all’esterno dei tre poteri ed è chiamato dalla
Costituzione a sorvegliare che il reciproco controllo e quindi il reciproco
equilibrio tra loro, sia il più pieno e completo. Per questo suo ruolo unico di
garanzia, le funzioni del Capo dello Stato non sono mai sindacabili da alcuno
dei poteri, e rimesse alla sola Corte costituzionale in due eccezionali ipotesi.
(…). Ma quale equilibrio istituzionale, mio buon dio, veniva
salvaguardato con le telefonate intercettate? Quale esercizio della funzione
veniva esplicato nel corso di esse? Si allibisce. Si trasecola. Scrive
sull’argomento Marco Travaglio – “il Fatto Quotidiano”, “Stato di rovescio” -: (…). Nessuno nota (…) l’imbarazzato e
imbarazzante eloquio del comunicato della Corte là dove scrive, copiando paro
paro dalla memoria dell’Avvocatura dello Stato, che “non spettava alla Procura
di Palermo di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione” delle
quattro telefonate incriminate. Perché i supremi giudici non hanno scritto che
“spettava alla Procura di Palermo chiedere al giudice l’immediata distruzione”?
Forse perché sanno benissimo anche loro che non esiste alcuna norma, ordinaria
o costituzionale, che lo preveda. Chi agisce male, pensa male e scrive anche
peggio. Che cosa penserebbe una ragazza se il suo fidanzato, anziché “ti amo”,
le dicesse “non spetta a me omettere di amarti”? (…). Stanno così le
cose in questo disastrato paese. In un altro “pasticciaccio” – in un
famoso lodo – venne fuori che il pronunciamento di un organo giudicante del bel
paese fosse preso “paro paro” dagli appunti vergati in uno studio privato di una
delle parti in causa. Tale è l’ignonimia che regna diffusa nel bel paese. E c’è
pure chi oggi asserisce di vedere il trionfo del buon diritto che sconfigge la
cosiddetta antipolitica. È un imbroglio: l’antipolitica è la pratica in uso
dalla politica condotta con altri mezzi. Ovvero dalla cattiva politica. Scrive
Franco Cordero – la Repubblica, “La
geometria del diritto” -: (…). Dall’estate pendeva un ricorso del
Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una
causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia.
(…). La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto
albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente
non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi
consenta graziosamente: (…). Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché
vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili
a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole. Dal fatto che il Presidente
non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente
arguibile il tabù su emissioni verbali private (...); né possiamo arguirlo
dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. (…).
La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul
disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami
d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento,
l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una
norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato
(…) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli. I deliberanti devono
essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271
c.p.p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal
nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un
obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né
esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando
i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad
esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti
giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e
l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra. Afferma
in proposito il professor Alessandro Pace – “il Fatto Quotidiano”, “Ma il Gip non è obbligato a distruggere
quelle bobine” di Silvia Truzzi - che ha difeso la Procura di Palermo
dinnanzi alla Consulta: - La mia opinione di studioso, e dico “di
studioso”, è nel senso che né l’uno né l’altro comma potessero applicarsi alla
specie. Non il secondo comma perché non sussiste l’eadem ratio per sostenere
che nella specie vi possa essere un’analogia tra il Capo dello Stato e un
avvocato e un sacerdote; ma nemmeno il primo comma, nel quale si parla di “casi
non consentiti di intercettazioni”. Esiste bensì il divieto di intercettazioni
“dirette” a danno del Presidente della Repubblica nell’art. 7, 3°comma, della
legge 219/1989, ma non esiste nel nostro ordinamento alcun divieto
d’intercettazioni indirette. Lo ha detto la stessa Corte Costituzionale nella
sentenza 390/2007 con riferimento alle intercettazioni dei parlamentari
interpretando l’art. 68 Cost. E lo si deve ripetere anche per il citato art. 7,
per la semplice ragione che le intercettazioni casuali costituiscono un fatto
fortuito, e i fatti fortuiti non possono essere né imposti né vietati. Se ne
possono disciplinare le conseguenze, ma non i fatti in sé e per sé -. È
questo lo stato dell’arte nel bel paese. Continua a scrivere il professor
Cordero, impareggiabile erudito in materia costituzionale: Pour cause i comunicanti tacciono
sull’art. 7, l.
