"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 30 marzo 2014

Sfogliature. 21“La TV del potere sconfitta dal voto?”.



Ha scritto Michele Serra sul quotidiano la Repubblica del 28 di marzo – ne’ «L’amaca» -: L’altra sera, mentre mangiavo in autogrill, le news che scorrevano a rullo su un video mi informavano, ogni tre minuti circa, della rottura tra Balotelli e una certa Fanny. Il mio compagno di viaggio ha confermato: aveva saputo poco prima di quel grave fatto sentimentale alla stazione di Milano, anche lui occhieggiando uno dei tanti video che trasmettono pubblicità e notizie in briciole, e rilucendo attirano i nostri sguardi di falena. Fino a pochi anni fa tenersi al corrente di queste faccende di cuore o di letto era facoltativo: bisognava acquistare rotocalchi specializzati e autorevoli. Cioè pagare. Oppure frequentare barberie o sale d’aspetto dentistiche, di solito fornite di quel genere di pubblicazioni. Oggi sapere di Balotelli e Fanny è, in un certo senso, obbligatorio. Gratuito e obbligatorio. Per non saperlo, di Balotelli e Fanny, bisognerebbe chiudersi in casa al buio e con un paio di cuscini sulla testa; o rifugiarsi nelle foreste canadesi, a vivere in una capanna di tronchi. Facendo però attenzione, in Canada, a non guardare il cielo: potrebbe passare un biplano con la scritta “Avete saputo di Balotelli e Fanny?”.

mercoledì 26 marzo 2014

Cosecosì. 73 Berlinguer e la politica alta.



La politica “alta”. Che si contrappone alla politica stagnante, intenta sempre e solamente all’occupazione del potere per il potere. E che diviene, quest’ultima, la politica fatta per l’occupazione del potere per il potere, la vera ed unica espressione concreta dell’”antipolitica”. L’”antipolitica”. Che è divenuta fattore determinante affinché la “crisi” mordesse per come morde. Di più ancora laddove la politica “alta” è divenuta da tempo oramai passato un lontano, pallidissimo ricordo. Come nel bel paese. Ha lasciato scritto Stephane Hessel sul quotidiano la Repubblica del 20 di aprile dell’anno 2013 – “Indignarsi non basta” -: Ai miei amici ripeto sempre la stessa cosa: se volete combattere i problemi, se volete che le cose cambino, nelle democrazie istituzionali nelle quali viviamo il lavoro deve essere fatto con l’aiuto dei partiti. Perfino coi loro difetti, le loro imperfezioni, le loro insufficienze. Ognuno di noi deve trovare il partito più vicino alle proprie preoccupazioni, il più disposto ad appoggiare le proprie rivendicazioni, ed entrare a farne parte. Non ci si deve illudere. Non ne troverete mai uno, neppure uno, che coincida al cento per cento con la vostra linea. Ma le cose stanno così, questo fa parte del gioco. Trovate che non abbiano abbastanza vigore? Che non siano abbastanza determinati? Non dimenticate che siete voi che potete infondere loro quel vigore e quella determinazione.

martedì 25 marzo 2014

Cosecosì. 72 Europa, Europa.



Scrive oggi Adriana Cerretelli sul quotidiano “Il Sole 24 Ore”– “L'Europa dilaniata tra ribellismo ed egoismi” -: E allora Europa perché, per fare che cosa e andare dove? E, poi, si può amare un riformatorio? Prolifera sul ribellismo popolare, scatenato dal rigore cieco che ha bloccato la crescita e distrutto lavoro, l'euroscetticismo che spadroneggia a Sud. A Nord invece si alimenta di egoismi e istinti difensivi: la vecchia paura del club-Med, il terrore di dover pagare di tasca propria, via la moneta unica, l'irresponsabilità degli altri. Euroscetticismo, in breve, fa rima con incomunicabilità: soprattutto culturale. Debito in tedesco significa colpa, in greco fiducia: due mondi agli antipodi eppure due concetti entrambi compatibili con quella parola: dipende da come si maneggiano i debiti. Sarebbe semplicistico però spiegare la rivolta con la sola emergenza euro. Il disagio viene da più lontano, ha radici più profonde.

mercoledì 19 marzo 2014

Cosecosì. 71 “La sinistra non pensa, twitta”.



Sappiamo tutti che il “Quarto potere”, (…), è quello che il potere economico esercita attraverso i mass media, tradizionalmente la stampa e la televisione, per influenzare l’opinione pubblica nei suoi comportamenti e nelle sue scelte. (…). Ma ormai, nella società della comunicazione, si va imponendo sempre più un “Quinto potere”, (…) il potere dei new mwdia. A differenza dei giornali e della tv, qui si tratta però di un potere più diffuso, capillare. E quindi, almeno in teoria, anche più democratico, perché esercitato direttamente da tutti i cittadini che navigano su Internet, frequentano i social network, usano gli smartphone e i tablet, come fa anche il nostro giovane presidente del Consiglio nella gestione quotidiana della sua “politica pop”. Si potrebbe chiamare dunque “Comunicrazia” questo nuovo potere, con un sincretismo che fonde comunicazione e democrazia. (…). C’è tuttavia qualche rischio in questa tendenza. E deriva proprio dalla facilità di accesso alla Rete, dalla contagiosa eccitazione che ne promana, dalla smania e dall’ebbrezza della comunicazione in tempo reale.

lunedì 17 marzo 2014

Storiedallitalia. 44 “Italia, il mondo capovolto”.



Proprio in queste ore, durante le quali appronto questo post, il funambolico presidente del consiglio del bel paese affronta la Cancelliera di Bonn. Quale potranno essere mai i suoi punti di forza nel corso della “discussione” che non sarà certo un semplice, giovanile twittare? Proprio oggi il quotidiano la Repubblica ha pubblicato un intervento della politologa Nadia Urbinati che ha per titolo “Berlusconi, il mondo capovolto”. È di questo “mondo capovolto” che si farà messaggero il funambolico primo ministro? Quale ascolto potrà avere in un consesso internazionale? Si dirà: troppo presto per concionare e giudicare. È che è da sempre che tutti coloro che si sono posti quali salvatori del bel paese hanno poi dimostrato di non saperci proprio fare. Ne abbiamo di già avuto lunga, lunghissima esperienza. Si dirà: ora sarà diverso. Come diverso? Da cosa? Da cosa lo si intuisce?

sabato 15 marzo 2014

Storiedallitalia. 43 “Nel paese chiamato Italia”.



