"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 24 agosto 2012

Storiedallitalia. 21 I turiferari al lavoro, due.


E poi c’è il “familismo”. Che è sempre “amorale”, secondo la felice intuizione (“amoral familism”) del sociologico Edward C. Banfield – in “The Moral Basis of a Backward Society” (1958), in italiano “Le basi morali di una società arretrata” (1976) -. Che spinge questo stramaledetto paese ai margini della civiltà e del progresso. Poiché è in nome di quel “familismo amorale” che si compiono tutte le distorsioni della legge e del vivere civile possibili. E non ultima, la controversia Procura-Quirinale che tante devastazioni e macerie procureranno alla tenuta sociale e democratica del bel paese. Poiché all’ombra del “familismo amorale” tutto si consente e tutto trova inspiegabili giustificazioni. Poiché all’ombra di quell’obbrobrio sociale si sviluppa e viene coltivata l’antichissima mala pianta della “furbizia” italica. Scrive a proposito di essa il politologo Carlo Galli – la Repubblica, 23 di agosto 2012 - : (…). La furbizia, (…), è una ragione a breve raggio, che cerca il beneficio immediato di uno solo, contraddicendo la legge, che è invece la ragione a più largo raggio, istituita da tutti per il beneficio di ciascuno. (…). Per Hobbes il furbo oltre che ingiusto è poi anche stolto perché rinuncia ai benefici della società per ritornare in una sorta di stato di natura in cui è sì libero di fare quello che vuole, ma è anche esposto alle rappresaglie della società intera, che vede in lui una persona inaffidabile e perciò non degna del consesso civile. L’Italia dei furbi è, quindi, un’Italia asociale e autolesionista; l’Italia di quanti trasformano la città dell’uomo e delle leggi in una giungla in cui abitano – più o meno entusiasti, più o meno applauditi – come “animali”, per finire poi, quasi sempre, quasi tutti, come volpi spelacchiate, preda dei lupi (che, dove manca la legge, non mancano mai). Ovvero, è un’Italia a misura di Tognazzi che (nel film I mostri) insegna al figliolo ogni tipo di furbizia e di ingiustizia (perché «il mondo è tondo e chi non sa stare a galla va a fondo»), per finire poi ucciso, per soldi, dal rampollo una volta cresciuto. Una storia che riguarda da vicino l’Italia di oggi, che sta pagando a caro prezzo la furbizia e l’ingiustizia nella quale ha vissuto, più o meno soddisfatta, per tanti anni. Un’Italia tanto furba, abile e vincente da essere stupida. Poiché, alla fine, prevale il grido giustificazionista del “tengo famiglia” lanciato dal singolo, che varrebbe la pena di adeguare all’assolutorio grido collettivo “tenimmo tutti famiglia”. Dal quale ne discende, per cerchi concentrici e via via allargando lo spettro del “familismo amorale”, che “È sempre l’Italia dei notabili” – L’Espresso pag. 17 del 28 di dicembre dell’anno 2011 - individuata e descritta di seguito magistralmente da Luigi Zingales, economista e professore presso l’University of Chicago Booth School of Business: (…). Chi sono i notabili della piazza centrale? C'è il farmacista, spesso figlio del farmacista del paese. (…). Sopra la farmacia in molti paesi c'è l'ufficio del notaio, altra professione tramandata di padre in figlio e protetta dallo Stato, che limita il numero di notai e impone tariffe minime. (…). A fianco del notaio nella piazza principale c'è l'ufficio dell'avvocato, un'altra professione spesso tramandata di padre in figlio, protetta da un ordine corporativo. Di fronte alla farmacia in molte piazze centrali c'è la sede di una banca. Una volta era una banca locale, oggi è parte di un gruppo nazionale. Ma anche qui i posti si tramandano di padre in figlio. Il motivo è che la banca non è gestita secondo criteri di efficienza, ma secondo criteri clientelari. (…). Il notaio, il farmacista, il bancario, l'avvocato e il presidente della fondazione si trovano tutti a prendere l'aperitivo al bar centrale, anche quello tramandato di padre in figlio. Questo settore, almeno, è competitivo. Ma anche il barista gode di un vantaggio: una certa tolleranza nell'applicazione delle leggi. La sua cucina non è proprio a norma e la cassiera non sempre emette lo scontrino fiscale. Ma con l'appoggio dei notabili clienti riesce a farla franca. Ognuno difende strenuamente il proprio privilegio, non capendo che il privilegio mio è costo tuo. L'Italia si sta trasformando in una società per caste, dove i giovani non hanno futuro. La strenua difesa dei privilegi personali alla fine danneggia tutti. Ma nessuno è disposto a rinunciare da solo al suo privilegio. Se è l'unico a farlo, ci perde. Solo se tutti lo facciamo contemporaneamente, ci guadagniamo