5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono
intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non
è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate
dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte,
non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei
parlamentari). (…). Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione
dei materiali sacrileghi (…): la ordini il giudice, e sia eseguita
clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai
gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disant inviolabile,
ma sono parole della Corte chiamata a custodire le norme fondamentali, quasi
avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato
e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito
immanente. (…). Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso
negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la
mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio
(art. 271 c.p.p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul
contraddittorio. Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li
compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in
gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non
era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era
l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni
d’egemonia berlusconiana. Ritorno al professor Pace. Domanda Silvia
Truzzi: Vuol dire che i pm avrebbero dovuto staccare il registratore non appena
riconosciuta la voce di Napolitano? - Significa proprio questo. Il che urta però
con la consolidata giurisprudenza della nostra Corte di Cassazione secondo cui
è legittima la captazione accidentale di una conversazione rilevante come
notitia criminis o come prova in un processo penale. Mi chiedo: e se in un
futuro lontano venisse casualmente intercettato il Presidente della Repubblica
le cui parole facciano sospettare l’esistenza di fatti configurabili come alto
tradimento o attentato alla Costituzione nei quali egli sia implicato, cosa
dovrebbe fare il pm? Distruggere seduta stante il file e dimenticare
l’accaduto? -. Semplicemente è questa l’arte dell’antipolitica nel bel
paese. Sol che se ne voglia accettare l’esistenza, ma a ruoli rovesciati: ove
l’antipolitica è la cattiva politica condotta con simili ed altri sinistri mezzi.
mercoledì 5 dicembre 2012
Sfogliature. 15 Un pasticciaccio brutto assai.
Ove vuol dimostrarsi la
ripetitività delle cose “storte” nelle vicende degli umani. Laddove mi soccorre
l’e-book di quello che è stato questo blog che alle
pagine 971 e seguenti, di quella che fu la rubrichetta “Memorie del tempo”,
annota il post del 26 di luglio dell’anno 2007 che ha per titolo “Un pasticciaccio brutto assai”. Brutto
prima ma ancor più brutto dopo la sentenza della Consulta suprema. Registra “il
Fatto Quotidiano” la sentenza con un editoriale – senza firma - che ha per
titolo “Una Corte cortigiana”: Dalle
motivazioni della sentenza si capirà come abbia potuto la Consulta accogliere
un conflitto di attribuzioni cervellotico, protervo e infondato come quello
sollevato dal capo dello Stato contro la Procura di Palermo. Dal comunicato
emesso ieri dopo 4 ore di Camera di Consiglio (…), si desume solo che si è
deciso di piegare una norma pensata per tutt’altre evenienze al caso che tanto
angustia Napolitano: la captazione casuale, anzi inimmaginabile di 4 sue
telefonate sulle utenze intercettate di Nicola Mancino, un privato cittadino
coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. L’art. 271 del Codice di
procedura non c’entra nulla col capo dello Stato: riguarda le intercettazioni
fuorilegge o quelle di conversazioni che svelino “fatti conosciuti per ragione
del ministero, ufficio o professione” della persona ascoltata (il difensore che
parla col cliente, il confessore col penitente). (…). Non resta, purtroppo, che
ricordare l’oracolo del presidente emerito Gustavo Zagrebelsky su Repubblica:
“L’esito è scontato”. (…). Ecco: da ieri abbiamo una Corte cortigiana.
Trascrivo da “Quel pasticcio del
codice” di Franco Cordero pubblicato
sul quotidiano “la Repubblica” del 25 di
luglio dell’anno domini 2007. È il Franco Cordero celeberrimo autore de “L’armatura”, più volte riportata.