Prima di continuare a leggere siete invitati a fissare con attenzione la tabella posta a lato. Ne emerge un dato sconcertante: nel bel paese – bello poi per chi? – i detenuti per reati fiscali sono solamente 156, ovvero lo 0,4 per cento degli ospitati nelle patrie galere. È per questo motivo che il prossimo incontro del nostro funambolico primo ministro comincia proprio sotto una cattiva stella. Sembra che le congiunzioni astrali abbiano tramato a bella posta contro il globetrotter della politica de’ noantri. Cosa oserà dire alla Cancelliera di ferro per convincerla della nostre buone intenzioni? Twitterà anche in questa occasione? Lo escludo. La dama non glielo consentirà. È che il destino cinico e baro gli ha tirato uno scherzetto niente male. Nel teutonico paese un personaggio calcisticamente straordinario decide di farsi la galera non tentando neppure un ricorso in appello contro una sentenza – di primo grado solamente – dei giudici di quel paese che lo hanno condannato per frode fiscale. In un altro paese che non è teutonico un condannato definitivo per frode fiscale deride i giudici e minaccia di presentarsi alle prossime elezioni europee fregandosene della condanna che gli è stata irrogata. Quale dei due paesi possiede autorevolezza e credibilità maggiore? Per non dire che è quel paese – il non teutonico - che detiene la straordinaria percentuale riportata nella tabella di cui sopra. Che non è l’unica vergogna. È il paese che detiene tutti i primati negativi che si possano pensare: corruzione dilagante nella sua pubblica amministrazione; corruzione dilagante nella sua “casta” della politica; l’intero suo territorio occupato “manu militari” dalla delinquenza divenuta potenza finanziaria planetaria; ruberie negli appalti determinando costi esorbitanti per la qualsivoglia opera pubblica; concorsi truccati nella pubblica amministrazione onde prevale sempre colui il quale può contare sulla “famiglia”. Quale credibilità potrà offrire il funambolico primo ministro di quel paese alla teutonica dama? Il confronto è impari. Quello straordinario twittatore parte di già battuto. Ha scritto sul quotidiano la Repubblica di oggi lo scrittore tedesco Peter Schneider – “L’altra faccia dell’eroe del calcio” -: Hoeness non era un cinico, quando nei talk-show attaccava il capitalismo neoliberale privo di scrupoli: era ed è una personalità sdoppiata, un po’ Dr. Jekyll e Mr. Hyde. Non mi stupirebbe se adesso, quando avrà molto tempo, lancerà — magari scrivendo un libro — un j’accuse contro il sistema del denaro che ha sedotto lui stesso, lui che provava sempre empatia per i poveri, gli sfortunati, e coesisteva con l’altro Hoeness che giocava d’azzardo con fondi neri in Svizzera. Evadeva, ma conservava un cuore per i poveri. (…). Quanto è diverso questo self-made man Uli Hoeness da un Berlusconi che si dichiara sempre innocente e insulta i giudici come una banda di comunisti. No: Hoeness si pone di fronte alle sue responsabilità, si piega a un sistema che accetta il potere della giustizia, in modo sconosciuto in Italia ma anche altrove. Hoeness che chiede di andare in prigione è un cittadino della Germania dove molti ministri si sono dimessi “soltanto” perché accusati di aver copiato le tesi di dottorato. Quanti politici, secondo criteri del genere, dovrebbero sparire dai Parlamenti di altri paesi? È un esempio di accettazione del potere giudiziario, che in Italia e altrove sarebbe auspicabile. Da noi vige un consenso civico costitutivo: la maggioranza dei cittadini pensa che sia giusto pagare le tasse, anche perché lo Stato ti rende qualcosa. È terribile quando viene meno la fiducia nello Stato e pensi che chi ti tassa ti deruba. (…). Il consenso civico ha piegato anche Hoeness. (…). Sono parole sopra le righe? Sono parole supponenti? Sono parole di tracotanza teutonica? È che noi come paese non siamo nelle condizioni di affrontare confronti con il resto del mondo. Aggiungo altro in tema. Rientravo a casa ascoltando l’autoradio. Ricordo benissimo che avevo sintonizzato la radio sulle frequenze di “Radio 24”, l’autorevole (sic!) radio del quotidiano “Il Sole 24 Ore”. E così venivo a sapere della condanna di Uli Hoeness. Ma la cosa sorprendente è stata che il cronista radiofonico, prima di dare la notizia, ha commentato – riporto a memoria -: “Ora, una notizia che farà discutere”. Come se la Germania fosse il paese del “sole mio”, degli spaghetti e dei mandolini. Spero che quel cronista sia arrossito alla notizia della decisone di Uli Hoeness di scontare la pena inflittagli. A conforto della unicità planetaria del bel paese, ben rappresentata nella tabella che vi invito a riguardare prima di passare oltre, mi corre l’obbligo di segnalarvi quanto ha scritto, sempre oggi ma su “il Fatto Quotidiano”  Paolo Ziliani – “Qui calcio italiano Hoeness chi?” -: Nel paese chiamato Italia c’è un presidente, Cellino del Cagliari, che da settimane piange e strepita e urla al cielo il suo dolore: è pronto ad acquistare il 75% del club inglese del Leeds United ma la Football League, che deve valutarne il profilo morale, sembra orientata a lasciarlo fuori dalla porta. In Inghilterra chi ha subìto condanne per reati sportivi o reati contro la pubblica amministrazione non può detenere più del 30% delle azioni di un club: e Cellino in questo senso non è messo benissimo. Nel suo personalissimo palmares ci sono infatti una tentata truffa ai danni dell’Ue per un acquisto taroccato di scorte di grano (14 mesi patteggiati); una condanna a 1 anno e 3 mesi per falso in bilancio per irregolarità nell’acquisto del Cagliari; 120 giorni trascorsi in carcere, la primavera scorsa, per peculato e falso ideologico nell’inchiesta sui lavori di ristrutturazione dello stadio Is Arenas; e martedì prossimo, tanto per non farsi mancare niente, sarà giudicato per il mancato pagamento Iva (400 mila euro) di una barca acquistata negli Usa: il pm ha chiesto 1 milione di multa e la confisca del bene. “Mi stanno umiliando”, piange Cellino. La Football League vorrebbe evitare invece che ad essere umiliato fosse il calcio inglese. Con Cellino a capo del Leeds. Nel paese chiamato Italia c’è un presidente, Preziosi del Genoa, che ai tempi del Como Calcio, da lui portato al fallimento, finì agli arresti domiciliari con l’accusa di bancarotta fraudolenta (16 milioni) e falso in bilancio. Preziosi incominciò a cedere i giocatori più importanti senza mettere i ricavi a bilancio, depauperando il patrimonio del club e danneggiando erario e creditori. Grazie al “pacchetto sicurezza” del ministro Alfano, patteggiò 23 mesi di reclusione, pena subito indultata. La giustizia sportiva gli inflisse 5 anni di squalifica con proposta di radiazione, ma lui – che intanto aveva acquistato il Genoa – se ne fece un baffo: e da vero “borderline” del pallone mise in scena il leggendario tarocco di Genoa-Venezia 3-2, la partita dei soldi nella ventiquattrore del direttore sportivo, con i rossoblù retrocessi dalla serie A alla C1 e la condanna di Preziosi anche in sede penale a 4 mesi (frode sportiva). Tornato con fatica in serie A, Preziosi rilasciò un’intervista in cui annunciava – trionfale – di aver ceduto a Moratti Milito e Motta. Peccato che essendo ancora sotto squalifica non potesse farlo: gli inflissero altri 6 mesi, che certo non gli fecero perdere il sonno. (…). La svista del cronista radiofonico di “Radio 24” non è affatto una svista; sarebbe un errore pensarlo. È che in Italia quei 156 finiti in galera per reati fiscali sono proprio i più fessi di tutti. Se lo sono meritato il carcere. Peggio per loro! Imparino!

venerdì 14 marzo 2014

Storiedallitalia. 42 “Il gesto esclamativo e l’arte di governo”.



