E poi ci sarebbe la “politica”.
Che non c’è. La “politica” contro la “furbizia” italica ed il “familismo
amorale”. La politica a difesa di quello che comunemente viene chiamato
il “bene
comune”. La “politica” che non c’è. Esiste ed ha prosperato, piantando da
tempo immemore le sue profondissime radici, un surrogato maligno di quella che
dovrebbe essere la sana “politica”: è l’antipolitica per
eccellenza. È la versione italica della “politica” fatta con altri mezzi.
L’antipolitica: ché i turiferari al lavoro affermano essere la cifra di coloro
che avversano il modo loro di fare la politica politicante nel bel paese. È
avvenuto qualcosa di grave nel bel paese, così come avviene nel campo delle
teorie monetariste e della cosiddetta legge di Gresham - sir Thomas Gresham,
mercante e finanziere inglese XVI secolo - per la quale legge «la
moneta cattiva scaccia quella buona». L’antipolitica ha scacciato la “politica”
del “bene comune”. Che non è il bene del singolo o delle
sottocomunità costituite, ma di una comunità intera che nelle leggi uguali per
tutti riconosce la sua ancora di salvezza. Ha scritto il filosofo Roberta De
Monticelli su “il Fatto Quotidiano” - col titolo “Menzogna e privilegio” -: (…). …di occultamento di singole verità di
fatto, addirittura teorizzato dai massimi pensatori politici che ritengono
lecita in politica la menzogna, è fatto il potere legittimo nei secoli dei
secoli, intessuto di arcana imperii. Oggi dell’esistenza di arcani è molto più
responsabile una mentalità diffusa, diciamo una scarsa ansietà di trasparenza,
che singole figure abituate all’esercizio del potere (…). Che è
l’aspetto più preoccupante della questione. Laddove l’utilizzo del sotterfugio
e della menzogna diviene strumento largamente diffuso per tacitare le voci
dissenzienti o che aspirino al primato della verità. Afferma ancora Roberta De
Monticelli: Prova ne sia l’esperienza di molti che nella loro comunità di lavoro si
sentono quotidianamente richiamati all’”opportunità”, alla “responsabilità”,
alle “conseguenze” quando chiedono più trasparenza, o la diffusione di un
proverbio come quello tanto meschino dei panni sporchi che si lavano in casa.
(…). Eppure di arcana imperii è fatta l’opacità, la non trasparenza, la non
controllabilità delle decisioni di governo e gestione che purtroppo possono
fare la rovina di queste comunità. (…). …è vero che il regime della
comunicazione all’interno delle comunità organizzate per perseguire
cooperativamente un fine comune (come aziende, università, altre istituzioni),
nella misura in cui riguardi la deliberazione e l’assunzione di decisioni che
riguardano il governo della comunità e possano quindi in questo senso lato
dirsi “politiche”, è un regime non “logico” ma “retorico” dell’uso del
linguaggio? È dunque necessario che sincerità, veridicità e buona
argomentazione siano escluse dal novero delle virtù “politiche”? Personalmente
tenderei a sostenere che la storia ha dimostrato a iosa quanto alla fine
“cattiva” sia la politica che si fonda su questi precetti. (…). …la verità, sia
pure nel suo raro darsi, e fino a evidenza contraria, limita eccome la nostra
libertà. Non siamo affatto liberi di vedere nero ciò che è bianco e buono ciò
che è cattivo. (…). Questa consapevolezza attraversa le pagine dei migliori autori
del secolo scorso che abbiano avuto qualche dimestichezza col rapporto fra
verità e politica: Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte, Albert Camus e Hannah
Arendt, Guido Calogero e Piero Calamandrei …. Per tutti questi spiriti magni è
necessaria una completa rivoluzione del pensiero politologico corrente, che
metta alla base della rifondazione delle civiltà precisamente la costruzione
dei palazzi di vetro del potere legittimo: e l’instaurazione della perfetta
trasparenza in cuore agli uomini che hanno responsabilità di potere.
P.s. Ha scritto il direttore del
quotidiano la Repubblica – 24 di agosto “Un
giornale, le procure e il Quirinale” -:
(…). Quante telefonate avrà dovuto fare il Capo dello Stato nelle due
settimane che hanno preceduto le dimissioni di Berlusconi da palazzo Chigi?
Quante conversazioni avrà avuto, quando le cancellerie europee non parlavano
più con il governo, i mercati impazzivano, il Paese era allo sbando senza una
guida esecutiva e molti di noi temevano il colpo di coda del Caimano? Se quelle
conversazioni - che hanno necessariamente preceduto e
preparato l'epilogo istituzionale di vent'anni di berlusconismo -
fossero diventate pubbliche, quell'esito sarebbe stato più facile o
sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a
rivelarsi impossibile? Incredibile! Si vuole pervicacemente equivocare.
Con quale servizio maldestro per la verità? E per le istituzioni democratiche? Ma
quelle telefonate non sono state fatte e non rientrano nell’”esercizio
delle sue funzioni”? Quale attinenza hanno con le telefonate fatte con
il cittadino Mancino Nicola? E poi ancora, scivolando sugli specchi: (…).
Con quel che l'Italia ha passato in questi vent'anni, e con l'emergenza
economico-finanziaria che ci getta ai margini dell'Europa, togliendo lavoro e
futuro ai giovani, com'è possibile rappresentare la crisi italiana come una
manovra di palazzo, orchestrata da un uomo che gli altri Paesi considerano come
uno dei pochi punti fermi della nostra democrazia? (…). Ma chi ha
incolpato l’uomo del Quirinale di “una manovra di palazzo”? Si è detto
soltanto che nella storiaccia del “tengo famiglia” sarebbe stata
necessaria una schiena più dritta. E basta.
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