Elucubra da par suo, come il suo Fert
dottore in filosofia. Ma su di un fatto reale, dell’oggigiorno. Soccorre
con il suo elucubrare il popolo elettore minuto in fatto di giuridiche
elucubrazioni; cose da dotti, da azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Ci si
affida semplicemente e consapevolmente ad un Maestro di tale portata. È che un
certo popolo elettore minuto ignaro delle cose del potere non avrebbe pensato
mai e poi mai di doversi rivoltolare in simili pasticci, come ai tempi di un
egoarca che fu. A quel popolo minuto era stato fatto credere che passati i
tempi di un egoarca che fu non si sarebbero alzati lai, e voci irate e
lamentevoli, ed assurde recriminazioni degli addetti sempiterni del potere
all’indirizzo di un altro potere. Passano i tempi, si perdono i peli superflui
ma non i vizi. Antico detto piegato al caso pietoso. Vizi. Ovvero il vizio per
eccellenza; la difesa strenua del proprio potere, come ricevuto da investimento
divino. Unti per sempre. Cose d’altri tempi, e non tanto dei tempi di un
egoarca che fu, quanto di un medioevo scuro scuro. Da “inquisizione” di un
potere contro un altro potere. Assurdo. Trascrivo a favore del popolo elettore
minuto che si rivoltola inquieto assai per il pasticciaccio brutto.
“(…). La storia risale all´art. 68 Cost.,
riscritto dalla l. 29 ottobre 1993 n. 3: il parlamento godeva d´un diritto
d´asilo; i suoi componenti non erano giudicabili senza il voto affermativo
della Camera competente. Adesso lo sono ma, siccome gli unti dal popolo hanno
sangue blu, la nuova norma subordina le intercettazioni al voto camerale. Tanto
vale impedirle: l´espediente investigativo riesce utile finché chi parla non
sappia d´essere ascoltato; qui era clamorosamente avvertito. Insomma, fin
quando l´assemblea non lo conceda, nessuno controlla i loro apparecchi: se
però, in vena garrula, entrano nello spazio acustico altrui, legittimamente
sorvegliato, imputent sibi (incredibile quanto ciarlino); un´altra volta siano
più cauti. Così ragionano gli assuefatti al discorso serio: l´assemblea accorda
licenze d´ascolto, permettendo atti da compiere, mentre qui risultano compiuti;
sarebbe un permesso d´usare materiali bene raccolti; in tal senso Montecitorio
s´arroga anomali poteri autorizzativi nei tardi anni Novanta, perché la XIII
legislatura, dominata dal centro-sinistra, incuba già filosofemi berlusconiani.
Il fiore velenoso sboccia sub divo Berluscone: l. 20 giugno 2003 n. 140,
dichiarata invalida dalla Consulta nella parte in cui contemplava un´assurda
immunità processuale dei cinque presidenti; l´interessato era lui. L´art. 6
regola l´uso del materiale ritualmente intercettato dove risuonino ugole
parlamentari: l´ipotesi auspicabile è che il gip, anche su istanza delle parti
(possibile quindi l´intervento ex officio), lo ritenga irrilevante; allora
ordina che sia distrutto (comma 1); se però una parte vuol usarlo e udite le
altre, lui reputa adoperabili i discorsi de quibus, chiede il permesso alla
Camera competente (commi 2-3); negato il quale, l´intero reperto (dischi,
nastri, verbali, tabulati) va distrutto al più tardi nei 10 giorni (c. 5). Siamo
in piena teratologia, la scienza dei mostri: norma indecorosa, scritta con i
piedi, grossolanamente invalida; è facile previsione che tale sia dichiarata
dalla Corte costituzionale. I lettori inesperti possono rendersene conto da un
esempio. N e P, boss mafiosi, conversano sul filo o nell´etere con Q, eletto
dal popolo (è ingenuo presupporre che le cosche non abbiano chi le tutela dai
banchi): rievocano delitti su cui l´inquirente s´era affaticato invano; salta
fuori l´organigramma dei mandanti, consiglieri, gestori, manovali. Sia lodato
Iddio, caso risolto, purché l´assemblea accordi il permesso d´usare le sante parole:
se lo nega con l´argomento insindacabile del fumus persecutionis, va tutto al
diavolo; siccome una norma matta estende l´immunità processuale ai collocutori,
N e P vengono assolti. Cose da burla macabra. L´ignaro domanda perché gli
autori dello scempio abbiano chiamato alla ribalta il gip: figura innaturale; è
il pubblico ministero che raccoglie le prove d´accusa. Risposta ovvia: nella
cultura berlusconiana, condivisa da settori nel centrosinistra, i requirenti
sono belve in cerca d´una preda, finché non abbiano carriera separata agli
ordini del governo, e quale castigamatti, riappare il giudice istruttore. Ma il
contrappasso batte colpi anche fuori dell´inferno dantesco: i soi-disant
garantisti evocavano un gip spegnitore; stavolta dà fuoco lui alle polveri.
