"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 26 dicembre 2012

Doveravatetutti. 7 Il ritorno dell’illusionista.



Ha scritto Giovanni Valentini – la Repubblica del 15 di dicembre, “L’ultimo revival dell’illusionista” -: (…). Ora Pierferdinando Casini scopre che l'illusionista è in uno "stato confusionale". Ma da quanto tempo è così? E dov'era Casini all'inizio della malattia? Dov'erano tutti gli altri, amici, sodali, cortigiani, quando la degenerazione era ormai in atto? Oggi fa quasi impressione ascoltare dalla loro viva voce che tanti ex berluscones non lo sopportano più, lo detestano, anzi lo "odiano". L'infatuazione è finita, l'incantesimo s'è rotto. La Sindrome di Arcore finalmente è superata. Ma quanti danni nel frattempo sono stati prodotti all'Italia, anche con la complicità di chi non voleva vedere né sentire; quanti errori sono stati commessi; quante occasioni e quante opportunità sono state perse; quante risorse sono state sprecate. (…). Ed ancora oltre, in quel pregevole pezzo: "Ma chi è questo B?", si chiede adesso con malcelato sarcasmo Roberto Maroni, l'erede del senatùr alla guida del Carroccio, dopo aver fatto più volte il ministro del misterioso personaggio in questione. Già, Mister X: un nome impronunciabile, una figura da rimuovere, un incubo da dimenticare. Ma anche la Lega è correa del misfatto, alleata e complice per vent'anni del "signor B". (…). Due citazioni che rendono ancor degna ed accettabile l’esistenza di questa rubrichetta da quattro soldi. La rubrichetta del “doveravatetutti”, allora… Con quella che voleva pur essere una domanda, la più perfida che si possa immaginare. E che abbisognerebbe di risposte. Ma di risposte non ce ne sono. E non ce ne saranno. Mai. E poi mai. Non rientra nello stile, nei canoni della gente del bel paese avventurarsi sulle impervia strade delle domande. Ché, per dirla con una famosissima battuta cinematografica, è pur vero che le domande rendono saggi, ma le risposte rendono umani. Manca l’umanità al nostro tempo, per l’appunto. L’umanità che è mancata anche al natale appena passato. Ed ora che il natale ha preso la sua via, allontanandosi con il suo diluvio d’inutile bontà, anzi di inutile buonismo dispensato a buon prezzo, non ci resta che confrontarci con la squallida e perigliosa realtà dei nostri giorni. Ché tali rimangono, cadute le ultime illusioni. Ovvero, l’illusione d’avere messo da parte cialtronerie e cialtroni e quant’altro afferisca alla turpe pratica dell’illusionismo collettivo. E forse di un ritorno non sarebbe il caso proprio di parlare. Ché poi è stato sempre lì, ben acquattato dietro le quinte di quel teatrino della politica che tanto, a suo dire, aborre. Ma che non pensa di abbandonare. È che questo natale ci ha portato anche la prima ricorrenza, tristissima, della dipartita di un testimone dei nostri tempi, di quel Giorgio Bocca l’assenza del quale rende ancor più difficili i giorni nostri. Scriveva quel testimone attento – il Venerdì di Repubblica del 28 di gennaio dell’anno 2011, “Il turpe spettacolo che dà il sultano sul viale del tramonto” -: “Nei giorni del suo tramonto, il Cavaliere continua a dispensarci i suoi detti e motti di vanità e di stoltezza. In un suo messaggio alla nazione ha detto: “Fra le quattro mura di casa, nel suo privato, ciascuno può dire e fare quello che vuole”. L’esatto contrario della morale kantiana dell’uomo solo di fronte agli imperativi della sua coscienza. Ecco la morale degli uomini che fanno e non pensano: occhio non vede cuore non duole. Nei giorni del suo tramonto il sultano dà il peggio di sé. “Mi diverto un mondo” ha detto, “non me ne vado”. E, per rammentare ai suoi accusatori la sua umana generosità, ha ricordato di aver aiutato il gran ruffiano di corte che gli forniva le donne da conio. Se c’è un peccatore di cui i moralisti dovrebbero ricordarsi per la tristezza della lussuria è proprio lui. Si sa che le orge sono le manifestazioni più vergognose dell’umanità, quelle in cui si perde ogni rispetto di sé e degli altri, in cui ci si abbandona al turpe e al ridicolo. L’idea che erano il solo modo di svagarsi che il nostro avesse dopo una giornata di duro governo è deprimente. Al sultano in disgrazia i nemici, ma anche gli amici, consigliano “un passo indietro”, che nel linguaggio della politica significa scappa, ritirati se vuoi evitare il peggio. Ma lui digrigna i denti, dice che non mollerà mai il potere, promette danni e lutti e sale al Quirinale, dice al capo dello Stato di essere ingiustamente calunniato, accusa l’intera magistratura di complotto ai suoi danni, prima di lui Tiberio aveva avuto l’accortezza di far sparire i testimoni dalle rupi di Capri. Ma lui è buono, se li è tenuti tutti attorno e ora racconta per filo e per segno ai sudditi sbalorditi di quali vergogne fosse al centro. La stampa al suo servizio continua a difenderlo con l’unico risultato che vengono fuori le debolezze e i vizi pubblici, la generale acquiescenza al potere, la viltà di fronte alle sue minacce. Se si pensa al regime fascista, alla dittatura mussoliniana si fa un confronto umiliante per il presente: il dittatore fascista era attento alla sua immagine di amico del popolo, era di vita privata modesta, di peccati nascosti. Si dirà che nel regime fascista si rubava poco perché c’era poco da rubare e che l’attuale abbondanza è una delle ragioni della corruzione generale, ma anche nella dittatura alcuni ritegni, alcune vergogne, alcuni timori di una punizione restavano. Con il Cavaliere siamo scesi al fondo e ci vorranno anni, decenni per risalirne”. Cadono così le illusioni. Tutte. Mi pare di rendere così un omaggio, in questo sempre più svogliato natale, alla carissima memoria di quel testimone, nell’indifferenza generale di quanti non amano proprio che si pongano domande del tipo “doveravatetutti” quando Giorgio così scriveva. O che forse disturbava proprio per quella Sua scrittura diretta e spigolosa, come il Suo carattere di resistente, d’intrepido montanaro.

