"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 31 ottobre 2015

Uominiedio. 20 “Sul sentiero del sacro”.



Ha riportato nel Suo scritto “A proposito del sacro” – sul settimanale “D” del 16 di aprile dell’anno 2011 – il professor Umberto Galimberti quanto ha annotato Carl Gustav Jung a proposito del “sacro”: Il sacro è stato presentito dall'umanità prima di temere o di invocare qualsiasi divinità. Dio, infatti, nel sacro è arrivato con molto ritardo. Il “sacro” sembra quindi connaturato alla vicenda umana. Ed a proposito del mistero del “sacro”, a detta del grande studioso svizzero che è stato uno psichiatra sì ma anche uno psicoanalista ed un antropologo, la sua nascita nel cuore dell’uomo sembra abbia abbondantemente anticipato la “creazione” di una qualsivoglia figura di Dio. Una storia che sconfina per l’appunto nel mistero più assoluto del “sacro” da me vissuta è allora da raccontarsi tutta. S.V. ne è il protagonista assoluto ed il “sacro” ne è lo scenario inquietante – almeno per chi come lo scrivente non è incline ad una accettazione che faccia a pugni con il senso del reale - all’interno del quale tutta la storia si è svolta. S.V. acquista tempo addietro da un rigattiere un quadro raffigurante l’arcangelo Michele nell’atteggiamento suo di indomito cavaliere che affronta il male per sconfiggerlo. La mia incredulità per angeli ed arcangeli, serafini e cherubini è prossima sempre, senza se e senza ma, a toccare nel merito valori assoluti. Tanto più ed a maggior ragione per la rappresentata nel dipinto cruenta battaglia di quell’indomito cavaliere contro il male in difesa della fede in Dio contro le scatenate orde del principe dei demoni, ovvero quel Lucifero divenuto il Satana che con Michele rappresentava, nel celeste empireo, la coppia angelica per definizione, battaglia da ritenersi persa in considerazione del fatto che oggigiorno la fede in Dio delle umane genti lascia molto a desiderare. Orbene S.V. acquista il quadro ignaro di quanto gli potrà accadere. Ed accade che S.V. abbia una visione di quell’invincibile arcangelo – anzi più visioni, almeno tre se non erro – che gli impongono di dare un luogo che sia di venerazione a quell’immagine dipinta, un luogo peraltro ben definito. Non resta a S.V. che rintracciare quel tale luogo le cui uniche coordinate ricevute indicano di una fontana e dei resti di antichi manufatti. La ricerca affannosa conduce S.V. in un luogo inesplorato che oggigiorno è possibile determinare essere all’interno del maestoso, pietroso Parco delle Madonie nelle contrade del borgo di Petralia Sottana, nella terra del Mongibello e del Lilibeo. È in questo luogo aspro e brullo che S.V. ha dato “casa” al dipinto del suo arcangelo Michele.

martedì 27 ottobre 2015

Oltrelenews. 66 “Das auto”.