L´anomalia allignava già nel codice, in barba alla logica accusatoria: non
s´erano mai visti termini oltre i quali l´organo requirente debba astenersi
dall´indagare, sotto pena d´inefficacia dell´atto compiuto; il legislatore 1989
li impone; e affida al giudice l´eventuale riapertura; scelta insindacabile
(artt. 405-7 e 414 c.p.p.). Il caso del quale sono piene le cronache, dunque, è
attribuibile al legislatore calamitosamente pasticheur. Definiamolo in chiave
tecnica, fuori dall´alluvione retorica. La Camera bassa ha ricevuto
l´ordinanza: erano e sinora restano estranei al procedimento gli onorevoli le
cui parole il giudice ritiene utili; l´organo requirente non li ha iscritti né
indaga nei loro confronti; qui appare due volte assurdo che l´uso delle prova
dipenda dall´assenso assembleare; infatti, stiamo parlando d´una norma
invalida. Senonché quel giudice afferma l´ipotetica responsabilità dei
predetti. In quale conto tenere i relativi argomenti? Nell´attuale contesto,
nessun conto: sono dei flatus vocis, come scrivevano filosofi medievali nelle
dispute sui nomi; opinioni irrituali; non era affare suo disquisirle lì. Ma ha
scritto quel che pensa. L´atto configura una denuncia obbligatoria (art. 331,
illo tempore chiamata rapporto): il pubblico ministero, suo destinatario, la
iscrive nel registro (art. 335) e indaga; indi chiede il processo o
l´archiviazione (art. 408); se il gip gliela nega, malgré lui formula
l´imputazione, essendovi obbligato (art. 409, c. 5). La parola passa a
Montecitorio. Il partito blu s´è schierato: B. offre largo e micidiale
compatimento agli esponenti Ds condolendosi dell´attacco sferrato in spregio
alle regole; vittime come lo era lui; nel nome d´una buona giustizia e buona
politica, i profondi pensatori d´Arcore invocano il ripristino dell´immunità
parlamentare, abolita 14 anni fa, affinché le Camere ridiventino asilo
d´impuniti (i napoletani dell´età barocca lo chiamavano confugio, nome
pittoresco). Come voteranno i partiti del centrosinistra? L´unica risposta
pulita è sì, senza clausole: se il pubblico ministero ritiene sostenibile
l´ipotesi d´una corresponsabilità e l´udienza preliminare porta al
dibattimento, tribunale e corti diranno quanto fondamento abbia; frapporre
ostacoli sarebbe ignobile e politicamente stupido. Gl´italiani sensibili al
bisogno d´un minimo etico nella cosa pubblica non hanno combattuto la pirateria
berlusconiana per installarne una solidale, pseudoliberal-bolscevica. Ma povera
procedura penale, contraffatta da ignoranti chierici del garantismo bicamerale.
“
venerdì 30 novembre 2012
Strettamentepersonale. 7 Se la crescita non basta più.
(…). La crescita non è una scelta
ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico:
venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione
corale. Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica
soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti
così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare
sostenibile. Così scrivono Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini sul
quotidiano la Repubblica del 9 di novembre – “Se la crescita non basta più” -. Debbo questo post a M.B., negli
occhi della quale ho visto, nell’ultimo nostro fuggevole incontro, lo sgomento
e la paura. Lo sgomento suo che penso sia comune a tutti gli operatori
economici e commerciali in questo periodo di difficilissima navigazione
all’interno della “grande crisi”. È la prima volta che mi viene di aggettivarla,
la crisi intendo dire. Dicevo della paura che ho visto negli occhi della carissima
amica di una vita; la paura di un passo indietro che riporti una grossa fetta
della società alle soglie della povertà. Donde quella paura vista in quello
sguardo suo mi spinge a parlare di “grande crisi”, per l’appunto. E
dalle parole sue disperate e come senza speranza alcuna ho potuto cogliere anche
una punta di astio verso tutti coloro che, al pari dei due estensori della
nota, auspicano che l’uscita della crisi sia diversa nelle quantità economiche
ma anche e soprattutto nelle percezioni e nei nuovi atteggiamenti che i
consumatori in quanto tali dovranno necessariamente fare propri. Urgono nuovi
atteggiamenti e nuovi comportamenti, più responsabili e più consapevoli.
