C'era una volta un'Acca.
Era una povera Acca da poco: valeva un'acca, e lo sapeva. Perciò non montava in superbia, restava al suo posto e sopportava con pazienza le beffe delle sue compagne. Esse le dicevano:
- E cosi, saresti anche tu una lettera dell'alfabeto? Con quella faccia?
- Lo sai o non lo sai che nessuno ti pronuncia?
Lo sapeva, lo sapeva. Ma sapeva anche che all'estero ci sono paesi, e lingue, in cui l'acca ci fa la sua figura.
«Voglio andare in Germania, - pensava l'Acca, quand'era più triste del solito. - Mi hanno detto che lassù le Acca sono importantissime.»
Un giorno la fecero proprio arrabbiare. E lei, senza dire né uno né due, mise le sue poche robe in un fagotto e si mise in viaggio con l'autostop.
Apriti cielo! Quel che successe da un momento all'altro, a causa di quella fuga, non si può nemmeno descrivere.
Le chiese, rimaste senz'acca, crollarono come sotto i bombardamenti. I chioschi, diventati di colpo troppo leggeri, volarono per aria seminando giornali, birre, aranciate e granatine in ghiaccio un po' dappertutto.
In compenso, dal cielo caddero giù i cherubini: levargli l'acca, era stato come levargli le ali.
Le chiavi non aprivano più, e chi era rimasto fuori casa dovette rassegnarsi a dormire all'aperto.
Le chitarre perdettero tutte le corde e suonavano meno delle casseruole.
Non vi dico il Chianti, senz'acca, che sapore disgustoso. Del resto era impossibile berlo, perché i bicchieri, diventati «biccieri», schiattavano in mille pezzi.
Mio zio stava piantando un chiodo nel muro, quando le Acca sparirono: il «ciodo» si squagliò sotto il martello peggio che se fosse di burro.
La mattina dopo, dalle Alpi al Mar Jonio, non un solo gallo riuscì a fare chicchirichì: facevano tutti cicciricì, e pareva che starnutissero. Si temette un'epidemia.
Cominciò una gran caccia all'uomo, anzi, scusate, all’Acca. I posti di frontiera furono avvertiti di raddoppiare la vigilanza. L'Acca fu scoperta nelle vicinanze del Brennero, mentre tentava di entrare clandestinamente in Austria, perché non aveva passaporto. Ma dovettero pregarla in ginocchio: - Resti con noi, non ci faccia questo torto! Senza di lei, non riusciremmo a pronunciare bene nemmeno il nome di Dante Alighieri. Guardi, qui c'è una petizione degli abitanti di Chiavari, che le offrono una villa al mare. E questa è una lettera del capo-stazione di Chiusi-Chianciano, che senza di lei direbbe il capo-stazione di Ciusi-Cianciano: sarebbe una degradazione.
L’Acca era di buon cuore, ve l'ho già detto. È rimasta, con gran sollievo del verbo chiacchierare e del pronome chicchessia. Ma bisogna trattarla con rispetto, altrimenti ci pianterà in asso un'altra volta. Per me che sono miope, sarebbe gravissimo: con gli «occiali» senz’acca non ci vedo da qui a lì. (“L’Acca in fuga”, racconto di Gianni Rodari pubblicato nel volume “Il gatto viaggiatore e altre storie” edito da “l’Unità/Editori Riuniti”, 1990).
“Dell’AnsiadelVivere”. 1 “Erano all’incirca le 11”: (…). Nella lentezza c'è virtù. Nella lentezza abita il pensiero, la riflessione, la conoscenza di sé stessi. Fai yoga? Fai ceramica raku, esercizi di centratura del sé? Fai respirazione profonda? Hai provato l'ipnosi? E così, agli innumerevoli sensi di colpa che non sto qui a elencare (…) si è aggiunto anche questo: eccesso di velocità. Una volta ho provato a farmi spiegare bene dal fisico Carlo Rovelli il senso del tempo, ne ha scritto così tanto e bene. Esiste, non esiste, si muove, è lineare circolare è relativo, dipende? Mentre parlava lo capivo. Ho pensato: ecco, ho capito. Un istante dopo non avrei più saputo ripeterlo. Nemmeno ora, anche se mi sforzo: quel luminoso ragionamento così convincente è scomparso insieme a lui, quando ha chiuso la porta ed è uscito. Sarà anche questo, forse, il tempo: in quel caso era solo quell'istante. Un'altra volta, molto più semplicemente, un'amica molto amata mi ha chiesto: di che tempo parli, il tempo di chi? Il tempo tuo, il tempo mio, il tempo di un'altra? Il tempo di chi: perché ciascuno ha il suo tempo. Non corre uguale. È vero. Non corre allo stesso modo per tutti. Ci sono state volte in cui ho pensato, per esempio durante un congedo: io sarei pronta fra un mese, a rivederci in un tempo nuovo, ma a te serviranno sei anni, forse otto, forse dieci. Non c'è colpa né merito: è così. È il tempo di chi. Poi il mio tempo è cambiato, un giorno. Una mattina all'improvviso, come cambiano le cose: erano all'incirca le undici. Da un minuto all'altro ho avuto notizia e contezza che il tempo davanti a me potesse finire assai prima di quanto pensassi, o meglio non avessi mai pensato. Nessuno pensa con esattezza a quanto tempo ha davanti, non lo conta in termini di mesi o di anni fino a che qualcuno non gli dice: saranno questi, nel migliore dei casi. Allora succede qualcosa di imprevedibile. Almeno a me è successo. Il tempo cambia. Non sono sicura di saper spiegare come, provo. Diventa più corto, oggettivamente, ma più largo. Più breve e più ampio. Diventa una borsa che sembra piccola ma si fa sempre più grande quanto più la riempi. Un liquido più denso. Diventa più lento, in un certo senso, ma incredibilmente più rapido nelle sue trasformazioni: tutto cambia ogni momento. E ogni momento dura più di un momento: si insedia, sta. La scorsa settimana ho fatto colazione con una scrittrice che amo molto, ha qualche anno più di me. Mi ha detto: io non guardo più avanti, mi deprime. Non guardo indietro, mi immalinconisce. Guardo di lato. Che meraviglia, ho pensato. Chissà com'è il tempo di lato. Proviamo.
