"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

lunedì 30 aprile 2012

Cosecosì. 15 Domani è il primo di maggio. Adesso ci vorrebbe…


Adesso ci vorrebbe una speranza nuova. Un sogno grande assai. Ma sembra che siano finiti i tempi delle speranze e dei sogni. Come se tutto fosse stato risucchiato in un gorgo, immenso, senza fine. Un gorgo oscuro. Ma ritorna, ancora una volta, il primo di maggio. E mi piacerebbe pensarlo come nell’indimenticabile visione del sole dell’avvenire in “Palombella rossa” del grande Nanni. Un sole grande grande che illumini l’oscurità dell’oggi. Ho ritrovato, tra i miei ritagli, un bellissimo pezzo dello scrittore-artista Andrea Satta che ha per titolo “Il primo maggio e adesso ci vorrebbe un discorso sincero sull’occupazione”; è stato scritto per il quotidiano l’Unità del primo di maggio dell’anno 2011. Lo trascrivo di seguito integralmente.

Adesso ci vorrebbe il sole. Ci vorrebbe di andare al mare con l’ombrellone a vedere le onde la prima volta in stagione. Ci vorrebbe di filare in bicicletta in due fino in fondo alla pineta e di laggiù vedere come è strano il campanile.
Adesso ci vorrebbe di fare l’amore nel prato dietro la rimessa mentre sale l’aria calda dal fienile, di fare l’ora di pranzo al bar in piazza che a casa è quasi pronto, aspettando nonna che torna dalla messa.
Adesso ci vorrebbe che arrivasse papà a tavola con le «pastarelle», sempre quelle, ci vorrebbe di aspettarti alla stazione e fuggire, per uno spaghetto al pesto, in quella trattoriola verde dove ci siamo conosciuti, tra le farfalle. Ci vorrebbe di salire in Vespa e … via, senza casco verso il lago, via … senza paura verso il fiume, via … senza fame tutto il giorno, che c’è sempre tanto altro da vivere e … via, che ancora ce n’è da inventare.
Adesso ci vorrebbe di ascoltare una parola appassionata, un discorso sincero sul lavoro, sullo sfruttamento e sulla redenzione, ma bello bello per davvero. Ci vorrebbe di dire basta a quello che ci offende e crederci sinceramente alla giustizia, ai sogni grandi, e che la rabbia abbia finalmente un senso. Ci vorrebbe che mi venissero in mente i nomi degli uomini e delle donne tutte, uccisi e uccise dal lavoro, morti e morte per difenderne il diritto, sparati e sparate dai padroni e dalla polizia, dai regimi e dalla democrazia.
Adesso ci vorrebbe un disco con un po’ di idee incise da ascoltare, qualche nota di chitarra, di tromba e di contrabbasso e di piano, ecco, sì, di piano. Un viaggio coi tuoi pensieri un giorno coi desideri.
Adesso ci vorrebbe una crostata di arance amare, un piatto di mele cotte, zucchero e limone con le fragole, formaggio e pere, un panino con mortadella, una fitta pioggerella, un ombrello grande per baciarti di nascosto, un angolo sconosciuto per dire ti amo al vento che sa dimenticare presto, anche se è uno sbaglio, anche se è un abbaglio.
Adesso ci vorrebbe una radio da ascoltare, una rima a memoria da tramandare, un carretto con cocco e gelati che si lasci annunciare, mentre il sole picchia e l’universo scrocchia.
Tutto questo insieme in una sola vita non c’è mai stato, non ha mai trovato posto, ma la sfiga vera è che noi tutti lo sappiamo collegare al resto. Tutto questo sarà domani e domani può ancora arrivare. Io, il Primo Maggio, lo passerò qui, in piedi sulla riva a guardare il mare. Prima o poi qualche sogno dovrà tornare. Una vela nuova.

domenica 29 aprile 2012

Capitalismoedemocrazia. 19 Della «wage inequality».


Default. Spread. Debito pubblico. Deficit pubblico. Tirare la cinghia. L’unico termine del quale si ha completa contezza. Degli altri, sappiamo che sono gli spettri, sempre inquietanti assai, che si aggirano ai giorni nostri. Aggiungeteci, da oggi, «wage inequality» e siamo così al completo. Della «wage inequality» ne ho letto sull’ultimo numero del settimanale Affari&Finanza grazie alla penna sempre arguta e sempre documentata di Massimo Giannini. Titolo del Suo articolo di spalla: “Se il manager è pagato 380 volte più dell’impiegato”. Di seguito lo trascrivo nella sua interezza. Non perdo l’occasione di dire la mia. Quei termini che riempiono le nostre giornate, anzi le nostre vite per intero, non dicono tutto. Anzi non dicono nulla sociologicamente parlando. Non dicono essi, nella loro fumosità e nell’indeterminatezza presso il grande pubblico del reale loro contenuto, le cause reali, le responsabilità sociali e politiche che hanno determinato la “crisi” che impoverisce le nostre vite e che nega un destino diverso e migliore alle giovani generazioni di oggi. Non dicono, essi, che nel mentre le moltitudini tirano e stringono ancor di più quella famosissima cinghia c’è chi si arricchisce sempre di più determinando uno stato di gravissima asocialità che in altri tempi storici avrebbe innescato reazioni anche violente. Oggigiorno tutto ciò non accade. Ma il segno di “classe” della “crisi” è nella realtà di tutti i giorni e gli analisti attenti non mancano di denunciarne gli aspetti più inquietanti; ma è la miopia collettiva che tarda a mettere a fuoco lo stato delle cose. Ha scritto Joseph Roth (1894-1939) – da non confondere con Philip Roth, ché ce ne corre abbastanza - nella Sua celeberrima opera “Fuga senza fine” (scritto “solamente” nel 1927 se ne consiglia caldamente la lettura): (…). Lassù, dietro le nuvole, vive Dio, la cui bontà infinita è diventata proverbiale. Un po’ più in basso vivono gli uomini viziati, che stanno bene e sono così immuni dal contagio della povertà che presso di loro fioriscono le virtù prodigiose: la comprensione per la povertà, la misericordia, la bontà d’animo e persino la mancanza di pregiudizi. Ma in mezzo, tra questi uomini generosi e gli altri che hanno il più urgente bisogno di generosità, sono infilati come isolante quelli del ceto medio, che praticano il commercio del pane e provvedono al sostentamento della gente con vitto e alloggio. L’intera “questione sociale” sarebbe risolta se i ricchi che possono donare un pane fossero anche i fornai del mondo. Ci sarebbero molte ingiustizie di meno se i giuristi della corte suprema sedessero nei piccoli tribunali penali e i capi stessi della polizia arrestassero i ladruncoli. Ma non è così. (…). Infatti “non è così. Poiché quelli del cosiddetto ceto medio, molto più largo oggigiorno rispetto a quello al quale faceva riferimento il grande Joseph Roth, hanno così tanto amato i ricchi da tentare di copiarne gli stili di vita, le mollezze, le stravaganze, le civetterie, a gonfiarsi come loro tanto da scoppiarne ora che la crisi lascia quelli indifferenti alle pene del vivere quotidiano e stramazza sempre di più i loro incauti imitatori. Avete visto sullo schermo del piccolo vostro mostro domestico la pubblicità di una automobile dal costo molto ma molto contenuto? Lei, la vampira che accompagna ad un party di ricchi l’incauto acquirente, non ha fatto in tempo di suggerire allo sbadato l’acquisto di una macchina più costosa. Poiché i partecipanti del party si allontanano dalla coppia disgustati al solo apprendere l’esigua spesa che ha consentito loro l’acquisto del nuovo mezzo. Roba da pazzi! 