Continuano a scrivere Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini: Ricordiamo
che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio
che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se
prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita
comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi
di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi. Riproponiamo dunque la
domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la
risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando
un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della
crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e
che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono
altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci
ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” (…)? Da
tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali
dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo
dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello
ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della
competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre
più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età
della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci
verso un’età di rinnovato benessere. (…). Ciò significa passare dalla quantità
alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione
illimitata all’equilibrio dinamico. (…). Un processo di riconversione ecologica
dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle
performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che
rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il
prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita
quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali
dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere
sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno
assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono
diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di
persone. Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita
dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi
tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il
suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non
conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride
carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto
ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non
si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di
impoverimento sociale, economico e ambientale. Per uscire dalla crisi, dunque
non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un
nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori
che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse
consumate a livello globale. Spero che M.B., abituale ed attenta
lettrice delle cose che vado proponendo su questo blog, legga con attenzione le
sagge parole dei due illustri Autori e voglia ammainare la sua animosità verso
tutti coloro, me compreso, che sono dell’idea di uno sviluppo, di una crescita che
siano diversi e più adeguati e rispettosi dell’equilibrio dinamico della
troposfera. Senza una consapevolezza nuova grandi disastri ci attendono che
supererano di gran lunga, per gli effetti che essi dispiegheranno, i disastri economici
e finanziari prodotti dalla “grande crisi” che stiamo
vivendo. Ha scritto il filosofo francese
Serge Latouche – la Repubblica del 14 di settembre 2012 – in un Suo editoriale
che ha per titolo “Facciamo economia”:
Viviamo
in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un'economia che
tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo
primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del
consumo è l'esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite:
nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non
rinnovabili, nella creazione di bisogni - e dunque di prodotti superflui e
rifiuti - e nell'emissione di scorie e
inquinamento (dell'aria, della terra e dell'acqua). Il cuore antropologico
della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal
consumo. (…). Per usare una metafora siamo diventati dei
"tossicodipendenti" della crescita. (…). Un meccanismo che tende a
produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il
desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad
un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. (...). …la
ridefinizione della felicità come "abbondanza frugale in una società
solidale" corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita.
Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di
bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo
complementare di temperare l'egoismo risultante da un individualismo di massa.
(…). L'abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la
soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest'ultima dipende da rendite
distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere
all'immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una
volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all'opposto di
questa logica, la società della decrescita si propone di fare la felicità dell'umanità
attraverso l'autolimitazione per poter raggiungere l'"abbondanza
frugale". (…). Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando
disse che "una delle contraddizioni della crescita è che produce allo
stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo". Ne
risulta ciò che egli chiama "una depauperizzazione psicologica", (…).
La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell'autonomia e nella
dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto:
"Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa
accettare di non arricchirsi". Siamo dunque poveri, o più esattamente
miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La crescita del benessere (del
“ben”
“essere”
e non degli oggetti che non consentono di “essere, di stare bene al mondo”
n.d.r.) è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è
meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio. (…). Mi
ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla
fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti
di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere
d'estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza
commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni
della natura (o dell'ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare
questa capacità suscettibile di sviluppare un'attitudine di fedeltà e di
riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la
condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della
decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino
funesto di un'obsolescenza programmata dell'umanità. Dedicato a M.B.,
operatrice commerciale in ansia, che mi è molto cara.
mercoledì 28 novembre 2012
Dell'essere. 9 Adolescenza infinita.
E poi ci sarebbe l’adolescenza.
Una fase che dovrebbe essere ben delimitata nella vicenda terrestre degli
umani. È che quella fase sembra oggigiorno non finire mai. Almeno per gli umani
delle recenti generazioni cresciute nel bel paese. “Bamboccioni” per alcuni,
“choosy”
per l’ultima detta dalla Fornero che piange, se ne adontano molto. Perché mai?