“Dell’AnsiadelVivere”. 2 “I custodi dell’arcano”: (…). Tutti invocano un rallentamento, ma poi non si ferma nessuno. Quando la frenesia sembrava suonarle al raziocinio i nostri vecchi dicevano sempre: «Calma, c'è tempo». Temevano che la fretta soffocasse la lucidità o la saggezza era soltanto una fotografia della prudenza più stagnante? È tardi per domandarselo, tardi per inventare un'alternativa alla nostra pretesa di ottenere tutto e subito, tardi per rieducarci all'attesa che è desiderio, stasi e speranza, ma è anche e soprattutto, sofferenza. Andavo lento da bambino, gravato dai chili di troppo, mentre i miei coetanei sfrecciavano in cortile durante la ricreazione. Andavo lento da adolescente quando gli anni mascheravano l'orizzonte e immaginare l'eternità non confinava con l'eresia. Non sospettavo sarebbe arrivato il giorno in cui flemma e scelte meditate sarebbero diventate sinonimo di debolezza e trottare l'unica opzione per stare al passo con gli altri. Oggi tutti parlano di slow. La parola è una bandiera, una filosofia, un'intenzione che ne abbraccia molte altre. Non ho ancora capito di cosa si tratti, ma sono certo che il termine non mi appartenga più. Arriva un'età in cui persino ciò a cui aspiriamo diventa fumoso. Lo sappiamo? Non lo sappiamo? Intanto le cose accadono e ci superano. Ci disturba? Ci solleva? Non ne abbiamo più la minima idea. Siamo fuori fuoco, fuori strada e fuori sintonia. Bisognerebbe tornare ad ascoltarsi, a sentire le cose, a farsi, come Lucio Dalla, le domande giuste: "Lento, lento, adesso batti più lento, ciao come stai?". Mi capita di invidiare i vecchi. Le ore sfuggono dalle dita e nella loro consapevolezza in bilico tra fatalismo e ineluttabilità, a un tratto, paiono aver capito il segreto per renderle preziose. Ho visto vecchi coniugi leggersi Steinbeck ad alta voce, per farsi coraggio nella solitudine delle sere invernali. Ho visto vecchi contadini con le schiene piegate dalla ripetizione del gesto impegnarsi con metodo per non dimenticare chi sono stati. Ho visto vecchi cantanti salire sul palco felici di poter essere ancora lì, al centro della loro passione, superiori alla voce che sfuma, muta e si trasforma come tutto il resto. Slow, dicono, ma forse si tratta solo di ritrovare spazio per il silenzio e per la dimensione in cui in assenza di rumore, come suggeriva Fellini, il mistero diventa più chiaro. L'altro giorno ho temuto di dire addio al mio cane. Ha superato i quattordici anni di vita e non riesce più a scendere le scale. Gli occhi hanno la stessa dolcezza di ieri, ma sono circondati da un velo di mesta consapevolezza. Fa le feste, proprio come quand'era solo un cucciolo, ma le movenze sono goffe, affaticate, a loro modo strazianti. Ci sono state un paio di fughe in direzione del veterinario, qualche puntura e poi referti, previsioni, analisi, scenari del lutto che verrà. Andava così lenta, la mia pecora preferita, tornando dalla visita che mi è tornato in mente quel film ricattatorio che da bambini ci avevano mostrato per vederci piangere come vitelli. Si intitolava L'ultima neve di primavera e la studiata lentezza dei gesti dei protagonisti, in ogni fotogramma, rimandava al suo contrario. Alla rapidità con cui gli eventi ci sorprendono, alla nostra incapacità di porvi rimedio, alla nostra impotenza, al nostro analfabetismo sentimentale. Slow, giurano. E allora, se in qualche scrigno, negli abissi di Atlantide o in una cassetta di sicurezza custodite l'arcano, diteci come si fa. Ve ne saremo grati e con tutta la calma possibile, lentamente, ve ne renderemo merito. Con un ritmo giusto, il più adatto per ognuno di noi.
N.d.r. I testi sopra riportati sono a firma di Concita De Gregorio e di Malcom Pagani e sono stati pubblicati sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 25 di ottobre 2025.