Quanto ci manca per il baratro? Non è dato sapere. Ci sorreggerebbe la speranza. Andata però perduta negli anni. O tutt’al più un atto di fede. Ma per chi non sia posseduto dalla fede? L’atto di fede sarebbe utilitaristico e di conseguenza inopportuno. Potrebbe ben essere definito di blasfemia. In verità ci rimane ben poco. Se non invocare l’inverarsi dell’impossibile. Vedo certe facce in giro che stanno lì a manifestare lo sconforto generale. Non sono facce rapite dal nuovo - che non c’è -. Non sono facce estatiche in preda ad un sommovimento interiore che pare aprirsi alla speranza. Vanno quelle facce con i loro passi e le loro disillusioni. La rimozione delle illusioni è forte e decisa. Anche perché disillusi da gran tempo, a far data da quella che ancor oggi viene definita la storica “discesa in campo”. Un milione di posti di lavoro! Giù le tasse per tutti! Meno lacci e lacciuoli per  chi intraprende! Riformare la giustizia! Bla bla bla. Tutto andato a male. Lo stacco col presente però è netto. Quello a rappresentare le sue vane promesse su vili cartelloni. Ché con albagia disdegnava il nuovo e si vantava di non aver letto un romanzo negli ultimi suoi vent’anni. Il nuovo smanetta di continuo, twitta, manda sms di continuo. Forse di continuo digita “condivido”, “mi piace”. Blatera. Ma è il nuovo che avanza. E piace. Fino a quando? Quale sarà la differenza nei fatti? Necessiterebbe un atto di fede. Che non c’è. Vedremo! Nell’eloquio del premier esordiente ricorrono i gesti esclamativi, abilmente usati. Definiamolo in greco: anziché dal nóos, organo intellettivo, sale dal thumós, sede degli spiriti vitali; volano parole esca cariche d’effetto; e talvolta catturano l’uditorio. Ad esempio, «rottame», da cui il verbo «rottamare»; o «mettere la faccia»; «se questo governo fallisce, la colpa è mia»; annunciava «una riforma al mese». Manca ancora la trama razionale: come stiano effettivamente le cose; quid agendum ossia la scelta del fine e i motivi; fin dove sia conseguibile; con quali risorse; come spenderle ecc. Perdurando lacune sintattiche, siamo nella sfera del grido o segno mimico (…). Lo ha scritto Franco Cordero  sul quotidiano la Repubblica del 4 di marzo col titolo “Il gesto esclamativo e l’arte di governo”. Sembra essere rimasti fermi al tempo dei tonitruanti proclami. Per il nulla. Cosa se ne ricaverà di utile? Eppure c’era da aspettarselo uno scenario come questo. Basterebbe ritornare alle cronache di un anno addietro, all’indomani magari di quelle che sono state le ultime elezioni politiche nel bel paese. Se ne ritrova traccia in una riflessione a firma di Adriano Prosperi sul settimanale Left del 27 di aprile 2013 che ha per titolo “Un suicidio morale”. Rileggerla oggi? Una opportunità – forse - per capire il presente. Forse. Scriveva: Singolare quell’applauso. È pur  vero che in Italia, Paese belluinamente vitale, si applaude ai funerali. E forse questo è il vero significato della scena.  Si celebrava il funerale di un partito che aveva raccolto la maggioranza relativa dei voti con la promessa di rispondere a una domanda di equità, di giustizia sociale, di ritorno allo spirito della Costituzione. La base popolare del Paese  se ne attendeva un cambiamento radicale dopo un lungo ventennio dominato da un liberismo selvaggio che aveva impoverito la scuola e la ricerca, spazzato via i diritti dei lavoratori, premiato la corruzione e l’evasione, alterato il sistema elettorale, alimentato la xenofobia e il razzismo,  cancellata la nozione e la realtà dei beni comuni.  Quelle domande avevano trovato espressione pubblica in più occasioni: referendum, manifestazioni, anche tragedie individuali, suicidi. E che altro è se non una forma di suicidio morale la rinuncia silenziosa alla speranza di una impressionante quantità di giovani e disoccupati? Il voto aveva dato espressione chiara a  una volontà che  era maggioritaria nel Paese anche se una ben giustificata diffidenza nei confronti dei partiti che avevano sostenuto un governo “tecnico” aveva premiato prevedibilmente il M5s. Ma ecco che, mentre ancora si cercava la via di una maggioranza per il governo,  nella scelta del presidente della Repubblica il partito di maggioranza relativa, a cui  spettava proporre il candidato, si squagliava, balbettava, si faceva proporre i candidati dall’avversario col quale aveva giurato di non voler più avere rapporti, affondava una dopo l’altra le candidature dei suoi uomini più rappresentativi, non si vergognava di bocciare dopo avere proposto e – ancora una volta – applaudito il nome di Romano Prodi.  