Gli studiosi la chiamano «wage inequality». Vuol dire «disuguaglianza nelle retribuzioni». Al di là del dramma dei senza lavoro, questa è la vera cifra dei tempi di ferro in cui viviamo. L’ingiustizia sociale che dilaga, in un Occidente impoverito e accidioso, si nutre soprattutto di questa paurosa e crescente asimmetria nei livelli di reddito e nelle condizioni di vita delle persone che lavorano. La virtù del capitalismo, che pure è esistita fino a un decennio fa, consisteva in questo: non era affatto perfetto, ma era comunque il migliore degli «ismi» possibili, perché garantiva a un maggior numero di donne e di uomini di beneficiare di una distribuzione della ricchezza relativamente migliore di qualunque altro sistema sperimentato nella storia dell’umanità. Ora tutto è cambiato. S’avanza una nuova forma di «lotta di classe», che ha ragioni pratiche e non ideologiche. La scorsa settimana è uscito il rapporto annuale «Executive Paywatch», curato dalla AflCio, che rivela numeri imbarazzanti. Nel 2011 gli emolumenti medi dei Ceo americani (in «servizio» presso i colossi industrialfinanziari riuniti nell’indice Standard & Poor’s 500) sono arrivati a quota 12,9 milioni di dollari, con un aumento del 14 per cento rispetto all’anno precedente. Un reddito pari a 380 volte quello di cui, nello stesso periodo, hanno beneficiato i lavoratori dipendenti e gli impiegati. Nel 2010 sul 2009 l’incremento degli stipendi dei top manager era stato ancora maggiore: 22,9 per cento. Nel 2009 i compensi medi dei Ceo erano 320 volte maggiori di quelli dei loro impiegati. Dunque, una «bolla» inarrestabile. E anche incredibile, perché lievita in una fase di crisi economica che non ha precedenti, almeno dal Big Crash del 1929. I sacrifici veri, quelli più pesanti, li stanno facendo solo i «soliti noti». Quelli che non hanno bonus e stock option, ma stanno a busta paga e campano del loro salario. Nel 2011, secondo il Rapporto, questa categoria sociale ha beneficiato di aumenti retributivi pari al 2,8 per cento, sufficienti appena a coprire l’inflazione. Il dato americano non inganni. Avviene lo stesso anche nel resto delle moderne democrazie europee, compresa la piccola Italia. Magari il divario medio tra manager e dipendenti non raggiunge quota 380, ma ci si avvicina (e in qualche caso eccezionale, vedi Sergio Marchionne, lo supera anche di molto). Quanto può reggere una società attraversata da queste disuguaglianze? E come si può pensare di salvare il capitalismo, riformando qua e là i suoi «istituti», senza affrontare e risolvere anche il problema della «wage inequality»? L’establishment ha poco da meravigliarsi, se esplode il conflitto sociale. Come diceva il leggendario principe de Curtis, in «Totò e i re di Roma», «poi dice che uno si butta a sinistra».

venerdì 27 aprile 2012

Cosecosì. 14 E decrebbero felici e contenti.


 Grande non più d'un ovo di gallina vedendo il Bue bello e grasso e grosso, una Rana si gonfia a più non posso per non esser del Bue più piccina. << Guardami adesso, - esclama in aria tronfia, - son ben grossa? >>.  << Non basta, o vecchia amica >>. E la Rana si gonfia e gonfia e gonfia infin che scoppia come una vescica. Borghesi, ch'è più il fumo che l'arrosto, signori ambiziosi e senza testa, o gente a cui ripugna stare a posto, quante sono le rane come questa! Mi è venuto spesso di pensare a Jean de La Fontaine (1621-1695) ed alla Sua bella storiella che ha per protagonisti un “bue bello e grosso” ed una rana. E mi è venuto di pensare a quella bella storiella ogni qualvolta ho sentito e sento parlare della “crescita”. Sono tutti lì a riempirsi la bocca con la “crescita”. Come se fosse facile riavviare la “crescita”. Così, di punto in bianco, si dia il via alla “crescita”. Oplà! Poi, nessuno che spiegasse agli incolti come me come sia possibile riavviare la “crescita”. Riavviarla per farne cosa? è il punto fondamentale; crescere all’infinito come la rana della pedagogica storiella? Mi pare un azzardo, tenendo conto della instabilità propria del sistema Terra. Problemi ambientali e di risorse non più rinnovabili e quindi non più disponibili. La parola d’ordine è e rimane: ora si deve puntare alla “crescita”. Ovvero, la “crescita” al consumo. Mi sa che non se ne esce bene. Siamo gonfi come la rana di La Fontaine. Scoppieremo come quella rana ignara. Non ha senso, a mio parere, insistere su parole d’ordine che hanno fatto il loro tempo. Vogliamo che si cresca. Con quali risorse? Senza aumentare il debito pubblico assicurano i virtuosi reggitori della cosa pubblica. E come allora? Chi distribuirà la moneta affinché si riprenda a crescere? Quando si scopre che poi a milioni vivono con soli 500 euro al mese! Ed i più ricchi arrivano addirittura a mille euro al mese! Un fottìo da scialacquare. Chi dovrebbe consumare di più? E perché sempre di più? Si brancola nel buio. Più pesto. Siamo gonfi, gonfissimi, come la ranocchia della storia, gonfi di sprechi, di inutilità rese necessarie. La “crisi” dovrebbe farci riflettere; la “crisi” dovrebbe insegnarci qualcosa. Indurci ad un passo indietro; spingerci ad un passo diverso nello scialacquamento in atto da questa parte del pianeta. Non se ne esce proprio. Autorevolmente ne ha scritto Maurizio Pallante su “il Fatto Quotidiano” col titolo “E decrebbero felici e contenti”. Di seguito lo trascrivo in parte.

Sommando il debito pubblico ai debiti delle famiglie e delle imprese, in tutti i paesi industrializzati l’indebitamento complessivo supera il 200 per cento del prodotto interno lordo. Perché? (…). L’indebitamento complessivo dei paesi industrializzati, (…), è necessario per assorbire la produzione crescente di merci che altrimenti rimarrebbero invendute. In altre parole la crescita della domanda, che pure è stata costante, non è in grado di assorbire la crescita dell’offerta perché la concorrenza internazionale impone alle aziende di investire continuamente in innovazioni tecnologiche che accrescono la produttività, che consentono cioè di produrre quantità sempre maggiori di merci con un numero sempre minore di occupati. Ma se si riduce il numero degli occupati, si riduce il numero delle persone provviste di reddito, per cui la crescita del debito è diventata indispensabile per sostenere la domanda. Il meccanismo della crescita e l’incremento della competitività sono la causa della crisi in corso. Tutti i tentativi di rilanciare la crescita e di incrementare la produttività non solo non possono consentire di superare la crisi, ma se riuscissero, contribuirebbero ad aggravarla. Questa crisi, (…), non è una crisi congiunturale, ma una crisi di sistema che gli strumenti tradizionali della politica economica non sono in grado di affrontare perché se si vuole rilanciare la crescita, come viene ripetuto con la ripetitività di un mantra, non si possono non aumentare i debiti pubblici; se si vuole ridurre il debito pubblico si deprime la domanda e la crisi si aggrava. Ciò che occorre è trovare il denaro per gli investimenti senza accrescere i debiti pubblici. Questo denaro si può ricavare soltanto dalla riduzione degli sprechi, ovvero dallo sviluppo di innovazioni tecnologiche finalizzate ad accrescere l’efficienza con cui si usano le materie prime, in particolare l’energia, e a recuperare le materie prime contenute negli oggetti dismessi, che del tutto impropriamente vengono definiti rifiuti. In altre parole occorre uscire dalla logica quantitativa nella valutazione della produzione e utilizzare criteri di valutazione qualitativi. Non proporsi di produrre di più, ma di produrre quello che serve. (…). Un’efficiente raccolta differenziata, finalizzata al recupero delle materie prime contenute negli oggetti dismessi, consentirebbe di risparmiare le enormi somme di denaro che vengono spese per seppellirli sotto terra o per distruggerli bruciandoli, e con il denaro risparmiato si possono sostenere i costi d’investimento e l’occupazione necessari a organizzare un’efficiente raccolta differenziata e le industrie del riciclaggio. Ma se si riutilizzano le materie prime contenute negli oggetti dismessi diminuirebbe da subito il consumo di materie prime e, una volta ammortizzati gli investimenti, diminuirebbe il prodotto interno lordo. Per superare la crisi senza accrescere i debiti pubblici, (…), occorre sviluppare un pensiero più evoluto di quello che si limita a perseguire la crescita della produzione in quanto tale e la crescita dell’occupazione in quanto tale. Bisogna creare occupazione in lavori utili e la cosa più utile da fare in questa crisi, che è contemporaneamente economica ed ecologica, è ridurre il consumo delle risorse e le emissioni inquinanti sviluppando le innovazioni tecnologiche che ci consentono di stare meglio riducendo i consumi inutili, perché questo è l’unico modo di recuperare il denaro necessario allo sviluppo di quelle innovazioni. Less and better.

martedì 24 aprile 2012

Cosecosì. 13 Accadde domani, la Liberazione.


25 di Aprile 1945. Le "ragazze" della Liberazione.
 
