E poi c’è il “familismo”. Che è sempre
“amorale”,
secondo la felice intuizione (“amoral familism”) del sociologico Edward
C. Banfield – in “The Moral Basis of a
Backward Society” (1958), in italiano “Le
basi morali di una società arretrata” (1976) -. Che spinge questo
stramaledetto paese ai margini della civiltà e del progresso. Poiché è in nome
di quel “familismo amorale” che si compiono tutte le distorsioni della
legge e del vivere civile possibili. E non ultima, la controversia Procura-Quirinale
che tante devastazioni e macerie procureranno alla tenuta sociale e democratica
del bel paese. Poiché all’ombra del “familismo amorale” tutto si
consente e tutto trova inspiegabili giustificazioni. Poiché all’ombra di
quell’obbrobrio sociale si sviluppa e viene coltivata l’antichissima mala
pianta della “furbizia” italica. Scrive a proposito di essa il politologo
Carlo Galli – la Repubblica, 23 di agosto 2012 - : (…). La furbizia, (…), è una
ragione a breve raggio, che cerca il beneficio immediato di uno solo,
contraddicendo la legge, che è invece la ragione a più largo raggio, istituita
da tutti per il beneficio di ciascuno. (…). Per Hobbes il furbo oltre che
ingiusto è poi anche stolto perché rinuncia ai benefici della società per
ritornare in una sorta di stato di natura in cui è sì libero di fare quello che
vuole, ma è anche esposto alle rappresaglie della società intera, che vede in
lui una persona inaffidabile e perciò non degna del consesso civile. L’Italia dei
furbi è, quindi, un’Italia asociale e autolesionista; l’Italia di quanti
trasformano la città dell’uomo e delle leggi in una giungla in cui abitano –
più o meno entusiasti, più o meno applauditi – come “animali”, per finire poi,
quasi sempre, quasi tutti, come volpi spelacchiate, preda dei lupi (che, dove
manca la legge, non mancano mai). Ovvero, è un’Italia a misura di Tognazzi che
(nel film I mostri) insegna al figliolo ogni tipo di furbizia e di ingiustizia
(perché «il mondo è tondo e chi non sa stare a galla va a fondo»), per finire
poi ucciso, per soldi, dal rampollo una volta cresciuto. Una storia che
riguarda da vicino l’Italia di oggi, che sta pagando a caro prezzo la furbizia
e l’ingiustizia nella quale ha vissuto, più o meno soddisfatta, per tanti anni.
Un’Italia tanto furba, abile e vincente da essere stupida. Poiché, alla
fine, prevale il grido giustificazionista del “tengo famiglia” lanciato
dal singolo, che varrebbe la pena di adeguare all’assolutorio grido collettivo “tenimmo
tutti famiglia”. Dal quale ne discende, per cerchi concentrici e via
via allargando lo spettro del “familismo amorale”, che “È sempre l’Italia dei notabili” –
L’Espresso pag. 17 del 28 di dicembre dell’anno 2011 - individuata e descritta di
seguito magistralmente da Luigi Zingales, economista e professore presso l’University
of Chicago Booth School of Business: (…). Chi sono i notabili della piazza
centrale? C'è il farmacista, spesso figlio del farmacista del paese. (…). Sopra
la farmacia in molti paesi c'è l'ufficio del notaio, altra professione
tramandata di padre in figlio e protetta dallo Stato, che limita il numero di
notai e impone tariffe minime. (…). A fianco del notaio nella piazza principale
c'è l'ufficio dell'avvocato, un'altra professione spesso tramandata di padre in
figlio, protetta da un ordine corporativo. Di fronte alla farmacia in molte
piazze centrali c'è la sede di una banca. Una volta era una banca locale, oggi
è parte di un gruppo nazionale. Ma anche qui i posti si tramandano di padre in
figlio. Il motivo è che la banca non è gestita secondo criteri di efficienza,
ma secondo criteri clientelari. (…). Il notaio, il farmacista, il bancario,
l'avvocato e il presidente della fondazione si trovano tutti a prendere
l'aperitivo al bar centrale, anche quello tramandato di padre in figlio. Questo
settore, almeno, è competitivo. Ma anche il barista gode di un vantaggio: una
certa tolleranza nell'applicazione delle leggi. La sua cucina non è proprio a
norma e la cassiera non sempre emette lo scontrino fiscale. Ma con l'appoggio
dei notabili clienti riesce a farla franca. Ognuno difende strenuamente il
proprio privilegio, non capendo che il privilegio mio è costo tuo. L'Italia si
sta trasformando in una società per caste, dove i giovani non hanno futuro. La
strenua difesa dei privilegi personali alla fine danneggia tutti. Ma nessuno è
disposto a rinunciare da solo al suo privilegio. Se è l'unico a farlo, ci
perde. Solo se tutti lo facciamo contemporaneamente, ci guadagniamo tutti. C'è
bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinunciano a qualcosa,
per guadagnarci tutti. (…). Ed è in questo ambito che si è consumata la
storia del/al telefono. Nessuna congiura, nessuna cospirazione. Una banalissima
storia all’italiana: il procacciamento di un vantaggio che sia, cercando al
telefono quirinalizio il “beneficio immediato di uno solo,
contraddicendo la legge, che è invece la ragione a più largo raggio, istituita
da tutti per il beneficio di ciascuno”. Passando sopra ogni cosa e non valutando “Le conseguenze del conflitto”, per
come ne ha scritto Maurizio Viroli su il Fatto Quotidiano del 23 di agosto: (…).