Ma il peggio doveva ancora arrivare: gli viene offerta su un  piatto d’argento  la possibilità di eleggere Stefano Rodotà, un nome che rappresenta di per sé un programma. (…). È uno di quei casi non nuovi nella storia dell’Italia in cui una straordinaria congiunzione di difetti, errori, viltà, incapacità appare nel cielo del nostro disgraziato Paese. Prima di questa settimana sapevamo che si doveva ripartire dal basso. Oggi scopriamo che la caduta è destinata a continuare. Aspettiamo di vedere che cosa prenderà il posto del partito che si è suicidato in Parlamento. Per la sua anima ci vorrebbero le parole che Machiavelli immaginò dette dal diavolo a quella di un politico fallito del suo tempo: «Che inferno? Anima sciocca, va’ su nel Limbo fra gli altri bambini». Oggi forse abbiamo la risposta che Adriano Prosperi cercava un anno fa. Che corrisponde al nuovo, nel senso di avvicendamento, sullo scenario della politica. Ché, pur adottando i nuovi strumenti della comunicazione e dell’imbonimento, percorre le vie tortuose ed anguste di sempre. Lo scenario renziano, senza un atto di fede, non cambia e non da inizio al nuovo. Si rifà alla Storia del secolo decimo-quarto Franco Cordero in quel Suo pezzo scritto sempre con maestria assoluta: Nicola nasce nella Roma ancora semigotica, primavera 1313, tra i mulini del Tevere, sotto la Sinagoga, figlio dell’oste Lorenzo (Cola di Rienzo) e impara benissimo l’arte notarile. L’anonimo autore d’una Cronica romanesca lo descrive ferrato latinista: «deh, como e quanto era veloce lettore»; «tutta die» studia epigrafi delle quali pullula l’Urbe; decifra «li antiqui pataffii», interpreta figure, evoca tempi gloriosi. Le lapidi gli servono da scala: ha estro politicante; non ancora trentenne, sale ad Avignone, speaker del governo popolare; e torna con un buono stipendio, notaio del Tesoro comunale. Era posto strategico: in tale veste sferra «luculente » arringhe» contro i magnati, talmente stupidi da subire inerti un colpo di Stato (20 maggio 1347); nominatosi tribuno, governa a mano dura, col favore popolare, ma ha l’Io gonfio. L’inflazione megalomaniaca culmina nella fantasmagoria 31 luglio-1 agosto: cita Sua Santità, l’Imperatore, gli Elettori, i pretendenti; declina titoli immaginari («Candidatus Spiriti Sancti miles, Nicolaus Severus et Clemens, liberator Urbis, zelator Italiae, amator Orbis, Tribunus Augustus »). Ha dei soprassalti. Venerdì 14 settembre convoca i baroni, li imprigiona e condanna a morte ma l’indomani mattina cambia idea, convitandoli in Campidoglio. S’è candidato all’Impero. Chiama il popolo a parlamento e racconta dei sogni. Se ne stava sgomento quando i baroni vengono alla Porta Tiberina, 29 novembre, avendo complici tra le mura, ma il tentativo fallisce, allora. Canta vittoria, sfila, arringa, nega la sepoltura ai tre Colonna morti. In fondo labile, dopo 15 giorni abdica rifugiandosi nel Castello, indi s’imbosca tra Napoli e Roma, ospite dei francescani spirituali sulla Maiella, poi in blanda prigionia boema dall’estate 1350, finché emissari papali lo riconducono ad Avignone (estate 1352). Morto Clemente VI, offre servizi nei domini italiani al successore Innocenzo (stesso numerale) e torna al seguito del cardinale legato. Era capolavoro d’arte ipnotica il modo in cui affascina i due fratelli del terribile e ricchissimo condottiero fra’ Moriale, con i soldi dei quali affitta una compagnia, accolto trionfalmente, ma ormai lo vedono deforme, malfermo, beone. La guerra contro i baroni ristagna. A tradimento cattura fra’ Moriale, decapitato sotto il Campidoglio, sulle cui scale mercoledì mattina 8 ottobre 1354 cade miserabilmente (tentava la fuga, travestito da rivoltoso). (…). Dopo vent’anni d’una sbornia epica all’Italia «proletaria» (già Pascoli la chiamava così) restano gli occhi per piangere, ma gl’irriducibili rimpiangono l’uomo forte, taumaturgo, mago delle vie brevi, finito orribilmente appeso come Cola di Rienzo, perché dove gl’impulsi viscerali prevalgano sulle idee, ci vuol poco a convertirli nel contrario, dall’entusiasmo adorante al ludibrio del cadavere. Rimane costante un’acuta idiosincrasia: non piace chi parli poco, attento ai nessi, contando sul raziocinio; il difetto d’enfasi è piuttosto raro e chi vi cade lo paga. (…). Eravamo partiti dalla lingua politica italiana. Il premier in carica gioca d’effetto innestandovi locuzioni estranee alla parlata ufficiale. L’idem storico non esiste, irripetibile essendo ogni contesto, ma l’analogia aiuta a capire quel che avviene. Il punto interessante è cosa sia pronosticabile sul governo misteriosamente nato dai patti tra mercoledì 12 febbraio e l’indomani. E la Storia sta lì a presentare i suoi corsi e ricorsi. Indifferente agli affanni dei più.