Ha scritto Sebastiano Vassalli nel Suo “Infinito numero”: (…). Gli uomini, senza la lettura, non conoscono che una piccola parte delle cose che potrebbero conoscere. Credono di essere felici perché fottono, si riempiono le pance di cibo e di vino e addolciscono le loro vite con questi piaceri, assolutamente uguali per tutti; ma la lettura gli darebbe cento, mille vite, e una sapienza e un dominio sulle cose del mondo che appartengono solamente agli dei. Io, almeno, ne sono convinto. Così, del primato della lettura. Che è la “memoria” resa materiale su supporti che siano cartacei o di qualsivoglia altro materiale. Poiché nella lettura la “memoria” è fissata, quasi per sempre; e si rende presente, fruibile, ché non lo sarebbe senza il supporto materiale. E chi non ama coltivare la “memoria” distrugge quei supporti sui quali la “memoria” è resa fruibile ed alla portata di tutti. Bruciare libri e quant’altro per cancellare la “memoria” non condivisa. Così è sempre stato. Ed ancor oggi la lettura delle storie raccontate dai “ragazzi” di allora, di quelli della Liberazione, aiutano a recuperare quella “memoria” senza la quale il mondo di ciascuno di noi sarebbe come avvolto nella cecità più totale. Così, noi che ne abbiamo la fortuna e la voglia di farlo, nella lettura dei ricordi di Carlo Ricchini – tredicenne al tempo dei Suoi ricordi, tratti da l’Unità del 24 di aprile dell’anno 2011 -, facciamo nostra quella storia grande della Liberazione dalla tirannide fascio-nazista che tanto è costata in lacrime e sangue ai “ragazzi” di allora. Noi, che siamo stati “ragazzi” diversamente e senza gli affanni di quel tempo crudele e che torniamo come per incanto ad esserlo leggendo i ricordi dei “ragazzi” di quel tempo.

Territorio di Santo Stefano Magra, frazione di Ponzano, mattina del 9 settembre 1943. Giorni prima, nella pineta a ridosso dei muri del cimitero della Madonnetta, si era accampato, come in altre zone della provincia spezzina, un reparto di alpini reduci dal fronte russo, stanchi sfiniti, malati, feriti. Avevo fatto amicizia con uno di loro, Pietro, un sergente alto, magro, scuro nel volto e schivo nei comportamento. Era di Borgotaro. Sorrideva un poco quando mi incontrava. Gli raccontavo le mie storie di ragazzo tredicenne e lui, ogni tanto, della tragedia che aveva vissuto nel gelo, fra morti e cannonate. Sempre poche parole, come se provasse vergogna d’essere rimasto fra i vivi. Qualche volta mi regalava la pagnotta del suo rancio e io gli portavo grappoli di uva bianca che rubavo nella vigna del prete. Quella mattina (la sera prima la radio aveva annunciato l’armistizio) correvo lungo il sentiero che da casa portava alla pineta, ero felice, ridevo quando feci irruzione nella tenda. Trovai Pietro piegato sullo zaino, preparava le sue cose, scuro ancora più in volto. Ma come, non sei contento? E’ finita la guerra. Puoi tornare a casa. La guerra, comincia ora, qui. Vedrai. Mi sentii gelare. Prese la via dei monti. Non l’ho più incontrato.

I partigiani stavano sul monte Grosso. Ogni tanto scendevano a valle per rifornimenti, per abbracciare i familiari. Quei tre giovani, presi all’alba in una imboscata, erano tutti di Santo Stefano. Li vidi verso le 9 del mattino, era il 20 agosto, giornata torrida, li tenevano nel cortile della villa requisita dal comando tedesco. Erano legati, circondati da soldati con la svastica. La gente, sulla strada, diceva che li stavano processando. Riconobbi Dario Pietra, un operaio dei cantieri navali di Muggiano. Mi lanciò un’occhiata piena d’angoscia. Accanto a lui, con il capo reclinato, lo sguardo a terra, Gino Spadoni e Giovanni Baruzzo. Più tardi, stretti fra una decina di soldati, li vidi trascinarsi sulla strada che si inerpica verso Ponzano Superiore. Alla chiesa i soldati sbarrarono la strada mentre gli altri, con i prigionieri, che ora portavano in spalla picconi e badili, si spostavano poco lontano dal campanile, su un terrapieno alberato, nell’ombra, affacciato a un dirupo e sul fianco a una vigna che a gradoni scendeva verso un torrente.. “Scavate tre fosse”, ordinarono i tedeschi ai prigionieri. E Dario, Gino e Giovanni, cominciarono a picconare, senza energia, lentamente, come per guadagnare ancora qualche respiro di vita. “Ci ammazzeranno fra poco”, disse Dario ai suoi compagni, bisogna tentare il tutto per tutto. Morire per morire…Guardate ora non ci stanno guardando, stanno mangiando l’uva…” Ma i suoi compagni ebbero appena la forza di scuotere la testa. “Vai tu…”. E Dario impalò la terra, la lanciò col badile sui tedeschi mentre si gettava dal poggio, in mezzo agli sterpi, fra gli alberi, in una corsa disperata mentre le pallottole gli balzavano tutte intorno. Si portò fuori tiro, in salvo. Spadoni e Baruzzo furono subito uccisi, ricoperti con un palmo di terra.

Il rumore che veniva dal cielo seminava terrore. E non riuscivi a dormire: l’angoscia, la paura, sembrava entrare nel sangue per giungere al cuore in agitazione. C’era Pippo. Era un caccia americano che volava di notte ad alta quota: andava e tornava, girava intorno a paesi, strade, gruppi di case isolate nella campagna. Pare avesse un radar, ma non colpiva obiettivi militari. Il suo compito era seminare terrore. Ogni tanto lasciava cadere bombe di piccolo calibro o spezzoni incendiari, sulle case. Un aereo killer. Una notte, sganciò il suo carico su una casupola isolata, vicino all’abitato di Santo Stefano, nella campagna verso il fiume Magra. Uccise nel sonno tre bambini. Li ricordo sul grande lettone dei genitori, uno accanto all’altro, vestiti con gli abiti della prima comunione, il fazzoletto bianco nel taschino.

Non c’era più nulla da mangiare. Il fronte era da mesi fermo a Montagnoso, a pochi chilometri. Era l’estate del 1944. Ogni tanto, annunciate da un rumore sordo che provocava angoscia e terrore, si vedevano solcare il cielo, sempre pulito e sereno, le fortezze volanti. Scaricavano bombe laggiù, verso Massa, ma anche sui ponti sul fiume Magra, senza colpirli. I tedeschi sparavano cannonate da Punta Bianca, il monte di fianco alla foce del fiume. Tenevano sotto tiro la Versilia e le strade verso Firenze e Livorno. Ma quasi in continuazione i boschi e i paesi della sponda opposta, dov’erano i rifugiati i partigiani. Fame e paura. E a qualcuno venne l’idea di andare a cercare farina verso Parma, nelle fattorie dell’Emilia. Duecento chilometri, con le salite del valico della Cisa, da affrontare a piedi, con zoccoli o scarpe scalcagnate. Si formarono cortei di carretti lungo la strada della Cisa. Uomini di mezza età, ragazzi, donne, non i giovani che rischiavano di finire in mano ai tedeschi e alle brigate nere ai posti di blocco. Una marea di carretti, con ogni tipo di ruote, anche quelle di biciclette o costruite con cuscinetti a sfera. Partecipai a due spedizioni, con un carretto trainato a mano. La prima volta potemmo rifornirci vicino a Berceto, la seconda, la farina ormai scarseggiava, ci spingemmo sino in provincia di Piacenza. In collina. Ci aiutarono a comprare e a caricare i sacchi un gruppo di partigiani. Amministravano i territori, erano tutti in divisa. Ricevevano armi e vestiti dai lanci aerei degli alleati, rari dalle nostre parti, dove gli uomini alla macchia vestivano stracci con le stella rossa sul berretto. Le carovane della farina dovevano affrontare non poche insidie: le rapine del denaro all’andata o del carico al ritorno, e i mitragliamenti dei caccia americani sui tornanti della Cisa. Apparivano all’improvviso, sparavano ad ogni cosa si muovesse sulla strada. Anche ai carretti.