Nel suo magistrale e coraggioso articolo su Repubblica del 17 agosto, Gustavo
Zagrebelsky ha sottolineato che se la Corte Costituzionale desse torto al Capo
dello Stato, si aprirebbe un conflitto devastante “al limite della crisi
costituzionale” fra due istituzioni fondamentali dello Stato. Si tratta di
un’eventualità molto remota, ma la semplice possibilità che si possa verificare
avrebbe dovuto dissuadere il capo dello Stato dal suo proposito, non fosse
altro perché suo primo e più importante dovere, è rappresentare l’unità
nazionale (art. 87). Se invece la Corte costituzionale darà ragione al capo
dello Stato, com’è pressoché certo che farà, riconoscerà non solo che il
presidente della Repubblica “non è responsabile degli atti compiuti
nell’esercizio delle sue funzioni” (art. 90), ma decreterà anche la sua
“inconoscibilità” e “intoccabilità” assoluta, da cui conseguirebbero “obblighi
particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e
dalle garanzie ordinarie del processo penale”. Immaginiamo che al Colle sia
eletto – ipotesi tutt’altro che infondata – uno dei tanti politici corrotti che
popolano il nostro panorama politico, reso inconoscibile e intoccabile da una
decisione della Corte Costituzionale: c’è da rabbrividire. Ma le conseguenze
del conflitto aperto dal capo dello Stato nei riguardi dei magistrati di
Palermo potrebbero essere ancora più tragiche perché potrebbero coinvolgere la sicurezza
dei servitori dello Stato. Una Repubblica che si rispetti deve avere quale
prima preoccupazione la tutela della sicurezza dei cittadini e in particolare
quella dei suoi magistrati e delle sue forze dell’ordine. Da questo principio
discende che deve essere cura precipua di chi la rappresenta fare capire ai
criminali di qualsiasi specie, con le parole e con gli atti, che se toccano un
magistrato dovranno vedersela con tutto la forza dello Stato, unito in tutte le
sue componenti, nella determinazione di punirli secondo le leggi. Orbene, dei
magistrati chiamati a rispondere davanti alla Corte costituzionale del loro
operato sono inevitabilmente più deboli rispetto alla mafia che combattono. E
poiché sono esseri umani è tutt’altro che impossibile che alcuni di loro si
sentano meno motivati a dedicare le proprie migliori energie e a rischiare la
vita nella lotta alla mafia. Non dovrebbe essere necessario, ma è meglio
precisare, che quanto ho fin qui sostenuto non implica che i magistrati, per la
sola ragione che combattono la mafia, possano violare i diritti dei cittadini o
interferire con gli altri poteri dello Stato. Se abusano, tocca al Consiglio
Superiore della Magistratura (art. 105) procedere per via disciplinare. Poiché
il Consiglio non ha trovato nulla da eccepire, non si vede motivo per sollevare
il conflitto di attribuzioni. E ancora meno giustificato appare l’appello del
capo dello Stato ad approvare una più restrittiva legge sulle intercettazioni
telefoniche per via di larghe intese parlamentari, vale a dire con il
contributo di forze, quali i berlusconiani, che, come tutti sappiamo, hanno
sempre dimostrato un encomiabile senso dello Stato! (…). …nel suo decreto del
16 luglio il capo dello Stato ha invocato, a sostegno della sua decisione, il
dovere di impedire che si formino precedenti tali da intaccare la figura
presidenziale (“lesione delle prerogative costituzionali del presidente della
Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”) per lasciarla
ai suoi successori così come l’ha ricevuta dai predecessori. No, non basta.
L’armonia e la cooperazione fra i poteri dello Stato, il diritto dei cittadini
di conoscere l’operato dei suoi rappresentanti e in primis di chi rappresenta
l’unità nazionale, e soprattutto l’autorevolezza e la sicurezza dei magistrati
sono , in regime repubblicano, più importanti delle incrinature, per altro
opinabili, delle prerogative del presidente della Repubblica. Ed è
quanto.
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