Da “La fine dell’auto di massa? Ora non è più fantaeconomia” di Enrico Deaglio, su "Il Venerdì di Repubblica" del 16 di ottobre 2015: La storia funziona meglio – è più drammatica, ma anche più grottesca – se si parte con un fermo immagine dell’attimo prima. Settembre 2015: Volkswagen è ancora Das Auto, lo splendido sole della meccanica tedesca che illumina il mondo. Le sue automobili perfette, scattanti, pulite sono il simbolo vincente della Germania, frutto della sua disciplina, base della forza politica della signora Angela Merkel e del peso economico-morale che esercita. Davvero, il popolo ha imparato ad amarle, le auto tedesche. E poi, il «cigno nero», lo tsunami; arma del delitto, una piccola stringa di bit ben nascosti nel codice informatico della centralina ha truccato i dati delle emissioni di gas di 11 milioni di Volkswagen, Audi, Skoda, Seat che montano i più popolari motori diesel (per non parlare dei camion). L’ad Martin Winterkorn, che aveva portato VW al successo planetario, virilmente ammette e si dimette; il mondo, intorno a lui, crolla. Lo chiamano Dieselgate, lo paragonano al crollo del 1929, oppure al crack di Lehman Brothers, si calcola che a VW costerà 100 miliardi di euro. Ma basteranno? O è semplicemente l’inizio della fine dell’automobile? C’è infatti un dato che pesa più delle multe o delle class action. Lo «sconforto da tradimento», il disamore. L’affabile concessionario, la pubblicità ecologica, quelle famigliole felici col cane che partivano per il weekend. Tutti mentivano: non volevano che si sapesse che le auto diesel buttano nell’aria gas nocivi e che la sgassata che si prende in faccia il ciclista fermo al semaforo non è per nulla innocua. La Volkswagen, con il suo dolo, ha associato, in milioni di persone, l’idea dell’auto ai polmoni, alle bronchiti, al cancro. Significativo che gli altri costruttori non abbiano immediatamente risposto «noi siamo puliti»: forse non potevano. Un giorno i nostri nipoti, guardando le immagini della vita quotidiana nel 2015, con tutto quel traffico e quell’aria pesante, reagiranno come reagiscono i nostri figli alla vista di Humphrey Bogart o Lauren Bacall con la sigaretta incollata al labbro. Ma come facevano a non sapere che si stavano suicidando? E ora? Il nuovo management Volkswagen tristemente dichiara che la permanenza in vita del colosso non è scontata: devono riconquistare la fiducia dei consumatori e, nello stesso tempo, contestare l’entità del danno provocato, una mission quasi impossible per la macchina del popolo, che pure durava dagli Anni Trenta ed era sopravvissuta alle macerie del 1945. Possibile che si spenga ora? In realtà, non sarebbe la prima volta che il mondo volta le spalle ad un’industria considerata amica.

martedì 20 ottobre 2015

Oltrelenews. 65 “3.000 € cash”.



Da “Tax Ruling, se il Fisco ha le porte girevoli” di Fabio Bogo, sul settimanale “Affari&Finanza” del 12 di ottobre 2015: (…). …in campo fiscale spesso le porte sono girevoli, e quello che entra da una parte magari esce dall’altra. È il caso del limite massimo di contanti che è possibile usare per i pagamenti, la “gabbia” che ha lo scopo di tracciare i flussi di denaro e che costituisce un forte deterrente all’evasione fiscale. Il governo Berlusconi nel 2008 lo aveva fissato in 12.500 euro. Il governo Monti nel 2011 lo ha ridotto a 1.000 euro, livello attualmente in vigore. Adesso è ripartita la corsa al rialzo e l’ultima proposta presentata in parlamento lo prevede a quota 3.500 euro, soglia oltre la quale scatta l’obbligo di utilizzare assegni, bonifici o carte di credito. Oltre la quale, insomma, è necessario essere identificati. Il primo a ventilare la possibilità di modificare la soglia è stato il premier Matteo Renzi: nel varco aperto si sono precipitati rari colleghi del Pd e in forze quelli di Forza Italia e Ncd con il supporto delle organizzazioni del commercio. La giustificazione è quella di ridare “il giusto sostegno ai consumi” e allinearsi ai livelli in vigore in altri paesi europei. In effetti Germania e Olanda non hanno alcun limite al pagamento in contanti, in Spagna il tetto è di 2.500 euro, in Belgio e Francia di 3mila. I sostenitori dell’abolizione del tetto dimenticano però altre particolarità italiane, e non tutte virtuose. Siamo il paese europeo con il maggior numero di persone “unbanked”, cioè restie ad usare canali bancari per le loro transazioni. Questa preferenza per i contanti (il 67 per cento delle transazioni avviene cash) genera costi di gestione pari a 4 miliardi per il canale bancario e a 8 miliardi per il sistema paese. Siamo il paese europeo con la più ampia economia sommersa, che sfugge ad ogni tipo di rilevazione perché scorre su canali in “nero”, alimentati appunto dalla non tracciabilità dei flussi finanziari. Questa anomalia – secondo le stime Istat – genera un volume che oscilla tra i 255 e i 275 miliardi di euro: vale tra il 16,3 per cento ed il 17,5 per cento del Prodotto interno lordo. Siamo soprattutto il paese che, a causa dell’imponibile sottratto al fisco dall’economia in nero, subisce il maggior danno al gettito dell’erario. Questa anomalia fa si che l’evasione fiscale italiana sia il triplo di quella spagnola, il doppio di quella inglese, il 30 per cento in più di quella tedesca. Scriveva l‘Agenzia delle Entrate un anno fa: “Al fine di contrastare fenomeni evasivi ed elusivi complessi è prioritario incentivare l’uso di strumenti tracciabili per effettuare pagamenti in ogni ambito. La riduzione del contante è una delle chiavi per la lotta all’evasione”. E l’evasione sottrae alle casse dello Stato mediamente 30 miliardi di euro l’anno. Più o meno l’ammontare della manovra contenuta nella legge di stabilità per il 2016. Sarebbe il caso che qualcuno non se lo dimenticasse.

lunedì 19 ottobre 2015

Paginatre. 2 “La solitudine al tempo dell’emoticon”.