Finalmente, il 23 aprile 1945, fu sfondato anche il lato della linea Gotica fra le Apuane e il mare. Pochi i combattimenti, i tedeschi erano in fuga dal giorno prima. Arrivano, arrivano gli americani. Noi ragazzi impazienti correvamo loro incontro nella strada a rettilineo che veniva da Sarzana. Ad un tratto ci trovammo davanti un carro armato, gigantesco, impressionante. Faceva paura solo a guardarlo. Dalla torretta spuntava un cannoncino e la faccia sorridente e tonda di un sergente nero, che, con due salti, scese con le mani piene di caramelle e cioccolate. Ci sembrò un gigante. Chiese: “Dove sono stati visti i tedeschi l’ultima volta?”. Un ragazzo indicò un sentiero sul monte, lontano. “Li ho visti ieri mentre scappavano…”. Ma il sergente già gridava l’ordine e il cannone sparò a ripetizione, per una decina di minuti, su quel pezzo di strada che per fortuna, in quei minuti, era deserta.

lunedì 23 aprile 2012

Sfogliature. 3 Banali leader.


Cattivi pensieri è stata una etichetta di questo blog quando esso “viveva”, con la sua fronzuta chioma, su di un’altra piattaforma che non c’è più. Il post, che di seguito trascrivo, risale al venerdì 11 di dicembre dell’anno 2009. Titolo di quel post: “Banali leader”, per l’appunto. Quanto tempo è trascorso da allora? Cosa è nel frattempo cambiato nel bel paese, a parte la grande “crisi” che ci attanaglia e che morde sempre di più, ché al tempo del post riproposto veniva negata dai “banali leader” di allora? È cambiato ben poco. Sono tutti lì a promettere di fare cose per la salvezza del paese, a banalizzare riforme o quant’altro serva esclusivamente alla loro permanenza al potere. Il tempo scorre inesorabilmente, ma per la politica de’ noantri esso è una entità di nessuna rilevanza e peso. Tutti assieme amorevolmente, ma pericolosamente assai per il resto del paese. È il rischio enorme che il bel paese incontra sulla sua strada senza vederlo con chiarezza: che dallo “schifo”, per dirla con un ministro tuttora in carica, per la politica si sviluppi quell’antipolitica che porterà il bel paese a ricadere in una esperienza nuova che ripeta pedissequamente il tenebroso ciclo politico da poco sepolto (ma per quanto tempo ancora?). è stata la grande, storica, epocale “miopia” della  mala politica che ha barattato le idealità della sana politica per il succoso piatto del potere. 

“Il politico è un animale mediocre. Dopo aver tentato di farcela nella vita seguendo le strade abituali: medico, falegname, transessuale, ricattatore, marito di una donna ricca, si trova impantanato nella sua mediocrità. Si guarda in giro, vede che passa un animale molto potente, si inginocchia: «Eccellenza abbia pietà di me mi prenda come portaborse» e gli bacia rumorosamente il dorso della mano pelosa. E quello con voce da lupo mannaro: «Sei disposto a tutto?». «Sì maestà». Questo l’inizio. In poco tempo impara i trucchi del mestiere e in pochi anni fa fuori il suo padrone con mezzi anche ripugnanti. Ed ecco che raggiunge il suo scopo: diventa ministro. Avete capito in che mani siamo? Invece di fa governare il paese da grandi medici, economisti, tecnici e famosi giuristi siamo nelle mani di animali stupidi e quindi pericolosi”.  Da “Animali pericolosi” di Paolo Villaggio nella rubrica “ La voce della lega “ pubblicata sul quotidiano l’Unità. Detto brutalmente alla Fracchia. Sono i pensieri che ronzano quotidianamente nella testa di milioni di esseri umani, cosiddetti pensanti. Pensanti di un pensiero unico però. Pensieri di cui si ha vergogna quasi di professare. Si coltivano amorevolmente, quei pensieri, sino a quando un Fracchia qualsiasi prende il coraggio nelle sue callose mani per “sputarli” forte ai quattro venti. Col rischio che il vento li ributti in faccia allo sputatore. Può pure accadere. è che il “politicamente corretto” proibisce di esibirsi in tali esternazioni. In cambio di cosa? Dell’assuefazione. A tutto. Alle banalità ed alle porcate. Oggigiorno, più porcate che banalità. Per la paura di apparire come quelli dell’antipolitica. Irreggimentati. Bel prologo alla Fracchia. Fuori dai denti. Un prologo alle più dotte riflessioni ed argomentazioni di Zygmunt Bauman, il sociologo della “vita liquida”, contenute nel suo lavoro che ha per titolo “Banali leader”, pubblicato di recente su di un supplemento del quotidiano La Repubblica. Ne trascrivo di seguito ampie parti. 

"(…). Sulla terra, nella valle dove la tribù ha costruito le proprie capanne di paglia e fango, nel villaggio da cui gli uomini ogni giorno partono alla ricerca di noci di cocco e a cui ogni sera fanno ritorno, le cose stanno cambiando. In passato qui giungevano di quando in quando dei mercanti, per acquistare noci di cocco. I mercanti imbrogliavano sui prezzi, ma gli indigeni, scaltri, riuscivano a loro volta ad ingannarli. Adesso però i mercanti non si vedono più. Al loro posto è sorto un ufficio della moderna Coccobello Corporation, che compra tutto il raccolto in blocco e impone i prezzi. Non si contratta più, e imbrogliare è impossibile: i prezzi vengono stabiliti in anticipo, prendere o lasciare. Naturalmente, lasciando si rischia di non sopravvivere sino al raccolto successivo. (…). La televisione ha cambiato, (…), il modo in cui vediamo i  nostri leader. Un tempo questi ci apparivano come figure distanti, poste in alto, su un palco, o erano raffigurati in ritratti atteggiati a espressioni di una fierezza convenzionale. Adesso invece, grazie alla tv, ognuno può scrutare in loro il minimo moto di lineamenti, lo scatto infastidito delle palpebre, alla luce dei riflettori, il nervoso umettare delle labbra tra parola e parola. In breve: i nostri leader sono diventati terribilmente banali, come tutti noi. E, al pari di noi, mortali. Vengono per poi andarsene. Appaiono per scomparire. Si attaccano al potere per perderlo. L'unico vantaggio che sembrano avere su di noi, comuni mortali, è di essere destinati ad una morte pubblica - una morte a cui siamo certi d'assistere, tutti insieme. Con un tono non del tutto ironico, Calvino si spinge a suggerire che è proprio questa consapevolezza a spiegare il motivo per cui un politico, fino a quando è in vita, è ‘circondato dal nostro interesse ansioso, anticipatore’. Quelle che seguono sono parole così intense da meritare di essere citate testualmente e per esteso: - Per noi la democrazia comincia solo dal giorno in cui si ha la certezza che nel giorno stabilito le telecamere inquadreranno l'agonia della nostra classe dirigente al completo, e, in coda allo stesso programma (ma molti degli spettatori a quel punto spengono l'apparecchio), l'insediamento del nuovo personale, che resterà in carica (e in vita) per un periodo equivalente -. Tutto ciò, conclude Calvino, viene contemplato ‘ da milioni di spettatori con raccoglimento sereno, come chi osserva i movimenti dei corpi celesti nel loro ciclico ripetersi’. Uno ‘spettacolo che quanto più ci è estraneo tanto più sentiamo come rassicurante’. L'abitudine di tenere gli occhi puntati verso il cielo non è, si direbbe, la prerogativa di un'unica, remota tribù. Né i motivi per farlo, o le conseguenze che ne derivano, differiscono molto da una tribù all'altra. A cambiare sono gli strumenti necessari a dedicarsi a tale attività/passività. E i nomi, e le storie degli stregoni - ma non il messaggio di quelle storie, né le intenzioni di coloro che le raccontano”.

venerdì 20 aprile 2012

Doveravatetutti. 4 Quando ad un paese manca l’olfatto.