martedì 11 marzo 2014

Strettamentepersonale. 12 La “lista Tsipras”.



L’Europa ha smarrito gli ideali originali, tradendo la volontà degli stessi Padri costituenti. Prima che muoia del tutto, è necessaria una “scossa”. Per questo aderisco all’appello per la costruzione di una lista autonoma e della società civile che sostenga Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione di Bruxelles. Dietro tale candidatura non si cela il rifiuto dell’Europa o il dilagante e pericoloso euroscetticismo invocato da forze nazionaliste e xenofobe, ma il ritorno ai veri valori dell’Europa, quella dei cittadini, dei diritti, dell’ambiente. Un’idea di comunità di popoli legati a una cultura e solidarietà, con un ruolo centrale nella politica mondiale. In contrapposizione all’Europa attuale: della finanza, della Troika, che impoverisce e strangola i Paesi in nome dell’austerity e del rigore. Siamo alla smentita più clamorosa dei principi marxisti secondo i quali da un sistema economico si genererebbe sempre una sovrastruttura politica. Viviamo invece in un’Europa in cui il sistema finanziario è fuori da qualunque controllo politico, si autogoverna. Senza alcun freno o limite. Così, la cittadinanza europea si sta sgretolando diktat dopo diktat e, di questo passo, l’illusione e il risentimento nei confronti delle istituzioni europee è destinato ad aumentare. Inoltre, da costituzionalista , aggiungo la seguente considerazione: l’Italia ha aderito all’Unione europea in base all’articolo 11 della nostra Carta, il quale – nella seconda parte – consente la cessione di “pezzi” della propria sovranità in favore di istituzioni sovranazionali che si pongono lo scopo di creare un’integrazione sempre più stretta tra i popoli. Ma la cessione di sovranità è subordinata a due principi: la pace e la giustizia. In questa nostra Europa, così costruita, pare palese che tali valori stiano venendo meno. Quando parlo di “guerra” mi riferisco ovviamente non a operazioni militari (per fortuna scongiurate nel continente) bensì allo strapotere della finanza che per propri interessi ed equilibri sta assoggettando intere nazioni. Nelle istituzioni europee va reintrodotta linfa culturale, l’amore per un’altra idea di Europa e quell’energia politica del progetto originario d’unità nato a Ventotene dopo la Seconda guerra mondiale. Dobbiamo ritornare a poter dire con orgoglio di essere “cittadini europei”. Per questo sostengo la lista Tsipras. Prima che sia troppo tardi. È questo l’appello a firma di Gustavo Zagrebelsky - “Tsipras per l’Europa dei popoli contro lo strapotere della finanza” – apparso su “il Fatto Quotidiano” del 30 di gennaio 2014. Come non aderire ad esso che sembra aprire spiragli nuovi nel maleodorante mondo della “antipolitica” che è al potere? Ed invece i primi passi che la “lista” ha compiuto sono dei più incerti. Poiché non è possibile far camminare un “sogno” grande sulle esili, incerte gambe di quegli stessi uomini che hanno concorso, da tutte le sponde, a scacciare la politica “buona” a favore della “antipolitica” che è al potere. È una lotta impari, titanica, scacciare i manutengoli – che viene dal latino “manutenere” che sta per “condurre tenendo per mano”, ovvero “proteggendo o aiutando attività illecite” - della “antipolitica” affinché torni la politica ad essere limpida, trasparente ed al servizio esclusivo del cosiddetto “bene comune”. Aver aderito o solamente aver pensato di appoggiare la “lista” poiché liberata dalla infestante presenza dei politicanti per mestiere si scontra, nello scorrere dei giorni, con una realtà durissima a morire: quei manutengoli non vogliono per nulla abbandonare le posizioni conquistate. È dalla rete che ci viene data contezza dello scontro durissimo in atto. Non ultimo il caso di Antonia Battaglia – attivista ecologista in quel di Taranto - che, sul sito www.inchiostroverde.it ha denunciato la presenza di impresentabili nella “lista” per la qual cosa ha chiesto l’annullamento della Sua candidatura. Scrivendo: “Ho ricevuto stamane una bellissima lettera da parte del Comitato per la Lista “L’Altra Europa con Tsipras”, nella quale mi si invita a non ritirare la mia candidatura e a non darla vinta a chi mi vorrebbe fuori da questa lista. La lettera, firmata da Argiris Panagopoulos in nome di Alexis Tsipras, Barbara Spinelli, Marco Revelli e Guido Viale, é stata una grande testimonianza di fiducia nei miei confronti. Ma è con grande rammarico che, mio malgrado, constato ancora che tra i candidati della circoscrizione Sud rimangono i nomi di due candidati appartenenti a SEL.(…). I miei principî morali ed etici e la netta consapevolezza di non voler portare avanti una campagna per Taranto e per il Sud tutto in Europa, accanto ad esponenti di un partito che ancora ieri ha continuato a disconoscere le proprie gravi responsabilità sulla questione ILVA, mi inducono a riaffermare con forza la mia scelta. Pertanto ho pregato il Comitato di voler provvedere a levare il mio nome dalla lista dei candidati della circoscrizione Sud. Auguro ad Alexis Tsipras tutto il successo che merita in Europa”. Trovo opprimente tutto ciò. Il “sogno” di poter sostenere una lista che fosse espressione della cosiddetta società civile viene così a dissolversi? È che il “sogno” di quei grandi che l’hanno pensata non può camminare sulle gambe dei nani della “antipolitica”. Il momento è duro. Nel mio piccolo posso testimoniare d’essermi trovato a constatare di persona quanto le resistenze opposte dalla “antipolitica” si stiano organizzando e posizionando sul terreno nuovo affinché il “sogno” abbia a svanire ai primi albori. Mi è capitato di cercare sul sito ufficiale della “lista” il referente della stessa per la mia zona di residenza. Avutone il nominativo mi sono premurato a segnalare la mia simpatia per la “lista” e la mia disponibilità a spendermi per una sua più capillare diffusione. Come riscontro alla mia disponibilità mi si invitava invece a contattare le sedi di specifici partiti. È stato come se mi fosse crollato un muro addosso. Non ho potuto fare a meno che rispondere in questi termini: Egregio ***, la ringrazio per il sollecito e cortese Suo riscontro. Sono un iscritto al Partito democratico e vengo da una Storia politica lontana. Simpatizzando per la lista Tsipras ho tanto sperato che essa avesse un po' meno di partitico e molto più di politico. Questo per dirle che la mia risoluzione ad appoggiare la lista Tsipras non è legata alla emozionalità del momento ma ad una scelta che vuole superare la pessima partitocrazia che ha avvelenato ed avvelena la nostra vita sociale tutta. Se avessi voluto riconoscermi in una qualsivoglia forma partitica per la tornata elettorale delle europee sappia della mia militanza nel Partito Democratico. Il fatto è ben altro. (…). Ostinatamente, forse ciecamente, continuo ad aderire all’appello di Gustavo Zagrebelsky e degli altri proponenti affinché si costruisca veramente “una lista autonoma e della società civile che sostenga Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione di Bruxelles”. È un’altra “ultima spiaggia”.

