"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 6 maggio 2013

Cronachebarbare. 11 I nuovi mostri: pacificazione e necessità.



Si era sempre rimproverato all’uomo di Arcore la mancanza del “senso” – tra tutti i sensi in suo possesso - dello Stato. Gli si era pure rimproverata la mancanza di una “virtù” – minore forse, ed oggi alquanto disconosciuta - ovvero quella di dire non la “verità”, il possesso della quale connoterebbe una condizione che non è per gli umani, per la qualcosa la lasciamo appannaggio dei chierici di tutte le confessioni, ma la capacità di dire con sincerità come procedessero le cose nella conduzione della cosa pubblica. Tanto gli si è sempre rimproverato. Ché tutte queste sue insufficienze – tanto da non poterlo considerare mai e poi mai un uomo di stato – non fossero presenti ai soloni dell’”antipolitica” oggi al potere? Ché il popolo minuto ne fosse consapevole e di conseguenza avesse orientato le sue scelte elettorali non sarebbe stato motivo buono e bastevole per non intraprendere azione comune con l’uomo di Arcore? È la tracotanza del potere ad aver dettato le scelte ultime all’”antipolitica” al potere nel bel paese. E sì che sarebbe stato chiarissimo il ruolo che l’uomo di Arcore avrebbe svolto nelle circostanze – Quirinale e formazione del governo -. Gli si deve in questa occasione riconoscere una qualità: la “specchiatezza” – orrendo neologismo? -  del suo comportamento che, senza infingimento alcuno, ha dettato le regole all’”antipolitica”. E tutti proni ai suoi voleri. Ha scritto Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del 1° di maggio un pezzo magistrale che ha per titolo “Il vero padrone è il Cavaliere”: È il linguaggio di verità sul patto con Berlusconi che manca. Gli italiani (compresi gli 11,5 milioni che si sono astenuti, per rassegnazione o rabbia) hanno condannato vent’anni e più di politica offesa da tornaconti partitocratici. Sono stati ignorati: la politica sarà rimaneggiata non dai loro rappresentanti ma da pochi cosiddetti saggi, di nuovo, che pretendono di sapere più degli altri per potere più degli altri. Sarà verità sovversiva, dice Letta, e invece siamo tuttora immersi in quella che è stata chiamata – da quando Bush iniziò la guerra in Iraq – l’era della post-verità: degli eufemismi che imbelliscono i fatti, dei vocaboli contrari a quel che intendono. Ne citiamo solo due: la parola riforma, sinonimo ormai di tagli ai servizi pubblici; la responsabilità, per cui la compromissione è necessità naturale che esclude ogni alternativa. Oggi l’eufemismo che imbellisce ed adorna il fatto traumatico per qualsivoglia democrazia elettorale è “pacificazione”. “Pacificazione”? Pacificare chi? Ed i contendenti dove stanno? E chi li ha guidati allo scontro tanto  da invocare oggigiorno una “pacificazione” tra le parti? Un linguaggio belluino, che nega la responsabilità che dovrebbe essere propria degli uomini dediti alla politica alta. Ha scritto Nadia Urbinati – al semplice ed immediato sentore dell’inghippo che si sarebbe preparato – sul quotidiano la Repubblica del 28 di aprile – col titolo “Pacificazione e impunità” -: La pacificazione ha un senso in situazioni di guerra civile (…). È un dopo-guerra nel senso più pieno. Se dunque la pacificazione entra ora in scena è perché uno dei partner dell' accordo si sente in guerra e ha sempre interpretato la sua condizione nei confronti della giustizia come una guerra. Il cui esito non può che essere la pacificazione. Non per il bene del paese: ma per chiudere la "guerra" che il Cavaliere dice di avere con la magistratura. Pacificazione dei suoi contenziosi con la giustizia italiana. La più completa pacificazione sarebbe quella che il Cavaliere otterrebbe se non soltanto i suoi processi fossero congelati ma se la sua persona fosse messa al riparo per sempre da ogni possibilità di riaprirli: la nomina a senatore a vita sarebbe il suggello della pacificazione. Se non si ha chiara questa diversità di ragioni strategiche che stanno dietro a questo nascente governo delle larghe intese, questa alleanza farà solo il beneficio di un partner, regalandogli quello che nessun comune cittadino può aspirare ad avere: l'impunità. Hanno un bel dire i turiferari prestamente messisi all’opera. Delle parti messesi assieme nell’ibrido politico di queste