tutti. C'è bisogno di un patto civile per le riforme, dove tutti rinunciano a qualcosa, per guadagnarci tutti. (…). Ed è in questo ambito che si è consumata la storia del/al telefono. Nessuna congiura, nessuna cospirazione. Una banalissima storia all’italiana: il procacciamento di un vantaggio che sia, cercando al telefono quirinalizio il “beneficio immediato di uno solo, contraddicendo la legge, che è invece la ragione a più largo raggio, istituita da tutti per il beneficio di ciascuno”. Passando  sopra ogni cosa e non valutando “Le conseguenze del conflitto”, per come ne ha scritto Maurizio Viroli su il Fatto Quotidiano del 23 di agosto: (…). Nel suo magistrale e coraggioso articolo su Repubblica del 17 agosto, Gustavo Zagrebelsky ha sottolineato che se la Corte Costituzionale desse torto al Capo dello Stato, si aprirebbe un conflitto devastante “al limite della crisi costituzionale” fra due istituzioni fondamentali dello Stato. Si tratta di un’eventualità molto remota, ma la semplice possibilità che si possa verificare avrebbe dovuto dissuadere il capo dello Stato dal suo proposito, non fosse altro perché suo primo e più importante dovere, è rappresentare l’unità nazionale (art. 87). Se invece la Corte costituzionale darà ragione al capo dello Stato, com’è pressoché certo che farà, riconoscerà non solo che il presidente della Repubblica “non è responsabile degli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni” (art. 90), ma decreterà anche la sua “inconoscibilità” e “intoccabilità” assoluta, da cui conseguirebbero “obblighi particolari di comportamento degli uffici giudiziari, fuori dalle regole e dalle garanzie ordinarie del processo penale”. Immaginiamo che al Colle sia eletto – ipotesi tutt’altro che infondata – uno dei tanti politici corrotti che popolano il nostro panorama politico, reso inconoscibile e intoccabile da una decisione della Corte Costituzionale: c’è da rabbrividire. Ma le conseguenze del conflitto aperto dal capo dello Stato nei riguardi dei magistrati di Palermo potrebbero essere ancora più tragiche perché potrebbero coinvolgere la sicurezza dei servitori dello Stato. Una Repubblica che si rispetti deve avere quale prima preoccupazione la tutela della sicurezza dei cittadini e in particolare quella dei suoi magistrati e delle sue forze dell’ordine. Da questo principio discende che deve essere cura precipua di chi la rappresenta fare capire ai criminali di qualsiasi specie, con le parole e con gli atti, che se toccano un magistrato dovranno vedersela con tutto la forza dello Stato, unito in tutte le sue componenti, nella determinazione di punirli secondo le leggi. Orbene, dei magistrati chiamati a rispondere davanti alla Corte costituzionale del loro operato sono inevitabilmente più deboli rispetto alla mafia che combattono. E poiché sono esseri umani è tutt’altro che impossibile che alcuni di loro si sentano meno motivati a dedicare le proprie migliori energie e a rischiare la vita nella lotta alla mafia. Non dovrebbe essere necessario, ma è meglio precisare, che quanto ho fin qui sostenuto non implica che i magistrati, per la sola ragione che combattono la mafia, possano violare i diritti dei cittadini o interferire con gli altri poteri dello Stato. Se abusano, tocca al Consiglio Superiore della Magistratura (art. 105) procedere per via disciplinare. Poiché il Consiglio non ha trovato nulla da eccepire, non si vede motivo per sollevare il conflitto di attribuzioni. E ancora meno giustificato appare l’appello del capo dello Stato ad approvare una più restrittiva legge sulle intercettazioni telefoniche per via di larghe intese parlamentari, vale a dire con il contributo di forze, quali i berlusconiani, che, come tutti sappiamo, hanno sempre dimostrato un encomiabile senso dello Stato! (…). …nel suo decreto del 16 luglio il capo dello Stato ha invocato, a sostegno della sua decisione, il dovere di impedire che si formino precedenti tali da intaccare la figura presidenziale (“lesione delle prerogative costituzionali del presidente della Repubblica, quantomeno sotto il profilo della loro menomazione”) per lasciarla ai suoi successori così come l’ha ricevuta dai predecessori. No, non basta. L’armonia e la cooperazione fra i poteri dello Stato, il diritto dei cittadini di conoscere l’operato dei suoi rappresentanti e in primis di chi rappresenta l’unità nazionale, e soprattutto l’autorevolezza e la sicurezza dei magistrati sono , in regime repubblicano, più importanti delle incrinature, per altro opinabili, delle prerogative del presidente della Repubblica. Ed è quanto.

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