lunedì 10 marzo 2014

Capitalismoedemocrazia. 45 “La deriva del capitalismo”.



La Cina festeggia l’anno del Cavallo, ma le imprese hanno già aperto la caccia agli operai. Milioni di lavoratori, terminate le vacanze del capodanno lunare, non torneranno nei distretti industriali. Il 30% dei posti resterà scoperto almeno fino a giugno. Per la prima potenza produttiva del mondo è un danno miliardario, tale da spingere le aziende a concedere bonus e aumenti di stipendio senza procedenti, pur di non bloccare per mesi le catene di montaggio. A fine di gennaio oltre 300 milioni di operai-migranti hanno fatto ritorno nei villaggi d’origine per le ferie. A scoraggiare un ritorno puntuale sul posto di lavoro, oltre alla prospettiva di un altro anno in solitudine, il costo del viaggio, i salari bassi, la nascita di piccole imprese anche nelle regioni lontane dalla costa, il ritorno dei profitti in agricoltura. Lo scorso anno il mancato ritorno operaio nelle metropoli industriali è costato alle imprese cinesi il 15% del giro d’affari. Un sondaggio dell’Accademia delle scienze rivela che nessuna azienda ha perso meno del 10% della propria forza lavoro. I capi del personale, da Shenzhen a Shanghai, sono dunque mobilitati: chi riuscirà a convincere il numero più alto di dipendenti a riprendere rapidamente il lavoro, passerà un anno del Cavallo senza assistere ad un'altra fuga di massa di lavoratori verso le potenze emergenti del Sudest asiatico. Per la prima volta la Cina fa dunque conoscenza con un fenomeno comune nell’Occidente pre-crisi: gli incentivi. In questi giorni a milioni di operai vengono promessi biglietti ferroviari, rimborso dei pasti e aumento della busta paga del 10% fino a giugno. L’invecchiamento della popolazione e la concorrenza di Cambogia, Vietnam, Mianmar e Thailandia, aumentano le difficoltà cinesi nel fidelizzare la forza lavoro specializzata. Chi rientra puntualmente al lavoro otterrà un premio tra i 100 e i 1000 yuan, ma pure biglietti per le nuove lotterie aziendali, dove si vincono 1500 euro, pari a cinque mensilità del reddito minimo. Alcuni gruppi promettono agli operai fedeli di organizzare party aziendali, giri turistici per i week-end, di costruire biblioteche, sale video, piscine e asili, oppure di donare tessere-sconto per fare shopping. Nel settore elettronica, dove la manodopera è più giovane, si offrono perfino serate romantiche per single, per favorire i contatti in una massa operaia vittima dell’isolamento. Tra febbraio e marzo i benefit per i ricercatissimi lavoratori fedeli saranno a doppia cifra, prospettiva che però, in molti casi, accresce il problema del mancato rientro dai villaggi. I dipendenti sanno che non ripresentarsi in azienda non espone più al licenziamento, come in passato, ma offre l’opportunità di essere premiati. Minacciare la stabilità occupazionale cinese, per l’operaio può rivelarsi un vantaggio. Per i colletti bianchi il reclutamento si fa invece sempre più difficile e oggi sono loro, in caso di fallimento, a rischiare il posto: risparmiare sui premi-fedeltà può causare il crollo della manodopera, ma promettere troppo può aumentare il ritardo del suo rientro. Anche in Asia si apre una fase nuova. Oltre 100 milioni di lavoratori specializzati cinesi si dichiarano pronti ad espatriare, pur di guadagnare di più e di vivere in ambienti meno inquinati, mentre i laureati aumentano del 34% all’anno, rispetto ad un meno 26% di operai. Non sono solo le ferie di capodanno ad obbligare le industrie del Dragone ad andare a caccia dei dipendenti in fuga: per la Cina termina l’era del lavoro a basso costo e la geografia globale delle multinazionali nomadi sta per acquisire un profilo nuovo. È la cronaca in forma di corrispondenza, sempre puntuale ed avvincente, che Giampaolo Visetti ha fatto, sul numero del settimanale Affari&Finanza del 10 di febbraio appena trascorso, da quell’impero che un tempo si diceva essere celeste. Titolo del Suo pezzo: “Cina, il caso dell’operaio che non torna dalle ferie”. Che poi è la cronaca che mette a nudo i “vizi” vecchi e nuovi del capitalismo. “Vizi” esasperati dal nuovo capitalismo a carattere eminentemente finanziario che sottrae al capitalismo manifatturiero quelle risorse necessarie a garantire e gratificare il lavoro. Capitalismo selvaggio, denudato da quella responsabilità sociale che pur gli dovrebbe appartenere. Accadrà che da quell’opificio del mondo la fuga delle imprese e delle aziende, sotto l’incalzare delle richieste delle maestranze a corto di diritti e di salari di dignità, impoverirà quello che è stato l’impero celeste, divenuto nel frattempo capitalista, per meglio sfruttare altri angoli del pianeta Terra ove dettare la legge inesorabile del cosiddetto “fattore limitante” del Liebig. Se ne è di già parlato su questo blog. È tornato a questo punto della “crisi” interessante riproporre una riflessione di Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini su quella che essi hanno definito “La deriva del capitalismo”. L’interessante, ancor attuale riflessione è stata proposta sul quotidiano la Repubblica il 22 di settembre dell’anno 2012. Scrivevano i due studiosi: Lo strappo effettuato dai (…) leader conservatori, Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Inghilterra, determinò un completo rovesciamento dei rapporti di forza sia tra capitale e lavoro, sia tra capitalismo e democrazia poiché creò una condizione di fortissimo vantaggio per le grandi imprese private nei confronti degli stati nazionali. Da quel momento la capacità di intervento dello Stato nell’economia andò incontro ad un drastico ridimensionamento, mentre i lavoratori cominciarono a subire i ricatti delle delocalizzazioni produttive. La liberazione dei capitali rappresentò dunque la mossa decisiva che influenzò l’evoluzione dell’economia mondiale e diede l’avvio alla fase del capitalismo finanziario. A dire la verità, anche nell’opinione degli economisti classici la libertà dei movimenti di capitale non era stata sempre vista di buon occhio. Un grande pensatore come David Ricardo aveva ammonito sui pericoli inerenti alle loro libere scorribande. I capitali, aveva sostanzialmente osservato, non sono valigie trasportabili indifferentemente da un punto all’altro del mondo: sono elementi essenziali del contesto sociale il cui spostamento non può non determinare conseguenze rilevanti nella sorte della stessa coesione sociale. Per questi motivi sradicare e trasferire i capitali in qualsiasi parte del mondo senza il consenso della comunità non può essere considerato un comportamento virtuoso. Ma ci sono anche altre conseguenze molto importanti, poiché si crea un mercato finanziario integrato che consente al capitale di tutto il mondo di entrare in collegamento e di dar luogo “all’internazionale dei capitalisti”, un’élite globale che concentra in sé un potere immenso. L’appello di Karl Marx, “proletari di tutto il mondo unitevi”, si realizza, ma al contrario. I mercati finanziari diventano un’istituzione strutturata e iniziano ad esprimersi come i governi. È ben noto, infatti, che a Wall Street si tengono riunioni periodiche dei capi delle grandi banche e delle società finanziarie che stabiliscono i tassi di interesse e, attraverso le decisioni di investimento o di disinvestimento, possono sfiduciare i governi che attuano politiche economiche non gradite e sono in grado di condizionare il destino di intere popolazioni. Il mutamento del rapporto di forza tra il capitale e gli altri fattori di produzione da una parte e tra il capitalismo e il governo democratico dall’altra, rappresentano due fattori fondamentali che sono alla radice del processo di finanziarizzazione. (…). Nell’impresa i fattori legati al profitto riprendono una posizione dominante e con essi la distribuzione di dividendi agli azionisti e la ricerca continua dell’incremento delle quotazioni azionarie, indice supremo di efficienza e di forza. I finanzieri conquistano così un ruolo centrale nella gestione delle grandi unità produttive imponendo la loro visione del mondo rappresentata dal guadagno immediato da ottenere con ogni mezzo. Questa è la situazione che dobbiamo rovesciare se vogliamo realmente uscire dalla crisi. (…). Ormai è evidente a tutti che i mercati finanziari rappresentano un potentissimo amplificatore delle fisiologiche fluttuazioni cicliche poiché innescano dei meccanismi cumulativi che si autoalimentano. Quando c’è crescita i mercati gettano benzina sul fuoco e amplificano l’espansione, ma quando c’è crisi i mercati spingono l’economia verso la depressione. Per questo è necessario fare ben di più: la politica deve tornare a fissare le regole fondamentali dei movimenti di capitale a livello mondiale. Occorre una nuova Bretton Woods, questa volta nel segno di Keynes. Non è una riforma. È una rivoluzione.