Da  “Social solitudine” di Jonathan Franzen, sul quotidiano “la Repubblica" dell’11 di ottobre 2015: Sherry Turkle è una voce a sé nel dibattito sulla tecnologia. È una scettica con un passato da credente, una psicologa clinica in mezzo a imbonitori aziendali e cassandre letterarie, un’empirica in mezzo ad aneddotisti selettivi, una moderata in mezzo a estremisti, una realista in mezzo a sognatori, un’umanista ma non luddista: un’adulta. (…). Osservando le interazioni delle persone con i robot, e intervistandole sul loro rapporto con computer e telefonini, raccontava come le nuove tecnologie rendano obsoleti i vecchi valori. Quando sostituiamo i badanti umani con dei robot, o parliamo attraverso i messaggini, cominciamo dicendo che i surrogati sono «meglio di niente», ma arriviamo a considerarli «meglio di qualsiasi altra cosa»: più puliti, meno pericolosi, meno esigenti. Parallela a questo mutamento corre una preferenza crescente per il virtuale rispetto al reale. I robot non provano sentimenti di affetto per le persone, ma i soggetti intervistati dalla Turkle arrivavano ad accontentarsi, con sconvolgente rapidità, della sensazione di essere accuditi, e allo stesso modo arrivavano a preferire il senso di comunità che i social media trasmettono, perché non è accompagnato dai rischi e dagli impegni di una comunità reale. Nelle sue interviste la Turkle osservava ripetutamente una profonda delusione nei confronti degli esseri umani, imperfetti, distratti, bisognosi, imprevedibili come le macchine sono programmate per non essere.

martedì 13 ottobre 2015

Capitalismoedemocrazia. 54 “La Storia scritta dai Krupp”.



Chi di Voi non conosce a menadito la storia della famiglia Krupp? Mi è venuto di pensare a quella ricchissima, tragicissima – tragicissima per milioni e milioni di altri esseri umani – famiglia dopo aver letto il commento di Marcello De Cecco - “L'asse del Pacifico senza la Cina” – sul settimanale “Affari&Finanza” del 12 di ottobre ultimo. Ha scritto Marcello De Cecco a chiusura dell’interessantissimo Suo “pezzo”: (…). La crescita del commercio internazionale è ormai da qualche anno inferiore ai tassi di sviluppo del prodotto lordo globale. Si pensa che comunque ormai la fase di veloce globalizzazione si sia conclusa e leader come Shinzo Abe (primo ministro del Giappone n.d.r.) avviano ormai anche in Giappone la sostituzione del settore del commercio con quello dell’industria degli armamenti, facendo notare l’appropriatezza della fase storica, quando un paese come il Giappone deve temere una politica di potenza attiva da parte della Cina. Nello stesso modo è probabile che in un veloce riarmo cinese la leadership di Pechino possa anch’essa trovare una risposta alla caduta del tasso di sviluppo, sceso a tassi ormai ridotti al confronto di quelli dei decenni precedenti. Allora tutto bene? Abbiamo cambiato modello e non ci basiamo più sull’economia cinese come grande potenza importatrice ed esportatrice? Potrebbe essere una nuova autostrada basata su equilibri diversi dal passato: una più forte domanda interna cinese e uno spostamento di orizzonti di quella giapponese e in parte anche americana. Può essere che la nuova autostrada non presenti ostacoli ma potrebbe accadere anche il contrario. Tenendo a mente che se il prezzo da pagare per il nuovo equilibrio è una nuova corsa agli armanenti, potrebbe alla fine rivelarsi troppo alto. (…). È la tragedia irrisolta della storia degli umani. Ché quando commerci e tutto quanto afferisca alla ricchezza dei pochi languono, non si trovi di meglio che ri-lanciare il ricchissimo mondo degli armamenti, l’effetto benefico dei quali è di sfoltire di un bel po’ la numerosissima famiglia umana ed al contempo rimpinguare le casse debordanti di sonante ricchezza dei soliti noti. Ad offrire la “carne da macello” è il restante dell’umanità. La storia della famiglia Krupp è per questo aspetto illuminante. Ricchissima dinastia tedesca con oltre quattrocento anni di storia, divenne famosa per la produzione di acciaio e per le fabbriche di munizioni e armi. Krupp, nella lingua tedesca, ha il significato di “forte”.

mercoledì 7 ottobre 2015

Paginatre. 1 “Leggere”.




