"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 11 dicembre 2025

MadreTerra. 60 Chiara Francini: «L'acqua mi appare come l'immagine più alta della libertà. Va dove vuole, prende la forma di ciò che incontra, ma resta sé stessa. Non ha padroni: ha il proprio destino».


In Italia sono raddoppiati i decessi legati al caldo e al fumo degli incendi.  Sono più di settemila ogni anno. Lo denuncia il nono rapporto annuale del Lancet countdown on health and climate change, una partnership tra 128 ricercatori e istituzioni internazionali, tra cui Oms, Banca mondiale e Università di 40 Paesi, che analizza la relazione tra salute e aumento della temperatura. Dal rapporto emerge come il nostro Paese abbia il tasso di decessi più alto d'Europa per inquinamento da combustibili fossili ed esponga in media i propri cittadini a 46 giorni di ondate di calore ciascuna. Se non ci fossero stati i cambiamenti climatici degli ultimi anni avremmo avuto 33 giornate in meno di esposizione alle alte temperature. Il caldo estremo e gli incendi causati uccidono ogni anno sempre più persone in tutto il mondo. Tra il 2012 e il 2021, le morti sono state in media all'anno 546mila. L'aumento rispetto al passato è del 63 per cento. Morti che potrebbero essere evitate se riducessimo le emissioni e investissimo in politiche di compensazione e adattamento. Invece la quantità di gas climalteranti emessa in atmosfera continua a crescere, 41,6 miliardi di tonnellate di CO2 nel 2024, e mancano gli investimenti per sostenere una politica ecologica. Ma oltre ai decessi, il caldo estremo provoca la riduzione della concentrazione, del sonno, così come della produttività e della sicurezza nei posti di lavoro. Il dato dello scorso anno è impressionante: 639 miliardi di ore lavorative perse e un costo di 1.090 miliardi di dollari. Il 2024 è stato l'anno più caldo mai registrato, con oltre 19 giorni di esposizione media alle ondate di calore per persona. Che ha un impatto molto più grave su anziani e bambini. Il caldo eccessivo sta danneggiando seriamente l'agricoltura. La siccità estrema colpisce il 61 per cento delle terre emerse, facendo crescere l'insicurezza alimentare; le precipitazioni violente il 64 per cento, con conseguenze disastrose per l'agricoltura e la qualità delle acque. Si riduce anche la quantità di cibo fresco, determinando a sua volta un aumento dei prezzi che finisce per peggiorare la qualità della nutrizione e della salute pubblica. Aumentando diseguaglianze, esclusione e insicurezza sociale. «Un quadro desolante e dai danni devastanti. La distruzione di vite e mezzi di sussistenza continuerà ad aumentare finché non porremo fine alla nostra dipendenza dai combustibili fossili e non alzeremo drasticamente il tiro per adattarci», avverte Marina Romanelle, direttrice esecutiva del Lancet countdown presso l'University College di Londra. Il mondo non è sulla strada giusta. L'abbiamo visto a Belem durante la Cop30, dove è miseramente fallito l'obiettivo di mantenere l'aumento della temperatura della Terra entro 1,5 gradi in questo secolo, nonostante fosse stato sottoscritto più di 10 anni fa da 197 Stati. Troppo forti gli interessi che muovono fossili e armi. Mentre chi dovrebbe rappresentare quelli dell'umanità ancora una volta non è riuscito a farlo. E le conseguenze sono quotidianamente davanti ai nostri occhi. Ignorarle è suicida. Le Nazioni unite chiedono ai governi di rispettare l'impegno di tagliare il 60 per cento delle emissioni entro il 2035. Dobbiamo uscire dall'era dei fossili per riprenderci l'aria e il futuro. Per farlo abbiamo bisogno di una grande alleanza sociale e politica in grado di incidere da subito nell'agenda internazionale. Facciamo Eco! (Tratto da “Meno fossile più salute e più produttività” di Giuseppe De Marzo pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 28 di novembre 2025).