mercoledì 19 dicembre 2012

Cosecosì. 36 Quando il Natale era un’orgia consumista.



Quando il Natale era un’orgia consumista. Mi viene da scrivere al passato. Che non lo sia più un’orgia consumista? Auspicabile. Però, come si suol dire, “i casi della vita”: “L’idolatria del Natale contemporaneo è bel altra cosa dalle sue origini pagane. Fa prevalere l’arroganza di chi ha rispetto a chi non ha, il misurarsi sulla quantità dei doni” . È che me ne sono ricordato, di quella intervista ad Enzo Bianchi priore di Bose, concessa a Gad Lerner il 24 di dicembre dell’anno 2010 e pubblicata sul settimanale il Venerdì di Repubblica, dopo aver ascoltato per televisione l’ultima intemerata del capo della chiesa di Roma. Come sempre giunge tardi, l’intemerata intendo dire. Fuori tempo massimo. Pronunciata quella, prima di eccellere nell’arte del magistero etero-diretto con l’intemerata pronunciata contro le sessualità diversamente vissute che metterebbero a rischio la pace planetaria. Trasecolo. In quella intemerata, pronunciata con notevole ritardo rispetto ai tempi della umana storia, che è certamente diversa e diversamente scandita rispetto alla storia pensata e vissuta dalla chiesa di Roma, il capo di quella chiesa declama l’orrore suo per la mercificazione della imminente festività natalizia. Sic! Per l’imminente, a suo dire, orgia consumista che stravolgerebbe il senso cristiano della festa. Desta impressione per tanto tempismo. È che a cancellare l’imminente paventata orgia consumista ci ha pensato la “crisi” che da un lustro almeno striglia convenientemente le famiglie spingendole a più consapevoli comportamenti. E le tasse e le gabelle imposte pure. E la mancanza di lavoro per milioni di persone pure . E l’incertezza di un futuro più nero che mai pure. Di tutto ciò al capo della chiesa di Roma non sarà giunta notizia alcuna. È che nel magistero etero-diretto qualche intoppo avrà creato un possibile “baco” nel fluire della spirituale ispirazione dall’alto. Non desta impressione la discrepanza temporale nell’azione del magistero dei capi della chiesa di Roma. Ne è una costante. Ne è la cifra che la rende riconoscibilissima. La pratica sanguinosa dell’inquisizione, l’uso smodato delle armi benedette nelle crociate, il rogo di Giordano Bruno, l’isolamento della mente eccelsa dello scienziato Galileo, e di quant’altri ancora finiti nell’abbraccio delle sue amorevoli cure, stanno lì a dimostrare come quel magistero etero-diretto a flussi incostanti sia solamente il frutto di una preoccupazione eminentemente temporale che non accoglie la trascendenza come riferimento primo della azione pastorale tra gli uomini. La non dimenticata intervista rilasciata da Enzo Bianchi – che di seguito trascrivo in parte - sta lì a dimostrare la caparbia arretratezza di un magistero che si rinchiude tetragono alle novità che il mondo che sta “fuori” prospetta e aspetta siano ascoltate se non amorevolmente accolte senza l’attesa di un pentimento che verrà dopo, ma molto tempo dopo.