Mi dicono d’essere divenuto “sordo”. Con l’avanzare dell’età può darsi. È che il chiacchiericcio inutile e continuo degli esseri umani, prossimi o lontani che siano, mi induce a rifugiarmi in quella che ritengo una sordità utile, una “uscita di sicurezza” per dirla alla Ignazio Silone. Mi dicono pure d’essere divenuto “microsmatico”. Ovvero d’avere perduto tanto o poco del mio senso dell’olfatto. Può anche darsi. Per la perdita dell’udito, è che ho perso alcune delle frequenze; per l’olfatto, ne dubito. A proposito d’olfatto, scrive Barbara Spinelli nel Suo editoriale La perdita dell’olfatto, editoriale pubblicato sul quotidiano la Repubblica: - (…). L'idra è tra noi, anche oggi. Nasce allo stesso modo, è il frutto amaro e terribile di mali che tendono a ripetersi eguali a se stessi e non vengono curati: come se non si volesse curarli, come se si preferisse sempre di nuovo nasconderli, lasciarli imputridire, poi dimenticarli. È uno dei lati più scuri dell'Italia, questo barcollare imbambolato lungo un baratro, dentro il quale non si guarda perché guardarlo significa conoscere e capire quel che racchiude: la politica che non vuol rigenerarsi; i partiti che non apprendono dai propri errori e si trasformano in cerchie chiuse, a null'altro interessate se non alla perpetuazione del proprio potere; la carenza spaventosa di una classe dirigente meno irresponsabile, meno immemore di quel che è accaduto in Italia in più di mezzo secolo. (…). È corruzione anche la sordità a quel che i cittadini invocano da decenni, nei referendum. Nel '91 votarono contro una legge elettorale che consentiva ai partiti di piazzare nelle liste i propri preferiti. Nel '93 chiesero l'abbandono del sistema proporzionale, che in Italia aveva dilatato la partitocrazia. Il 90.3 per cento votò nel '93 contro il finanziamento pubblico dei partiti. I referendum sono stati sprezzati, con sfacciataggine. Il finanziamento è ripreso sostituendo il vocabolo: ora si dice rimborso. Da noi si cambia così: migliorando i sinonimi, non le leggi e i costumi. (…). Anosognosia è la condizione di chi soffre un male ma ne nega l'esistenza: è la patologia delle nostre teste senza memoria. La letteratura è spesso più precisa dei cronisti. (…). …Moravia scrisse nel '44: L'Epidemia. Una malattia strana affligge il villaggio: gli abitanti cominciano a puzzare orribilmente, ma in assenza di cura l'odorato si corrompe e il puzzo vien presentato come profumo. (…). Ecco cosa urge: ritrovare l'olfatto, anche se «è davvero un vantaggio» vivere senza. Altrimenti dovremo ammettere che preferiamo la melma e i pifferai che secerne, alla «bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, dell'indifferenza, della contiguità, e quindi della complicità». (…). -. Punto. Doveravatetutti è, ripeto, esercizio di memoria. È un esercizio che va praticato poiché senza memoria non si va da nessuna parte. Non si va in avanti né tantomeno si ha la forza ed il coraggio di correggere gli errori fatti prima nel tempo. Che continueranno a ripetersi sino alla fine dei giorni del mondo. Poiché le macerie dell’oggi erano state previste ed annunciate: perché fingere di scandalizzarsi oggi? Era tutto scritto. È che il puzzo non lo si avvertiva già da allora, aveva riempito le nostre narici: il puzzo del malaffare, dei singoli o delle congreghe. Ma sempre puzzo è. Ed era allora, forse ancor’oggi, un sottovalutare voluto, una patente impossibilità a sentire ed a vedere che come il tutto attorno franasse addosso, sulle persone e sulle istituzioni. Scriveva a quel tempo, il martedì 3 di agosto dell’anno 2010, Nadia Urbinati un pezzo magistrale che ha per titolo La politica dell´antistato; un ammonimento, una predizione. Inascoltati. Volutamente ignorati. Ciò che oggigiorno emerge, con il rovinare di quel “palazzo” costruito sul pressapochismo più sfacciato, sull’arroganza del potere per il potere, è il lascito amarissimo di quel lungo periodo della storia politica del bel paese che ha visto il puzzo levarsi in ogni contrada e tanto diffondersi al punto da non essere più avvertito, al punto da essere scambiato come la fragranza essenziale di quel tempo, di un avvizzito tempo storico, di quel mondo, di quella squallida azione politica. Doveravatetutti voi allorché Nadia Urbinati lanciava il Suo allarme? Perché è stato così difficile avvertire l’acre, nauseabondo odore del disfacimento delle regole e delle istituzioni? Doveravatetutti voi? Di seguito trascrivo, in parte, quell’illuminante, accorata analisi; un appello quasi al risveglio per tempo delle coscienze. Non fingiamo: a mandar via quel governo col puzzo che emanava d’attorno sono stati i mercati, non l’azione politica decisa e decisiva di una opposizione che sia tale, di una mobilitazione popolare che non c’è stata. Ai mercati necessitava un’azione più responsabile, meno approssimativa e per questo ne hanno chiesto la fine, ne hanno staccato la testa. Doveravatetutti voi al 3 di agosto, di martedì, dell’anno 2010? Il “Trota”, il “Belsito”, la “Mora”? è il tutt’uno del potere.

(…) Questo governo non lascerá solo macerie, (…). Lascerá qualcosa di nuovo, forse il lascito piú tremendo e anche quello che occorrerá subito demolire, senza second thought. (…). A questo metodo corrisponde il teorema, (…), della illegalitá sistemica, composta e ridimensionata ad arte come questione morale. Ma dietro il linguaggio bonario delle «poche mele marce» che il premier e i suoi Tg dispensano per noi popolo dell´ascolto passivo, si nasconde una vasta e organica trama di governo sotterraneo degli affari, delle amicizie, dei privilegi; una trama che ha la natura di una politica dell´anti-Stato, volta a cambiare il carattere del potere pubblico e delle relazioni tra Stato e cittadini. Chiamandolo anti-Stato riconosciamo che questo partito-governo-azienda ha e ha avuto una filosofia, un progetto preciso, a suo modo sovversivo e radicale. In una lettera a Repubblica del 5 luglio scorso, il Ministro Bondi, spiegando la tempra innovativa del suo leader, affermava che la «solitudine» del premier rispetto, non all´opinione pubblica, ma «al mondo politico, istituzionale e culturale», al mondo delle «alte magistrature istituzionali» era causato proprio dal fatto che il premier è «totalmente avulso» dalla logica dello Stato di diritto, dal «potere di veto derivante da una architettura istituzionale» e «dalla sedimentazione di norme burocratiche». Questa analisi è illuminante e da prendere sul serio. Il presidente del Consiglio è un «uomo nuovo», e per questo ammirato da chi ha sempre sentito le istituzioni come un impaccio alla libertà, invece che come canali di coordinamento delle azioni collettive per rendere la libertà individuale sicura perché non alternativa alla libertà altrui. Questa è una rottura radicale con lo Stato moderno; e una ferita che peserà sulla nostra democrazia, (…). Peserà, perché l´ammirazione per il guasconismo del neofita non è per nulla un fatto isolato, ma una componente della nostra tradizione politica nazionale. Che il Premier sia visto come un modello di modernità a paragone dei funzionari pubblici (le «alte magistrature istituzionali») è segno di una filosofia radicalmente sovversiva della modernità: un´esaltazione della rivolta del dominium (potere della forza, economica e privata) contro l´imperium (potere del pubblico). Un nuovo ancien régime nell´età del mercato, una rivincita dell´oikos contro la polis, della «fatticità» della forza degli interessi contro la «nomatività» delle relazioni pubbliche, del fastidio quasi a veder trattare «me» e «te» come uguali nonostante il «mio» potere sia tanto più grande del «tuo», della repulsione verso l´eguaglianza di rispetto. Alcuni «rivoluzionari» di quarant´anni fa sono rimasti irretiti e stregati da questo «uomo nuovo» perché hanno visto in lui la personificazione della loro convinzione che l´idea della legge imparziale sia ideologia da parrucconi, fatta per nascondere il «vero» potere, quello che opera nella società, che agisce senza orpelli e senza ipocrita imparzialità. Perché onorare le istituzioni se sono solo una formalità e un espediente ideologico? Perché non ammirare il potere nella sua diretta espressione? La lettura della «solitudine» di Berlusconi rispetto al mondo dello Stato rivela questa antica attrazione per il «realismo» contro la norma, il disprezzo per chi crede nel diritto e non sa ammirare il potere «reale», un potere capace di rimescolare il pubblico e il privato gettando alle ortiche la stantia e ipocrita arte liberale della limitazione e della separazione. L´illiberalità, (…), è la logica che presiede un´idea di libertà come potenza. La pratica del rimescolamento di pubblico e privato che il Premier e i suoi amici e ammiratori hanno inaugurato in questi anni è un macigno che pesa e peserà ancora sulla nostra vita pubblica. Smantellare questa politica anti-istituzionale radicale è il compito più urgente, un compito il cui successo dipenderà da almeno due fattori: che l´opinione pubblica e l´informazione facciano il loro lavoro di svelamento e critica, che non accettino più di essere strumenti di nascondimento della verità per tenere i cittadini spettatori passivi e adoranti; che l´illegalità venga chiamata col suo nome e perseguita con sistematica determinazione affinché il governo degli affari sia smantellato e la sua filosofia si mostri per quello che è, una ideologia del potere illimitato.

mercoledì 18 aprile 2012

Sfogliature. 2 … Shelley diceva così.