Cosa fanno per non meritarsi aggettivazioni di quel tipo? In verità credo ben
poco – salvando i pochi, anzi i pochissimi che ci provano -. I segnali
premonitori non sono mancati negli anni. Ce li ha forniti come sempre la “cattiva
maestra” – secondo Popper -, madama la televisione. Che ha fatto
abbondantemente ricorso ai “bamboccioni”, trentenni o
quarantenni ed anche oltre nell’anagrafe, che negli spot si dilettano,
gigioneggiano, fanno il “cascamorto” con il telefonino
ultimo grido, o con qualsivoglia altro inutile oggetto di consumo che la
televisione volesse imporre tra i desideri insopprimibile e/o le aspirazioni
del suo non catafratto pubblico. Colpa della televisione allora? E perché no, colpa
della scuola, tanto va di moda! La colpa a chi? Ha scritto Giacomo Papi sul
numero del settimanale “D” del 10 di novembre scorso – “Adulti che non aiutano a crescere” -: (…). Negli ultimi decenni del
secolo scorso tutti i bambini smisero, all'improvviso, di andare a scuola da
soli. Prima era normale già in seconda elementare. Poi arrivò l'epidemia.
Rispondendo a un'oscura chiamata culturale, i genitori decisero in massa che
era troppo pericoloso, che c'erano troppe automobili in giro e troppi pedofili
in agguato, (…). In realtà, i pericoli non erano aumentati e il tempo per i
figli, mediamente, non era diminuito. A essere cambiata era la percezione degli
adulti. Era aumentata la paura. I bambini incominciarono ad apparire creature
fragili, incapaci di difendersi e diventare libere e autonome. Esseri viventi
incapaci, letteralmente, di crescere. (…). L'allungamento della vita media
deforma le età. Stiracchia in una post adolescenza infinita il periodo che va
dai 20 ai 30 anni e rimanda la vecchiaia oltre i 70. Rende genitori e figli per
sempre. (…). È in atto un innamoramento collettivo per le creature che
rimangono piccole. Il sogno del cucciolo eterno. La nostra idea dell'infanzia è
un tassello di un processo che iniziò con la moda dei bonsai, gli alberelli
giapponesi che non crescono, ed esplode, oggi, per esempio, con l'invasione dei
chihuahua. Ma se si rimane piccoli è per soddisfare una precisa richiesta
sociale, una esigenza profonda dei grandi. Protrarre all'infinito la dipendenza
dei figli è, infatti, prima di tutto, una strategia di auto-gratificazione e
rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a sentirsi utili, anzi
indispensabili, in un universo che sembra sempre in procinto di fare a meno di
noi. Mi sento di condividere l’analisi sempre puntuale e precisa di
Giacomo Papi. Alla quale analisi mi sento di affiancare la riflessione di un
uomo di scienza, lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, riflessione
pubblicata sul quotidiano la Repubblica – “Adolescenza
infinita”, 6 di ottobre 2012 -. Scrive l’illustre Autore: (…).
Ricordo un mio vecchio maestro elementare che aveva il vizio di riproporre in
modo assillante una metafora educativa tristemente nota: "Siete come viti
che crescono storte, curve, arrotolate su loro stesse. Ci vuole un palo e filo
di ferro per legare la vite e farvi crescere diritti". In un passato che
ha preceduto la contestazione del '68 il compito dell'educazione veniva
interpretato come una soppressione delle storture, delle anomalie, dei difetti
di cui invece è fatta la singolarità della vita. Oggi questa metafora non
orienta più - meno male - il discorso educativo. Oggi non esistono più - meno
male - pali diritti sui quali correggere le storture delle viti. Il problema è
diventato quello dell'assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove
generazioni, lo sfaldamento di ogni discorso educativo che l'ideologia
iperedonista ha ritenuto necessario liquidare come discorso repressivo. E
qui l’illustre Autore sembra concordare in pieno con l’opinionista Giacomo Papi
laddove lo stesso scriveva, a proposito delle cosiddette “cure parentali”, che
esse sono, o rappresentano “prima di tutto, una strategia di
auto-gratificazione e rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a
sentirsi utili, anzi indispensabili”. E di mio ci aggiungerei anche la
tendenza da parte degli adulti a non differenziarsi di molto dai pargoli loro affidati, in nome di un
falso, consumistico “giovanilismo” che li conduce irrimediabilmente a confondere
ruoli e competenze derivandone una deresponsabilizzazione non percepita nella
giusta misura. Scrive infatti Massimo Recalcati: Non che gli adulti in generale