venerdì 7 marzo 2014

Cosecosì. 70 “I vecchi nuovi e i nuovi vecchi”.



C’è un gran parlare in giro di vecchi da rottamare e di giovani che innovano. È un parlare senza senso alcuno. Ché si può essere giovani ed al contempo “vecchi vecchi”, dal di dentro. E se non “vecchi vecchi” per personale inclinazione “vecchi vecchi” per abitudini, per consuetudini, per educazione, per acquiescenza. Ed allora è un vuoto parlare in termini d’anagrafe laddove ad essa si volesse associare la giovinezza delle idee e del fare. Ed è esistito un tempo, che sembra oggigiorno remoto assai, che sul quotidiano l’Unità, con puntualità giornaliera, compariva una rubrichetta – “Manginobrioches”, che si ispirava di certo a quella regnante d’oltralpe che informata che il popolo non avesse pane da mangiare consigliava di mordere le fragranti delizie – nella quale si discettava bonariamente e con semplicità dei massimi sistemi. E così il 21 di novembre dell’anno 2011 compariva nella predetta rubrichetta un “pezzo” col titolo “I vecchi nuovi e i nuovi vecchi”. È tutto un fluire in esso di una saggezza semplice e pratica che al tempo della “scarnificazione” del pensiero sembra essere un miracolo dal ciel piovuto. A pensarci bene al tempo – il 2011 – l’idea di rottamare si affacciava prepotente come la ricetta necessaria e salvifica per la risoluzione di tutti i mali del mondo. Non ci resta che leggere il dialogo illuminante: «Zia, che cos'è il nuovo?». «Il nuovo prima non c'era». «E quindi che cos'è nuovo, adesso?». «Il governo è nuovo». «Ma alcuni dicono che è vecchio». «E che cos'è, il vecchio?». «Il vecchio, zia, beh, è quello che esiste da molto tempo..». «Quindi questo governo non può essere vecchio». «No. Ma è vecchio anche chi... ha molti anni d'età». «E quindi?». «Quindi magari è poco elastico, vede le cose in un modo... vecchio. Non capisce il nuovo e non lo sa realizzare». «Io ti sembro vecchia?». «Tu hai 74 anni». «Oh, ne ho molti di più. Ogni volta che leggo sento o vedo qualcosa, divento più vecchia: mi arricchisco di tutta la vecchiaia del mondo, pensa». «Accidenti, e questo lo possiamo fare anche noi giovani?». «Ogni volta che volete». « Figo». «In effetti, bisogna essere vecchi, per essere giovani come si deve: ma questo l'ho imparato col tempo. Essere nuovi è una cosa molto difficile, e devi essere molto vecchio, per saper essere nuovo. Guarda la sinistra, per dire». «La sinistra è vecchia o nuova, zia?». «Dipende: ci sono giovani che sono vecchissimi, e meno male. Se non se lo ricordassero loro, che sinistra significa condividere e proteggere i più deboli, magari gli altri non se lo ricorderebbero mai. (…). Ma purtroppo ci sono anche quelli vecchi che sono smemorati come se fossero nuovi, e quelli nuovi che sono semplicemente vecchi, anche loro senza memoria e senza uno straccio di nuova idea». «Ma non erano quegli altri, quelli che se ne sono andati, vecchi e senza uno straccio di nuova idea?». «Lo erano. Vecchissimi, decrepiti, anche se si tingevano i capelli e le parole. Di quei vecchi che non sono capaci di essere vecchi, e quindi incapaci di nuovo». «Insomma, è meglio essere vecchi o nuovi?». «Tutti e due, nipote, tutti e due». È proprio così: «bisogna essere vecchi, per essere giovani come si deve». Poiché poi accade che si venga a scoprire, con grande raccapriccio, come i cosiddetti giovani giovani non lo siano affatto. Un gran bel pasticcio. E così avviene di sentire da questi giovani, che forse giovani non lo sono, parole del tipo “Non è intenzione di questo governo chiedere dimissioni di ministri o sottosegretari solo sulla base di un avviso di garanzia, ma solo per problemi di opportunità politica”. E poi ancora “L’avviso di garanzia è un atto dovuto, non un’anticipazione di condanna”. E poi, tanto per apparire giovani, risoluti ed operativi “All’esito del procedimento il governo valuterà se chiedere le dimissioni del sottosegretario”. E sin qui il nuovo non si intravvede. Non esiste proprio ancora. Scrive infatti Marco Travaglio su “il Fatto Quotidiano” di oggi – “#inquisitostaisereno” -: Detta così, pare che ogni cittadino abbia diritto a ricevere almeno un avviso di garanzia. Qualcuno dovrebbe spiegare alla ministra delle Riforme che quell’atto è dovuto agli indagati, non a tutti i cittadini: per quanto possa apparirle strano, milioni di italiani non hanno mai visto un avviso di garanzia e vivono benissimo senza. Sono gli indagati che, quando il pm deve compiere atti (interrogatori, perquisizioni, sequestri) alla presenza del loro difensore, “avvisano” l’indagato perché ne nomini uno. E, per essere indagati, occorre essere sospettati di aver commesso un reato: altrimenti niente atto dovuto. Ora, è comprensibile che la giovane Boschi auguri lunga vita al suo governo: ma per quanto lunga sia la durata del Renzi I, sarà sempre inferiore a quella di un processo. Dunque non sarà questo governo a valutare l’esito dei processi ai suoi membri. (…). Elementare! E di seguito: Nessuno vuole abolire la presunzione di non colpevolezza fino a condanna definitiva. Ma qui non si tratta di stabilire se Lupi, Barracciu, Bubbico, De Filippo e Del Basso de Caro siano colpevoli o innocenti: solo se sia opportuno che amministrino il Paese. Nessuno vuol buttarli in galera: ma fuori dal governo sì. Così come in tutte le democrazie, dove basta un sospetto (neppure un’indagine) perché l’interessato si dimetta da qualunque carica pubblica. Salvo rientrare in politica una volta assolti. Lunedì Formigoni sghignazzava in tv (…) che in Italia gli inquisiti non devono dimettersi perché poi alcuni vengono assolti. Come se all’estero tutti gli indagati venissero regolarmente condannati, per legge. (…). …in Italia c’è un libello chiamato Costituzione che all’art. 54 prescrive a chi svolge pubbliche funzioni di esercitarle “con disciplina e onore”. Che onore può vantare chi deve rispondere di un reato?  (…). E qui si viene al nuovo che non c’è. Domanda Marco Travaglio: Ma era politicamente opportuno infilare nel governo 5 indagati? Con quali criteri vengono selezionati i ministri e i loro vice? E da quali elenchi vengono scelti: dai registri degl’indagati delle procure? Davvero Renzi e i partiti che l’appoggiano (soprattutto il suo, con 4 indagati su 5) non conoscono 62 incensurati tutti insieme? Ma che razza di gente frequentano? E soprattutto: dove sarebbe la novità di Renzi rispetto agli altri? Ecco, è che ci abbiamo pure una Costituzione. Per farne cosa? È che questo nuovo che non è nuovo comincia a stupire. Ma non già per il nuovo che non porta con sé, quanto per la decrepitezza degli atteggiamenti che come fuoco sotto la cenere cova nelle menti e negli animi dei “vecchi nuovi” che non sono affatto i “nuovi vecchi”. Sono i “vecchi vecchi” di sempre. Camuffati da giovani. Ha scritto Francesco Merlo sul quotidiano la Repubblica di ieri giovedì 6 di marzo – “Se i bimbi cantano il culto di Matteo” -:  (…). …a Siracusa ho visto di peggio. Un retroscena rivela infatti che nell’esibizione di quella scuola di borgata, vicina alla chiesa di Lucia, santa e sempre più cieca, non c’è stato solo l’accanimento politico — e ridicolo — del sindaco Giancarlo Garozzo. (…). …io, che da quelle parti sono nato, ci ho visto soprattutto la tristezza infinita di un Meridione che è ancora e sempre lo scenario naturale dello zio d’America, e mi sono ricordato che Silvio Berlusconi a Lampedusa fu accolto come un messia, come un conquistador. Perché sempre così è salutato l’uomo potente che viene da fuori, l’uomo del cargo che può essere un capopartito, un cantante, un calciatore, un presidente del consiglio o non importa chi, purché venga appunto da fuori. Renzi si rilegga, per risarcire l’Italia, Carlo Levi che racconta di quel tal Vincent Impellitteri che — cito a memoria — tornato dall’America, entra in paese (era la provincia di Palermo e non di Siracusa) su una lussuosa macchina scoperta, ed è accolto dalla gente in festa che lo tratta come uno sciamano: «‘Tuccamu a machina, così ce ne andiamo in America’ gridavano i ragazzi del luogo». Ebbene, Impellitteri non solo non li abbraccia e non dà loro il cinque, ma si addolora e si rattrista al punto che si mette a piangere. Ecco, ci sarà da piangere ancora!

martedì 4 marzo 2014

Eventi. 17 “C’è un’Europa oltre Bruxelles scegliamola con il voto”.