“In una notte di pioggia la pace si rovescia in furia” della scrittrice Chiara Francini pubblicato sul periodico “Green&Blue” del quotidiano “la Repubblica” del 3 di dicembre 2025: L’acqua ha lunga la memoria e la pazienza di una madre.  Non scorda nulla, ma non aspetta nessuno.  Quando decide di arrivare, non si annuncia: sfonda, entra, spiega.  È la più antica forma di linguaggio che l'uomo conosca, e la più esatta. Perché dice solo la verità: o travolge, o disseta. In Toscana lo sappiamo bene. Basta una notte di pioggia perché la pace si rovesci in furia. L'acqua che sale dall'Arno non è mai solo acqua: è giudizio, cronaca, punizione. Ogni alluvione è anche una lezione che il cielo firma con la piena. Lì capisci che non c'è sostanza più libera né più giusta: l'acqua va dove deve, non dove conviene. Quando straripa, non distrugge solamente: ristabilisce le proporzioni. Ci ricorda che resisterle è dimenticarla. L'acqua vuole senso, non solo efficienza. Lo stesso vale per le parole. Sono acqua, o dovrebbero esserlo: trasparenti, necessarie, mosse da una sorgente viva. Quando cominciano a stagnare, a servire, a evitare la corrente, marciscono. Puzzano come i fossi d'estate. C'è stato un tempo in cui la parola pubblica era un fiume che attraversava le tavole, bagnava le tovaglie, cullava le seggiole. Portava notizie, idee, contraddizioni, persino bestemmie. Non era mai placida: schizzava, ribolliva, e dentro aveva la sabbia e i sassi del Paese. Poi, pian piano, qualcuno ha iniziato a misurarne la portata, a recintarla, a darle un nome. Ha smesso di essere acqua, è diventata prodotto. Eppure, ogni volta che la guardo, l'acqua mi appare come l'immagine più alta della libertà.  Va dove vuole, prende la forma di ciò che incontra, ma resta sé stessa. Non ha padroni: ha il proprio destino. Ho visto luoghi dove l'acqua è diventata scienza: corre in tubi trasparenti, nutre radici sospese, si purifica da sé. E una bellezza disciplinata, ma anche monca, incompleta, bugiarda. Perché un'acqua che non sbaglia strada, che non rischia, perde sé stessa. L'acqua vera deve potersi spaventare, ribellare, tornare fango. Solo così resta viva. Lo stesso accade con la parola. Nasce pura, poi si insudicia, si mescola, risale. Bisogna farla scorrere in tutto il suo orrore e la sua bellezza. Bisogna accettare che ci sbrodoli addosso anche ciò che non vogliamo sentire. Una parola addomesticata è come l'acqua di una pozzanghera: riflette il cielo, ma aspetta solo di asciugarsi e morire. La parola va vista intera, nella sua grazia e nella sua ferocia. Serve coraggio. Perché la parola torni fiume, mare, bufera. Solo così può dissetare, pulire, nutrire, portare via e restituire. L'acqua è madre di tutto ciò che vive. E quando torna ad essere sé stessa, non distrugge: rivela. Forse anche la parola, quella vera, sopravvivrà così: passando di bocca in bocca, sotto i cancelli e i silenzi, fino a tornare a essere ciò che deve. Perché l'acqua, come la verità, non si possiede: si custodisce. L'acqua non vuole adorazione, ma rispetto. E chi tenta di comprarla, prima o poi, si ritrova con le mani vuote e le scarpe bagnate. Lo sanno i toscani, che quando arriva: spalano, si tirano su le maniche, bestemmiando e ridendo insieme. L'hanno fatto nel '66 e lo rifanno oggi, con la stessa tigna di chi sa che la mota non è vergogna ma memoria, perché tutto nasce da lì: dall'acqua che, quando abbraccia la terra, diventa fango. E solo chi ha il coraggio di stare nel fango sa cosa significa essere pulito.