A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La torre.
 
Sfogliature è, come si è detto, “sostantivizzare” la pratica dello sfogliare. Nel caso, lo sfogliare quel grande, fronzuto albero che è stato questo blog quando “viveva”, esso, su di un’altra piattaforma della rete. Sfogliatura; che richiama una pratica propria della antica civiltà agricola, di sfrondare e, come da dizionario, “sfogliare un albero, un ramo e sim.| Sfogliatura del gelso, per alimentare i bachi da seta | Sfogliatura della vite, per soleggiare i grappoli” – per una alimentazione che sia di ben altra natura. ed andando, “giù per li rami” di quell’immenso arboreo “edificio”, raccogliere di volta in volta le foglie ancor verdi, per cibarsene. Ma d’altro. E così, di ramo in ramo, a quella che potremmo definire la pagina settecentotrentaquattro - 734 - di quell’immenso albero, si raccoglie il post del venerdì 4 di novembre dell’anno 2005 che portava per titolo “… Shelley diceva così”, primo post di una rubrichetta che menava vanto di cantare del “Mal d’Italia”. Lo trascrivo  utilizzando il semplice corsivo, senza il grassetto, per le mie parti scritte a quel tempo.

Avvio una nuova rubrichetta senza tante pretese. Annuncio di già di utilizzare per essa una sola fonte bibliografica, ovvero la recentissima pubblicazione “Il paese del pressappoco” di Raffaele Simone. Per quale motivo una scelta così limitata? La risposta è molto semplice. Da tantissime recensioni il lavoro di Raffaele Simone è stato presentato come un lavoro quasi “minore”, un “pamphlet” per l’appunto, così come lo stesso Simone lo definisce a conclusione della sua fatica nelle rituali pagine “Fonti e ringraziamenti”. Un lavoro quindi non accademico, non paludato, come tanta saggistica corrente che ha la pretesa di affrontare i “massimi sistemi” senza trasmettere il resto di niente; ed invece si è rivelato un libro intanto di facile e scorrevole lettura, ma soprattutto un libro nel quale ci si può ritrovare e che è capace di trasmettere sensazioni e percezioni del vivere all’italiana ben difficilmente rintracciabili in altri lavori similari. Scopo della rubrichetta non tanto nascosto? Provare a condividere o socializzare, come un tempo andato si soleva dire,  del libro di Raffaele Simone, i passi che più mi hanno colpito, quelli indubbiamente subito accettati e condivisi, e la cui scelta e responsabilità della stessa è da fare risalire esclusivamente alle “fisime” del redattore, alle sue idiosincrasie, alle sue personali esigenze ed inclinazioni, ché indubbiamente anche altri passi, altri brani o altre intiere pagine avrebbero meritato la stessa massima considerazione e la loro subitanea trascrizione. Ma il vantaggio di chi legge per il piacere sempre smodato della lettura risiede proprio nella libertà che ci si può concedere poi di riproporre le pagine o paginette che al momento della lettura, e senza una ulteriore fase di ripensamento, sono state come un fulmine a ciel sereno ed in altri taluni casi come un “pugno nello stomaco”; ed è il caso delle parti del lavoro di Raffaele Simone che verranno riproposte in questa rubrichetta. Susciteranno le stesse sensazioni e percezioni che sono state capaci di suscitare nell’intrepido lettore divenuto in seguito improvvido redattore delle stesse? Probabilmente dalla natura e dalla quantità dei commenti che i lettori, si spera, lasceranno traccia sarà possibile scoprire, o riscoprire, il tumulto di sentimenti che lo scrivere di Raffaele Simone sarà stato capace di sollecitare ed indurre nel corso della primaria lettura. Dimenticavo il sottotitolo del volume: “Illazioni sull’Italia che non va”. Solamente illazioni, o qualcosa d’altro? Anche il titolo della rubrichetta è stato mutuato, e “liftato” per la bisogna,  dal volume di Raffaele Simone, all’interno del quale titola il capitolo ventiduesimo “Il male d’Italia” per l’appunto.

“(…). …Shelley diceva così: - Ci sono due Italie: una costituita dalla terra verde, dal mare trasparente, dalle possenti rovine dei templi antichi, dalle montagne aeree e dall’atmosfera calma e radiosa che è diffusa in tutte le cose. L’altra consiste negli italiani di oggi, nelle loro opere e nei loro costumi. L’una è la più sublime e leggiadra visione che possa essere concepita dall’immaginazione umana; l’altra la più degradata, disgustosa e odiosa. (…) -”.

lunedì 16 aprile 2012

Capitalismoedemocrazia. 18 Il declino del capitalismo e l’utopia frugale.


A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
 
Ha scritto Emanuele Severino (1993) nel Suo celeberrimo lavoro “Il declino del capitalismo” – BUR (2007) € 9,80 - : "Il nemico più implacabile e più pericoloso del capitalismo è il capitalismo stesso. (…). O distrugge la Terra, e quindi distrugge se stesso, oppure si dà un fine diverso da quello che esso è, e anche in questo caso distrugge se stesso. (…). (Se) l'agire capitalistico trasforma il profitto in uno scopo subordinato allo scopo primario rappresentato dalla salvaguardia della Terra e della tecnica, distrugge se stesso come agire capitalistico, e lascia il passo all'azione razionale della tecnica che non presenta forme di distruzione e di autodistruttività che sono proprie dell'agire capitalistico" (testo riportato in “Il dilemma del profitto” di Umberto Galimberti). È come andare contro natura. e la natura propria del capitalismo è quella di ricercare sempre più nuove “terre vergini”, anche metaforicamente parlando, ovvero luoghi della Terra e mercati ancora inesplorati, da aggredire selvaggiamente sfruttandoli sino a che essi non siano ridotti a lande desolate. È quel che sta avvenendo sotto i nostri occhi – dalla Cina si inizia a delocalizzare verso altre “terre selvagge” più ospitali poiché senza regole e diritti certi per le forze del lavoro - che ancora non riescono a ben vedere gli scenari possibili oltre le nebbie che la “crisi” – iniziata nell’oramai lontano 2008 – ha creato. Ed ancora, a proposito dell’inappagato appetito consumistico del capitalismo, che consuma le risorse della Terra e le coscienze dei suoi umani abitatori, si chiede Umberto Galimberti nel lavoro prima citato: - Ma perché il capitalismo è distruttivo? Perché, come scrive Max Weber in L'etica protestante e lo spirito del capitalismo, il capitalismo è promosso "dall'istinto del profitto e dalla sete di guadagno", che sono impulsi irrazionali, comuni a tutti gli uomini in tutti i tempi, che il capitalismo ha razionalizzato, sostituendo alla corruzione, al furto, alla rapina, alla guerra, lo scambio. Per cui, conclude Weber: "Il capitalismo può essere identificato con il temperamento o perlomeno con il controllo razionale di questi impulsi irrazionali". Questa disciplina capitalistica poteva funzionare quando la Terra era grande in proporzione ai pochi operatori economici, ma oggi che gli operatori economici sono tantissimi e la Terra s'è fatta piccola, il fatto che il capitalismo abbia semplicemente "moderato, ma non "eliminato", quello che Weber chiama: "l'impulso irrazionale al profitto, anzi al profitto sempre rinnovato", il capitalismo non può evitare di entrare in collisione con la razionalità tecnica, di cui peraltro ha bisogno per salvaguardare la Terra che è la fonte del suo profitto. E se questo fosse il senso non ancora abbastanza evidente ed evidenziato della crisi che stiamo attraversando? -. È tutto uno stracciarsi le vesti per una ripresa che manca, che tarda a tornare. Una ripresa di cosa? Dei consumi essenzialmente, che siano o non siano gli stessi misura di un benessere che sia reale, benessere del quale si sono persi gli esatti contorni. Non una sola parola si è alzata dal coro unanime che invoca la ripartenza dei consumi più sfrenati. Non un solo accenno a quella dimensione nuova del vivere che Serge Latouche, professore di scienze economiche all´Università di Parigi definisce “L'utopia frugale”, nella interessante intervista che l’insigne studioso ha concesso a Marino Niola, antropologo e docente presso l’Università Orientale di Napoli, intervista pubblicata sul quotidiano la Repubblica che di seguito trascrivo in parte:

«Un certo modello di società dei consumi è finito. Ormai l´unica via all´abbondanza è la frugalità, perché permette di soddisfare tutti i bisogni senza creare povertà e infelicità».
(…). Cos´è l´abbondanza frugale? Detta così sembra un ossimoro. «Parlo di abbondanza nel senso attribuito alla parola dal grande antropologo americano Marshall Sahlins nel suo libro Economia dell´età della pietra. Sahlins dimostra che l´unica società dell´abbondanza della storia umana è stata quella del paleolitico, perché allora gli uomini avevano pochi bisogni e potevano soddisfare tutte le loro necessità con solo due o tre ore di attività al giorno. Il resto del tempo era dedicato al gioco, alla festa, allo stare insieme».
Vuol dire che non è il consumo a fare l´abbondanza? «In realtà proprio perché è una società dei consumi la nostra non può essere una società di abbondanza. Per consumare si deve creare un´insoddisfazione permanente. E la pubblicità serve proprio a renderci scontenti di ciò che abbiamo per farci desiderare ciò che non abbiamo. La sua mission è farci sentire perennemente frustrati. I grandi pubblicitari amano ripetere che una società felice non consuma. Io credo ci possano essere modelli diversi. Ad esempio io non sono per l´austerità ma per la solidarietà, questo è il mio concetto chiave. Che prevede anche controllo dei mercati e crescita del benessere».
Perché definisce Joseph Stiglitz un´anima bella? «Stiglitz è rimasto alla concezione keynesiana che andava bene negli anni ´30, ma che oggi, anche a causa dello sfruttamento eccessivo delle risorse naturali, mi sembra impraticabile. Nel dopoguerra l´Occidente ha conosciuto un aumento del benessere senza precedenti, basato soprattutto sul petrolio a buon mercato. Ma già negli anni ´70 la crescita era ormai fittizia. Certo il Pil aumentava, ma grazie alla speculazione immobiliare e a quella finanziaria. Un´età dell´oro che non ritornerà più».
È il caso anche dell´Italia? «Certo, il boom economico italiano del dopoguerra si deve soprattutto a personaggi come Enrico Mattei che riuscì a dare al vostro paese il petrolio che non aveva. È stato un vero miracolo. E i miracoli non si ripetono».
I sacrifici che i governi europei, compreso quello italiano, stanno chiedendo ai cittadini serviranno a qualcosa? «Purtroppo i governi spesso sono incapaci di uscire dal vecchio software economico. E allora tentano a tutti i costi di prolungarne l´agonia, ma questo, lo sanno bene, non fa altro che creare deflazione e recessione, aggravando la situazione fino al momento in cui esploderà».
Lei definisce la società occidentale la più eteronoma della storia umana. Eppure comunemente si pensa che sia quella che garantisce il massimo di autonomia democratica. Chi decide per noi? «Di fatto siamo tutti sottomessi alla mano invisibile del mercato. L´esempio della Grecia è emblematico: il popolo non ha il diritto di decidere il suo destino perché è il mercato finanziario a scegliere per lui. Più che autonoma, la nostra è una società individualista ed egoista, che non crea soggetti liberi ma consumatori coatti».
Qual è il ruolo del dono e della convivialità nella società della decrescita? «L´alternativa al paradigma della società dei consumi, basata sulla crescita illimitata, è una società conviviale, che non sia più sottomessa alla sola legge del mercato. Che distrugge alla radice il sentimento del legame sociale che è alla base di ogni società. Come ha dimostrato l´antropologo Marcel Mauss, all´origine della vita in comune c´è lo spirito del dono, la trilogia inscindibile del dare, ricevere, ricambiare. Dobbiamo dunque ricomporre i frammenti postmoderni della socialità usando come collante la gratuità, l´antiutilitarismo. (…).».
Il capitalismo è l´ultimo pugile rimasto in piedi sul ring della storia? «Non so se sia proprio l´ultimo pugile, perché non si sa mai in cosa è capace di trasformarsi, ci sono scenari ancora peggiori, come l´eco-fascismo dei neoconservatori americani. Certo è che siamo ad una svolta della storia. Se un tempo si diceva o socialismo o barbarie oggi direi o barbarie o decrescita. Serve un progetto eco-socialista. È tempo che gli uomini di buona volontà si facciano obiettori di crescita».
Francis Fukuyama di recente ha riaffermato di ritenere che il modello liberal-capitalistico resti l´orizzonte unico della storia. Senza alternative. Cosa ne pensa? «Che ha una bella faccia tosta. Prima si è sbagliato totalmente sulla fine della storia, e oggi ripropone la stessa solfa. La sua profezia è stata vanificata dalla tragedia dell´11 settembre che ha dimostrato che la storia non era per niente finita. Fukuyama chiama fine della storia quella che è semplicemente la fine del modello liberal capitalista».
A chi dice che l´abbondanza frugale è un´utopia lei risponde che è un´utopia concreta. Non è una contraddizione in termini? «No, perché per me l´utopia concreta non significa qualcosa di irrealizzabile, ma è il sogno di una realtà possibile. Di un nuovo contratto sociale. Abbondanza frugale in una società solidale. Sta a noi volerlo».

domenica 15 aprile 2012

Cosecosì. 12 In viaggio con la cara amica defunta.

A fianco. L'arte figurativa di Giovanni Torres La Torre.
 
Credete Voi nell’aldilà? Credete Voi, molto più laicamente, al solo “caso” che domini la vita di tutti gli esseri viventi? O avete bisogno di un ente soprannaturale, superiore, preposto a coordinare la vita errabonda dei viventi? Insomma, sareste disposti ad affidare la vostra esistenza al “caso”, o vi sentireste più garantiti di una superiore provvidenzialità che tutto dispone e coordina? Ci sono accadimenti della vita per i quali risulta ben difficile stabilire che sia stato il “caso” ad inverarli ovvero sia stato l’intervento provvidenziale di una entità superiore a far sì che quegli accadimenti si siano potuti verificare. Spesso le cose della vita stanno proprio in tali ambigui termini. Sentite questa. …e fu allora che vollero raccontare la loro incredibile storia. Viaggiavano, mesti, da ****** verso ******. La loro cara amica **** non c’era più. Immaturamente estintasi. Avevano da poco lasciato il raccordo autostradale e si erano immessi nella lunga arteria bituminosa che li avrebbe portati a ******. Percorsi pochi chilometri appena, un automezzo adibito ai tristissimi trasporti si era parato come d’improvviso dinnanzi a loro. È che nessuno dei due aveva avuto voglia di parlarne, con i cuori oppressi così come se li ritrovavano. Fu lei che, presa di coraggio, provò a dirgli: - Lo hai visto quel carro funebre? -. Lui, non ebbe modo di negarlo, ché lo aveva visto sin dal suo improvviso apparire e porsi dinnanzi. – Sono convinta che là dentro c’… - e lasciò morire così le parole. Non ne scambiarono altre, di parole. Non servivano. Come per un tacito accordo fatto in nome della cara amicizia e di quanto ancora serbavano in animo per ****, e senza più scambiarsi una parola per l’appunto, si accodarono all’automezzo come per seguirne le tracce. E lo seguirono mestamente, in silenzio, qualunque fosse stata la persona che quell’automezzo trasportasse per chissà dove. Se ne staccarono a malincuore quando videro svoltare l’automezzo in una stazione di servizio. Si convinsero allora di avere erroneamente pensato e creduto quel trasporto essere il trasporto, venuto da lontanissimi luoghi, della loro cara estinta amica diretto a******. Ne furono quasi sconsolati, poiché quel loro viaggiare dietro quell’automezzo donava loro la pace ritrovata dopo i dolorosi colloqui telefonici e le dolorosissime ultime notizie per quella immatura scomparsa. Era come se il viaggio di quell’automezzo, che aveva di già percorso in solitudine centinaia e centinaia di chilometri, avesse ritrovato un che di calore e di testimonianza da rendere alla cara estinta amica. E fu allorché, all’imbarco su di un traghetto per l’isola di *****, rividero l’automezzo disporsi pur esso al traghettamento, che la certezza di quel che avevano pensato percorrendo il lungo serpente d’asfalto si ripresentò rafforzata. Non c’erano più dubbi: **** aveva viaggiato con loro e loro si disponevano ad accompagnarla in quell’ultimo suo viaggio. È che da sempre avevano pensato ad un viaggio fatto assieme a ****. Viaggio che, per le circostanze delle loro vite, non si era potuto realizzare. Ed ora il caso, o una provvidenzialità superiore, disposta da un ente imperscrutabile, che non osavano definire diversamente, o tutte e due le cose assieme, li avevano posti sulla scia di quell’automezzo che partito da tanto tanto lontano, da luoghi brumosi e di poca luce, riportava in quell’angolo di terra inondato invece di tanto sole e di tanta luce, di forti odori salmastri e di un verdeggiare a tutte le stagioni, la loro cara amica scomparsa. Il racconto di quella storia, in verità straordinaria, voluta dal “caso” o da una provvidenziale superiore bontà, sprofondò tutti in un silenzio che aveva dell’assordante. E nessuno si lasciò tentare a dare una interpretazione ed una risposta che sia ai mille interrogativi che la vicenda aveva di certo sollevato e sollecitato nel profondo degli animi dei presenti. Ci fu chi, rotto l’assordante silenzio ebbe a dire: - Questo straordinario racconto sta a significarci che solo una grande e vera amicizia, l’amicizia di tutta una vita, ha potuto dirigere ed influenzare il corso della storia ascoltata -. E tutti rimanemmo in silenzio, in compagnia dei più contrastanti pensieri. E ci fu chi, poi, per rendere come un ultimo, grande omaggio a quell’amicizia cara e disinteressata, trasse da un suo blocco d’appunti un piccolo ritaglio e volle che ne ascoltassimo la commovente, suggestiva lettura:

“Chi potrebbe affermare che i morti siano veramente sotterra? Una volta gettata l’ultima palata sulla loro fossa, essi si alzano e si allontanano vacillando pei sentieri oscuri, quali verso i cieli, quali verso i mari, quali verso le verdi profondità del globo, e Dio solo sa dove andranno e quale forma rivestiranno, e se non ci fissano ogni giorno, assorti, sotto forma di un povero animale o di un fiore. Questa Vita è talmente indipendente dal nostro pensiero limitato, che tutto, dico tutto, ogni più nobile cosa può accadere: e lo sa chi, capace di ricordare e osservare, prova continuamente davanti a essa un sentimento di rispetto e terrore”.

Una lettura di speranza. Scoprimmo, ma solo tanto tempo dopo, che quella lettura che ci aveva resa un’immagine diversa della vita che non è vita dei nostri cari che non sono più era stata tratta da  quella straordinaria opera che ha per titolo “Vita di Dea”  della scrittrice Anna Maria Ortese.

mercoledì 11 aprile 2012

Storiedallitalia. 10 Lo scandalo è questo.


 Come per il don Giovanni dissoluto di Mozart, anche per i dissoluti della politica del bel paese l’aria del don Giovanni ci soccorre in parte, con la gradevolezza delle sue note, a stemperare la pesantezza dell’aria fetida che si respira attorno. “Madamina, lo scandalo è questo”, aggiornando l’agile libretto di Lorenzo Da Ponte. Quasi 20 anni addietro – 1993 - il cosiddetto “popolo sovrano” si esprimeva sul referendum abrogativo per la cancellazione del “finanziamento pubblico ai partiti” che era stato introdotto nell’ordinamento repubblicano dalla cosiddetta legge Piccoli n. 195 del 2 di maggio dell’anno 1974. La proposta di Flaminio Piccoli (DC) venne approvata in soli sedici giorni dall’arco costituzionale quasi al completo, ad eccezione del Partito Liberale Italiano. Questo detto solo per la memoria. Il referendum, promosso dai radicali, nell'aprile dell’anno 1993 registrò il 90,3% dei voti espressi a favore dell'abrogazione del finanziamento pubblico ai partiti, nel clima di sfiducia generato dallo scandalo di Tangentopoli. Ma l’italica fantasia non ha limiti. Nella perversione, almeno. Tutti d’accordo, prontamente si escogitava una trovata nuova, ovvero la introduzione dei cosiddetti "rimborsi elettorali" che nello stesso mese di dicembre dell’anno del referendum il parlamento, “a sua insaputa”, aggiornava, con la legge n. 515 del giorno 10, una già esistente legge sui rimborsi elettorali, definiti “contributo per le spese elettorali”. Una sempre più pingue distribuzione di risorse, senza rendiconto alcuno, essendo i partiti politici italiani considerati soggetti privati. Ha scritto Eugenio Scalfari nel Suo editoriale della Pasqua che ha per titolo “Il ritratto di un paese tra Padania e Wall Street”: “(…). La lebbra del clientelismo e l'analfabetismo leghista collocano la società civile del nostro Paese ad un livello ancora più basso del già bassissimo livello della classe politica. E l'antipolitica ne è il segnale. Esiste una parte del Paese che, disgustata da quanto ha visto e vede attorno a sé, è da tempo mobilitata per un rinnovamento profondo, per riforme strutturali e per un mutamento radicale di abitudini e di modi di pensare. L'emergenza della crisi economica si è sovrapposta a questa situazione, ma in un certo senso ha risvegliato le persone perbene che sono ancora numerose in tutti i ceti e su tutto il territorio. Questo risveglio le preserva dal rifugiarsi nell'indifferenza. Il destino della nazione è affidato a loro, alle loro capacità di curare un Paese gravemente ammalato, invecchiato, inutilmente ribellista, anarcoide e corrotto. (…).”. Ecco il punto. Una parte grossa della cosiddetta società civile non può nascondersi dietro il dito. Essa, con punte di allarmante disincanto e di irresponsabile disimpegno, diviene di conseguenza la tollerante compartecipe dello scandalo. Il quotidiano la Repubblica dell’8 di aprile ha documentato, nel suo dossier “La riforma” a firma di Liana Milella, uno scandalo che farà forse scolorire tutti gli altri scandali dell’italico vizietto della malversazione – recita il dizionario Sabatini-Coletti: [mal-ver-sa-zió-ne] s.f. Reato a danno dello Stato commesso da chi, avendo ottenuto contributi pubblici per finalità di interesse generale, li distrae o li usa indebitamente; estens. qualsiasi appropriazione illecita o uso illegittimo di denaro o beni amministrati per conto di altri -. Di seguito se ne trascrivono, di quel dossier, i dati più salienti.

1- Lo squilibrio tra spese e rimborsi – Lettura dei dati. I valori sono espressi in migliaia di euro – Rapporto tra Spese riconosciute/Finanziamenti statali nel periodo 1994/2008  - In parentesi il Rapporto percentuale tra finanziamenti elargiti magnanimamente e spese sostenute.

Politiche 1994     36.264/49.917    (129,4%)
Europee 1994     15.595/23.458     (150,4%)
Regionali 1995     7.073/29.722     (420,2%)
Politiche 1996    19.812/46.917     (236,8%)
Europee 1999     39.745/86.520     (217,7%)
Regionali 2000   28.673/85.884     (299,5%)
Politiche 2001    49.659/476.445   (959,4%)
Europee 2004     87.243/246.625   (282,7%)
Regionali 2005   61.933/208.380   (336,5%)
Politiche 2006  122.874/499.645   (406,6%)
Politiche 2008  110.127/503.094   (456,8%)

2- Elezioni politiche dell’anno 2008 – Elargizioni ai partiti - Valori espressi in milioni di euro - Rimborsi elettorali/Spese sostenute.

Pdl 206,5/53,7;  Pd 180,2/18,5; Lega Nord 41,4/2,9; Udc 25,7/15,7; Idv 21,6/3,4.

In quel di C*** si svolgeranno nel mese di maggio i rituali democratici del voto. Si dovrà eleggere il nuovo sindaco. L’aria che si respira non è delle più promettenti. Lo sconforto è grande. Generale. La confusione regna sovrana. Il disorientamento non lascia spazi che siano ad un racconto della realtà politica locale e/o nazionale che abbia un pizzico di credito. Lo scandalo è questo. Lo scandalo è aver lasciato che i druidi ed i sacerdoti tutti della politica uccidessero la democrazia. “Madamina, lo scandalo è questo”. C’è in giro una risolutezza nuova: disertare le urne. Non farsi compartecipi di quei rituali che hanno mitridatizzato tante coscienze. È l’inevitabile risvolto della amarissima storia. Ed a proporsi in tali atteggiamenti sono soprattutto loro, i giovani. La democrazia muore così.