non siano preoccupati per il futuro dei loro figli, ma la preoccupazione non
coincide col prendersi cura. I genitori di oggi sono, infatti, assai
preoccupati, ma la loro preoccupazione non è in grado di offrire sostegno alla
formazione. Quello che dobbiamo constatare con amarezza è che il nostro tempo è
marcato da una profonda alterazione dei processi di filiazione simbolica delle
generazioni. Come in una sorta di Edipo rovesciato sono i padri che uccidono i
loro figli, non lasciano il posto, non sanno tramontare, non sanno delegare,
non concedono occasioni, non hanno cura dell'avvenire. La vita dei nostri figli
è aperta ad un sapere senza veli - quello delle rete per esempio - ma anche
quello relativo al mondo degli adulti una volta impermeabile ad ogni domanda,
mentre oggi ridotto ad un gruviera: i figli sanno tutto dei loro genitori anche
quello che sarebbe meglio non sapessero. L'alterazione del rapporto tra le
generazioni passa anche da qui; i figli hanno accesso senza mediazioni
culturali ad un sapere senza confini e diventano i confidenti dei genitori e
delle loro pene. Anziché potere appoggiare la loro vita su quella dei propri
genitori, seguono per lo più attraverso le vite da adolescenti di chi dovrebbe
prendersi cura delle loro vite. Una pesante responsabilità di scelta attende i
nostri giovani non essendo più la loro vita vincolata ai binari immutabili
della tradizione e della trasmissione familiare. È, come direbbe Bauman, la
condizione liquida delle nuove generazioni. Sempre meno esse si trovano a
proseguire sulle orme dei loro familiari e sempre più si trovano - nel bene e nel male - obbligate ad
inventare un loro percorso originale di crescita. (…). L'iperedonismo
contemporaneo ha scomunicato il compito educativo come una cosa per moralisti.
Di conseguenza, la libertà si è ridotta a fare quello che si vuole senza
vincoli né debiti. Ma intanto il debito cresce e ha sommerso le nostre vite e
l'assenza di senso della Legge ha spento la potenza generativa del desiderio. E
allora la libertà non genera alcuna soddisfazione ma si associa sempre più alla
depressione. È qualcosa che incontriamo sempre più frequentemente nei giovani
di oggi. Ma come? Hanno tutte le possibilità, più di qualunque generazione
precedente? E sono depressi? Come si spiega? Si spiega col fatto che la loro
libertà è in realtà una prigione perché è senza possibilità di avvenire.
Cresciamo i nostri figli nella dispersione ludica mentre la storia li investe
di una responsabilità enorme: come fare esistere ancora un avvenire possibile?
Nietzsche aveva posto all'uomo occidentale il problema della libertà nel modo
più radicale possibile. L'uomo è pronto per essere libero? È all'altezza del
compito etico della libertà? La fuga delle masse nei totalitarismi del
Novecento aveva dato una risposta negativa a quella domanda. No, l'uomo non è
capace di essere libero, l'uomo fugge dalla libertà. Adora il tiranno e il suo
bastone. La pulsione gregaria domina quella erotica. Il rifugio nel grande
corpo della massa viene preferito all'assunzione singolare della propria
libertà e della vertigine che essa comporta. Oggi le cose sono cambiate. La
massa non è più unita dall'attaccamento fanatico all'ideale. Il cemento che la
tiene insieme si è inesorabilmente sgretolato, così si è fatta liquida,
ondivaga, informe. E prevale l'individuo nel suo isolamento narcisistico. Mi
soccorre per concludere, come sempre, il poeta libanese Kahlil Gibran: E una
donna che stringeva un bimbo al seno chiese: parlaci dei figli. Ed
egli disse: i vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli e le figlie
della smania della Vita per se stessa. Vengono attraverso di voi, ma non
da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi
potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i
propri pensieri. Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non
alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi
non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere
come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va
all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i
vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. (…).
Ecco il punto: “non cercate di renderli simili a voi”. Poiché li renderete per
sempre i vostri “bamboccioni”, senza responsabilità e senza cuore. Soli di
fronte alla Storia. E senza la libertà.
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