Da “Un minimo sapere: imparare a leggere” di Giorgio De Rienzo – ordinario di letteratura italiana – su il “Corriere della sera” del 29 di maggio dell’anno 2001: (…). …la lettura di un libro si può legittimamente assimilare a una storia d’amore perché il leggere, se è riflessivo, comporta un incontro e una intensa frequentazione. E una storia d’amore è sempre, o meglio dovrebbe essere sempre, di per sé, un’avventura della conoscenza. In amore si può adorare ciecamente una donna oppure sovrapporre il proprio “ io “ a lei. Così nel leggere si può diventare aggressivi e cercare in un libro soltanto ciò che ci appaga ed entra in sintonia con noi, ovvero ci si può abbandonare a una sorta di mistica contemplazione. Il pericolo è l’annullamento dell’altro oppure di sé. (…). …c’è il libro che traduce una complessa interpretazione del mondo propria di chi l’ha scritto e l’ha consegnato agli altri, affidando a loro con questa sua interpretazione anche la propria cultura, e ci siamo noi che leggiamo, ricchi a nostra volta di una cultura, di un desiderio di domande, di un’attesa di risposte. (…). …attraverso la lettura attenta , noi seguiamo per decifrare il modo in cui l’autore del libro esprime la propria visione della realtà, ci porterà dentro ai suoi progetti e alle sue attese, ci coinvolgerà nei gusti e nei comportamenti, nei problemi e negli interessi che gli appartengono, ci svelerà le sue ricchezze e le sue miserie. La nostra partecipazione a tutto ciò finirà con l’arricchire il nostro personale modo di porci di fronte al mondo: potrà insegnarci altre prospettive da cui affacciarci, altre angolature da cui osservare ciò che accade intorno a noi. Nel corso della lettura potrà accaderci di riconoscere coincidenze tra i nostri sentimenti e quelli che il libro espone, tra i  nostri pensieri e i pensieri altrui. Sarà di certo una grande gioia. Ne verrà un impagabile senso di compagnia. Ma sarà altrettanto esaltante scoprire sentimenti di cui noi non siamo stati finora capaci, incontrare pensieri che non ci sono mai appartenuti. È questo il senso di qualsiasi avventura della conoscenza.

martedì 6 ottobre 2015

Oltrelenews. 64 “Politica&talk-show”.


Da “Il wrestling del talk show” di Curzio Maltese, sul quotidiano la Repubblica del 13 di settembre dell’anno 2013: Poche cose come i talk show hanno contribuito in questi anni ad arricchire gli impresari televisivi e a far crollare a zero la stima nei politici. In qualche caso, com'è noto, si tratta delle stesse persone. Da anni non riesco, come molti italiani, a vedere per intero uno di questi incontri di lotta greco-romana verbale, chiaramente studiati per non far capire nulla. (…). In genere si tratta di una lunga rissa a colpi di «vaffa» e insulti assortiti, spesso a sfondo sessuale, scambiati fra parlamentari e ministri, per quanto compagni di governo, o firme del giornalismo, sotto lo sguardo felice del conduttore di turno. Per quanto improbabile, è possibile che nelle tre ore di trasmissione gli illustri ospiti in studio abbiano detto anche cose intelligenti. (…). Perché si va avanti con questo livello infame di dibattito pubblico, sconosciuto nel resto del mondo civile e democratico? Perché comunque in Italia lo spettacolo piace. Non più come prima, ma abbastanza per giustificarne la replica infinita. Per quanto se ne riesce a capire, pochissimo, la faccenda funziona come un fenomeno tv di qualche tempo fa, il wrestling. Compagnie itineranti organizzano incontri di lotta truccati, in apparenza truci e sanguinari, dove alla fine però nessuno si fa male davvero e tutti sono d'accordo. I nemici che si sono scannati fino a dover ricorrere all'autoambulanza, si ritrovano la sera dopo in un'altra piazza, un altro ring, a ripetere il combattimento mortale. Ecco, la telepolitica all' italiana è la risposta del nostro paese al wrestling americano. Senza offesa, s'intende. Soprattutto per gli appassionati di wrestling, dove negli ultimi anni si sono applicati severissimi controlli anti doping per debellare il fenomeno degli atleti drogati. Una misura che nei nostri talk show, visibilmente, non è applicata. (…). Oggi sul ring tele politico vanno di moda altri campioni, sempre con soprannomi e atteggiamenti da guerrieri molto kitsch. Per esempio, Daniela Santanchè, detta la Pitonessa. È capace di insultare l'avversario per mezz'ora di fila, senza prendere fiato. Il bello è che la vittima torna a sfidarla la sera successiva, tanto è un gioco. Anche nel caso del wrestling politico, la platea si divide a metà. Da una parte, i tifosi ingenui, i Mark, che prendono per vero tutto ciò che accade, le botte, gli insulti e il resto. Dall'altra vi sono gli spettatori più avveduti, gli Smart, consapevoli dell'inganno, ma divertiti dalla pagliacciata. Esiste poi una piccola minoranza che considera lo spettacolo semplicemente indecente. Ma la dignità non è più un valore e in ogni caso non ha mai fatto audience.