L’Europa (per riprendere una metafora del sociologo francese Bruno Latour) si trova nella situazione di un’azienda automobilistica che constata che i suoi modelli di punta hanno freni malfunzionanti e producono emissioni di anidride carbonica nocive per la salute dei guidatori e dei passeggeri. Cosa fa l’azienda? Ritira il suo prodotto! L’Europa deve riportare in un’officina di riparazione il suo modello di modernità autodistruttiva – ossia: ripensarlo e ricollaudarlo politicamente. È quanto andava scrivendo il sociologo Ulrich Beck - “Quattro risposte sull'Europa” - sul quotidiano la Repubblica del 4 di maggio dell’anno 2013. Siamo a soli due mesi dalle elezioni europee. Ed ho avuto modo di scrivere, nel post precedente, che il tempo è venuto. È venuto il tempo che si parli di Europa in Europa ma anche e soprattutto nel nostro paese. E bisognerebbe parlarne alla luce di quanto Ulrich Beck aggiungeva nella Sua riflessione: Immaginiamo che in Gran Bretagna gli euroscettici prendano il sopravvento e che la Gran Bretagna esca dall’Ue. I britannici avrebbero allora un senso più chiaro della loro identità? Avrebbero più sovranità per decidere sulle loro faccende? No! Molto probabilmente gli scozzesi e i gallesi rimarrebbero nell’Ue; di conseguenza, si creerebbe una frattura dell’United Kingdom. E la Gran Bretagna – no, l’Inghilterra! – subirebbe una notevole perdita di sovranità, se per sovranità si intende il potere reale di influenzare le proprie faccende e le decisioni degli altri. Credo che la situazione storica sia assolutamente inequivocabile: l’Unione Europea è in grado di realizzare gli interessi nazionali più di quanto potranno mai fare le nazioni da sole. Perché si affermi questa convinzione, è necessario battersi in Europa per l’Europa. Poiché deve essere chiara la scelta di fronte alla quale ci troveremo in quanto elettori: non tanto un antistorico “Europa sì/Europa no” ma piuttosto quale Europa in un mondo della complessità e delle grandi dimensioni che solo aggregando forze consentirà di entrare a pieno titolo nella competizione planetaria. Ed a tale proposito Ulrich Beck sottolineava: Tutti si interrogano sull’Europa, ma nessuno ribalta da capo a piedi la domanda sull’Europa. Non dobbiamo soltanto riflettere sulla visione di un altro futuro europeo, ma anche sulla visione di una “altra nazione”: come si possono liberare dall’orizzonte del XIX secolo e come si possono aprire al mondo cosmopolitico del XXI secolo l’autocomprensione della grande nation, del nazionalismo e la categoria dello Stato nazionale democratico? Occorre allora distinguere chiaramente tra un fondamentalismo nazionale non-patriottico, che si rifugia nella nostalgia e si chiude all’Europa e al mondo, e un nazionalismo cosmopolitico, che ridefinisce i suoi interessi nazionali aprendosi al mondo, nell’alleanza cooperativa con gli altri paesi europei. Che l’Ue abbia un futuro dipende da una Francia europea, una Grecia europea, una Germania, una Spagna, una Polonia, un’Olanda, ecc. europee. È questa la dimensione utile che dovrebbe assumere la discussione su l’Europa che si vorrà dalle elezioni di maggio. Ma nel bel paese tutto si confonde in un chiacchiericcio inconcludente che soccorre bene la politica dalla qualità pessima. Eppure non dovrebbe sfuggire ai più che la partita è decisiva e della massima importanza sol che si voglia invertire una linea politica europea improntata esclusivamente alla più disperata strategia dell’austerità a tutti i costi. Ritengo che sia importante allora prepararsi a nuove strategie e a dare credito alle nuove proposte che vengano dalla società civile che ben poco peso e nessuna parola ha potuto avere e manifestare sulle scelte operate dalle oligarchie europee. Il tempo è venuto ho di già scritto, aggiungendo che non ce ne sarà concesso un altro ancora. Il dramma del paese ellenico, mirabilmente tratteggiato da Barbara Spinelli sulla scorta dei dati forniti dalla rivista medico-scientifica Lancet, sta lì a gettare una luce sinistra su di un avvenire non troppo lontano che potrebbe inverarsi anche per tanti altri paesi della vecchia Europa. In questa direzione va l’appello che Ulrich Beck – “C’è un’Europa oltre Bruxelles scegliamola con il voto” – ha lanciato dalle colonne del quotidiano la Repubblica  del 27 di febbraio, appello sottoscritto anche da Zygmunt Bauman, Elisabeth Beck-Gernsheim, Daniel Birnbaum, Angelo Bolaffi, Jacques Delors, Chris Dercon, Slavenka Drakulic, Ólafur Elíasson, Péter Esterházy, Iván Fischer, Anthony Giddens, Lars Gustafsson,Jürgen Habermas, Ágnes Heller, Harold James, Mary Kaldor, Navid Kermani, Ivan Krastev, Michael Krüger, Pascal Lamy, Bruno Latour, Antonín Jaroslav Liehm, Robert Menasse, Christoph Möllers, Henrietta L. Moore, Edgar Morin, Adolf Muschg, Cees Nooteboom, Andrei Plesu, Ilma Rakusa, Volker Schlöndorff, Peter Schneider, Gesine Schwan, Hanna Schygulla, Tomáš Sedlácek, Kostas Simitis, Klaus Staeck, Richard Swartz, Michael M. Thoss, Lilian Thuram, Alain Touraine, António Vitorino, Christina Weiss, Michel Wieviorka: Il prossimo maggio le cittadine e i cittadini saranno per la prima volta chiamati alla scelta sul futuro dell’Europa. Quale Europa vogliamo? Dal momento dell’entrata in vigore del trattato di Lisbona e per tutta la durata della crisi i cittadini non hanno mai avuto l’opportunità di esprimere il loro giudizio sul futuro dell’Unione Europea, in un processo di formazione democratica della volontà. Questa volta, la novità è costituita dalla presenza di diversi candidati alla carica di presidente della Commissione europea, con la possibilità di scegliere tra diversi modelli d’Europa. È un salto quantico politico. Infatti, nel medesimo momento e in tutta l’Europa discuteremo in lingue diverse sugli stessi temi – cioè su persone e sui loro programmi. Vogliamo il “meno Europa” di un David Cameron, dettato dagli imperativi del mercato, oppure un’“altra Europa”, che sottopone il mercato a regole democratiche, come ha in mente il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz? I partiti anti-europei e i loro candidati vogliono essere eletti democraticamente per minare la democrazia in Europa. Invitiamo i cittadini d’Europa a negare il loro voto a questo attacco politico suicida. Ma è assolutamente necessario prendere sul serio lo scetticismo dei cittadini. Per la rinascita dell’Europa è indispensabile mettere pubblicamente in luce i difetti congeniti dell’Ue. Noi siamo contrari a una politica europea capace di mobilitare 700 miliardi di euro per stabilizzare il sistema bancario, ma che vuole spendere soltanto 6 miliardi per contrastare la disoccupazione giovanile. Molti, e tra di loro anche tanti giovani europei, hanno la sensazione che esista un mondo parallelo anonimo chiamato “Bruxelles”, e che esso minacci la loro identità, la loro lingua e la loro cultura. È sorta un’Europa delle élites, senza un’Europa dei cittadini. Per guadagnare i cittadini all’Europa, la politica deve affrontare i temi che stanno a cuore alle persone. L’Europa si trova in un moment of decision. Dipenderà essenzialmente dall’esperienza, dagli orientamenti di fondo, dal coraggio e dall’abilità del prossimo presidente della Commissione europea se riusciremo a superare in Europa il “dispotismo benintenzionato” (Jacques Delors) e a far acquisire al vecchio continente una posizione energica e una voce che parli del futuro in un mondo globalizzato. Il tempo è venuto, allora. E non ci si potrà sottrarre al dovere ed all’impegno di dare un nuovo indirizzo all’Europa che non sia più l’Europa dei mercati ma diventi un’Europa che pieghi i mercati alle necessità ed ai bisogni dei cittadini europei. Se non al prossimo maggio, quando? Sol che ci si liberi da vetusti schemi mentali e che si faccia convinzione comune e diffusa che l’interdipendenza e l’unione sono necessarie per competere nel mondo globalizzato del secolo ventunesimo.