settimane una potrà, anche in un futuro non lontano, rivestirsi di quella “specchiatezza” nei comportamenti e nelle regole imposte della quale prima si è parlato. Ma che dire invece di quella parte che con tracotanza, inadeguatezza ed insensibilità “politica” si è acconciata alle regole imposte dalla spavalderia e dall’arroganza, sempre ostentate, di quelli che un tempo si era soliti definire “avversari” irriducibili con i quali mai e poi mai noi…? Spudoratezze che costeranno care, molto care. Ché non si conoscesse il significato recondito ed il prezzo da pagare per la tanto invocata “pacificazione”? E chi di noi si ritiene oggi persona da pacificare? I più accorti tra i turiferari ricorrono ad altri eufemismi. Primo tra i tanti “stato di necessità”. Ne ha scritto saggiamente sul quotidiano l’Unità del 5 di maggio lo storico della filosofia Michele Ciliberto col titolo “Oltre lo stato di necessità”. Lo trascrivo in parte: Pensiamo alle previsioni che si facevano tre mesi fa: una forte affermazione del Pd; la guida del governo al segretario di questo partito, gloriosamente acclamato alle primarie; una prospettiva politica e governativa nettamente alternativa al Pdl; l’elezione, infine, di un nuovo Capo dello Stato al posto di Giorgio Napolitano. Di tutto questo non è accaduto niente: il Pd ha perso quasi quattro milioni di voti; il suo segretario si è dimesso; al posto suo Giorgio Napolitano, riconfermato alla presidenza della Repubblica, ha incaricato un altro esponente del Pd prescindendo completamente dai risultati delle primarie; è stato costituito un governo di larghe intese fra Pd, Pdl e Scelta civica. Come in una sorta di specchio maligno, tutte le previsioni sono state rovesciate, una per una: un sogno o un incubo, a seconda dei punti di vista. In genere, tutti però sembrano d’accordo nel sostenere che questo rovesciamento ha ragioni «obiettive». Lo giustificano, cioè, facendo appello al principio di «necessità»: non ci sarebbero state altre strade. Come se una giustificazione di questo tipo – quando fosse accettata – non significasse, paradossalmente, che siamo in balia degli eventi, che non sappiamo dove stiamo andando, che una forza più grande delle volontà e dei progetti dei singoli partiti si impone sottomettendo ogni cosa a se stessa – secondo movimenti e processi che appaiono, appunto, imprevedibili -. E non confermasse, insomma, che siamo nel pieno di una crisi organica, nel senso stretto del termine. Ma pur accettato il criterio della «necessità», e che fosse effettivamente necessario seguire la strada che si è scelta, vanno segnalate, e distinte con forza, le responsabilità delle classi dirigenti che hanno governato l’Italia – (…) – e che ci hanno condotto in questa situazione. È loro responsabilità non avere capito che cosa si muoveva nel fondo del Paese; così come è loro responsabilità non avere approntato politiche in grado di contenere la crisi sociale, salvo martellare i ceti più deboli e più indifesi: quelli che da sempre pagano i prezzi più alti, quando la crisi dilaga nel modo più aspro e più violento; è loro responsabilità infine non aver posto su basi serie il problema del rapporto tra Italia ed Europa. Questo è lo stato delle cose. Che fare, allora? La cosa più sbagliata sarebbe considerare ordinaria l’impossibilità di prevedere; arrendersi al principio di «necessità»; continuare a sostenere la logica – se così si può chiamare – della mancanza di alternative, dell’assenza di strade differenti; rassegnarsi insomma al «grado zero». Come se questa accettazione dell’esistente non fosse poi, a sua volta, una scelta, una politica: quella della «necessità» è infatti un’ideologia come le altre, e come tale va decifrata e criticata. Mentre invece – e dovremmo averlo imparato in Italia, anche dalla storia recente – le democrazie vivono di differenze, di contrasti, anche di conflitti. (…). Ecco il punto cruciale, dirimente: e della democrazia che si suol definire “partecipata”? Che senso avrà chiamare, in un futuro prossimo, i cittadini alle scelte primarie per farne strame successivamente e riducendo quel popolo elettore e partecipante allo stato di un’accozzaglia imbelle, secondo l’intuibile e non tanto mascherata considerazione che di esso ha l’”antipolitica” al potere? 

Nessun commento:

Posta un commento