lunedì 5 ottobre 2015

Uominiedio. 19 “Alla ricerca di un dio che sia”.



Ha scritto il professor Umberto Galimberti sul settimanale “D” del 10 di gennaio 2015 “Di cosa parliamo quando parliamo di Dio”, che di seguito propongo. Un tema arduo, un’impresa improba. Non certo per l’illustre Autore avvezzo a sì scottanti argomenti dell’esistenza umana. Io la prendo alla larga. E racconto una storiella sentita – come altre - da G. B. È bene immaginarne lo scenario. La collocazione più rispondente sarebbe di un giardino pubblico all’interno del quale si aggirano i protagonisti della storiella. Li indicherò, per obiettiva convenienza ed opportunità, come l’“uomouno” e l’“uomodue”. “Uomouno” si è appena sollevato dalla panchina sulla quale ha provato, stravaccato, a dare uno sguardo fuggevole al suo quotidiano sportivo consueto. Sollevatosi stancamente dalla panchina si avvia con passo tardo per gli stretti sentieri del giardino pubblico. Nell’incedere suo, quasi indolente, scorge in lontananza “uomodue”, amico carissimo da tanto tempo non più incontrato. Lo attira il gesticolare di “uomodue” che, avanzando per lo stesso stretto sentiero, agita forsennatamente in alto ambedue gli arti superiori. Giunti “uomouno” ed “uomodue” ad una più ravvicinata distanza, “uomouno” s’avvede come “uomodue” descriva per l’aere circostante archi divergenti di circonferenze con ambedue gli arti superiori puntando entrambi gli indici in alto come ad indicare un qualcosa, un cielo, solamente a lui resisi visibili. “Uomouno” è preso da un ragionevole sbigottimento. Quell’agitarsi di braccia per l’aere  mette “uomouno” in una inevitabile, vivissima agitazione. Vie d’uscite da quella imbarazzante situazione non si intravedono. Come suol dirsi, “il dado è tratto”. Giunti “uomouno” ed “uomodue” ad un tiro di voce il primo non trova di meglio che esordire con un - Come va? -. “Uomodue”: -Va! -, con l’incessante agitarsi degli arti inferiori e gli immancabili indici puntati verso il cielo terso. - Va come – riesce a proferire “uomouno”. E fu a questo punto che da “uomodue” proruppe un inarrestabile  profluvio di parole e parole sulle sue personali e familiari disavventure. Un’atrocità. Da lasciare “uomouno”, come suol dirsi, senza parole. Accennò solamente “uomouno”: - E con la salute? -. “Uomodue”: - Va! -. “Uomouno”: - Mi pareva che…Mi pare che tu sia un tantino inquieto -. “Uomodue”: - Ti sembro agitato? -. “Uomouno”: - Non saprei… -. L’imbarazzo di “uomouno” era divenuto traboccante. “Uomodue”: - Per via che agito per l’aere le braccia? -. “Uomouno”, con immenso imbarazzo: - Non saprei… -. “Uomodue”: - È che cerco dio -. – Bene – fa “uomouno” rinfrancato. – È una buona cosa cercare dio. Ma perché lo fai con quel tuo agitare le braccia? -. Ed “uomodue”: - È vero o non è vero che dio sta in ogni luogo, in cielo in terra? Ecco, se questo è vero un giorno mi riuscirà sicuramente di infilargli un dito in quell’occhio che tutto vede e che non ha visto le mie sventure, per accecarlo -. Fine della storiella. Ecco, “uomodue” aveva un ben distinta idea e raffigurazione di quel dio dal quale si sentiva ingiustamente abbandonato e lasciato solo al suo misero destino. Un “occhio” solo a rappresentare uno dei misteri più insondabili ed indecifrabili dell’essenza umana. Per l’ostico argomento “alla ricerca di un dio” ne ha scritto per l’appunto, forte della Sua scienza, il professor Galimberti:

venerdì 2 ottobre 2015

Oltrelenews. 63 “Migranti economici”.



Da “Comodo dire migranti economici” di Massimo Fini, su “il Fatto Quotidiano” del 19 di settembre 2015: (…). …nell'impostazione proposta e imposta dalla Merkel nei confronti dei migranti c'è un tarlo. I cosiddetti 'migranti economici' devono essere rispediti nei loro Paesi. Chi sono i cosiddetti 'migranti economici'? Sono neri dell'Africa subsahariana che non fuggono da nessuna guerra ma dalla fame. Nella generale ignoranza che ormai contraddistingue il mondo occidentale si pensa che l'Africa Nera sia sempre stata alla fame. Non è così. Ai primi del Novecento era alimentarmente autosufficiente, lo era ancora in buona sostanza (al 98%) nel 1961. L'autosufficienza è scesa all'89% nel 1971, al 78% nel 1978 e così via precipitando. La situazione di oggi è sotto gli occhi di tutti. Cos'è successo nel frattempo? Che i Paesi industrializzati, sempre alla ricerca di nuovi mercati, per quanto poveri, perché i propri sono saturi, hanno introdotto in Africa Nera il loro modello di sviluppo, disarticolando la cultura, la socialità e l'economia di sussistenza (autoproduzione e autoconsumo) su cui quelle popolazioni avevano vissuto, e a volte prosperato, per secoli e millenni. E quindi la fame. E' uno dei tanti effetti perversi della globalizzazione. E qui si pongono due questioni. Una è teorica. Se il capitale ha diritto ad andarsi a cercare il luogo della terra dove ritiene di poter essere meglio remunerato, lo stesso diritto non dovrebbero averlo gli uomini? Il denaro vale quindi più degli uomini? Questo nemmeno il vecchio Adolfo avrebbe osato sostenerlo. Questione pratica. I neri africani (escludendo il Sud Africa che fa caso a sè) sono 700 milioni. Se solo una quota significativa di questa gente viene da noi ne saremo sommersi. Aiutarli economicamente? Sarebbe 'un tacon peso del buso' perché li integrerebbe ancor più strettamente in un sistema che è destinato inesorabilmente a stritolarli. Dar loro «non il pesce ma gli strumenti per pescarlo» come dicono molte anime pie? Nel padiglione Onu all'Expo c'è un comico filmato il cui senso è che noi dovremmo insegnare agli africani come si fa l'agricoltura. Ma se sono millenni che quelli hanno vissuto di agricoltura! Semmai dovrebbero essere loro a insegnarla a noi. Ai tempi di un G7 di molti anni fa ci fu un controsummit dei sette Paesi più poveri del mondo, con alla testa l'africano Benin, al grido di «Per favore non aiutateci più!». La sola cosa che dovremmo fare è andarcene da quei mondi, con le nostre aziende assassine e la nostra cultura paranoica. Via, raus, 'foera di ball'. Ma a parte che non lo faremo mai (e adesso ci si sono messi anche i cinesi che si comprano l'Africa Nera e la sua terra a regioni) nemmeno questo sarebbe risolutivo. I neri africani sono in una posizione di non ritorno. Non possono ritornare alle loro economie perché le terre che, sotto il nostro impulso o imposizione, hanno abbandonato si sono desertificate e non ci sono più nemmeno le comunità che, col loro reticolo di solidarietà, consentivano a quel mondo di esistere. Non possono che andare avanti. Cioè non possono che venire verso di noi. E verranno e ci distruggeranno come noi abbiamo fatto con loro. È la sorte che ci siamo meritati.