(…). “Che male c’è se il Natale è festa accogliente per i pagani?”, mi sorride con gli occhi furbi da contadino il priore di Bose. “Non ce lo insegna pure l’Antico Testamento? Nel Tempio di Gerusalemme i sacerdoti avevano pensato il cortile dei goyim, cioè un luogo adibito a ricevervi i non ebrei. Ed era uno spazio più grande di quello riservato a Israele nel Tempio”.
Dunque tu immagini un Natale rivolto ai pagani? “A tutte le genti, direi meglio. Mio padre, che non era cristiano e che avversò a lungo la mia scelta monacale, è ancora lì che mi ammonisce a non giudicare mai le persone suddividendole fra credenti e non credenti. Lottare contro gli idoli che disumanizzano e alienano la relazione con gli altri è un’esperienza che ci accomuna ben oltre affiliazioni schematiche”.
Ma chi dovremmo festeggiare la notte del 24 dicembre? Un poco verosimile Dio bambino? “Gesù è nato uomo, completamente uomo. Egli giungerà a raccontarci Dio ma attraverso il suo percorso di vita umana. La sua testimonianza è straordinaria grazie, per l’appunto, alla sua straordinaria umanità. Dunque chi deifica Gesù sulla terra commette un errore, lo deifica troppo presto”.
Ciò che dici conforta il mio punto di vista ebraico, così come mi è piaciuta nel libro la tua definizione dell’”uomo Gesù che ha raccontato Dio”. Ciò consente di recepire senza pregiudizi il suo messaggio, come messaggio di un profeta ebreo… “Gesù era uomo, totalmente uomo, e questo in effetti si può dire anche degli altri profeti, da Isaia a Ezechiele. Perché no?”.
Ma allora che senso ha adorare Gesù come incarnazione divina? Io non provo questa necessità di un Dio che si faccia uomo come precondizione a instaurare una relazione intensa con Lui. “Perché abbisogna pensare un Dio che si faccia uomo, attraverso Gesù? Forse ti stupirò, ma accetto questa tua obiezione. Non abbisogna necessariamente. Tanto è vero che la fede ebraica si è mantenuta, il cristianesimo non l’ha annullata. Noi cristiani proviamo la necessità di alzare il velo sulla relazione misteriosa che congiunge l’uomo a Dio, e raccontarci Dio attraverso l’esperienza medesima della carne umana. Ma non è vero che senza Cristo, cade Dio”.
Riconosci quindi il Natale come festa intrisa di reminiscenze pagane? “Lo riconosco senza esserne turbato, perché il Natale è la nostra festa che meglio dimostra l’inculturazione della cultura cristiana. Ciò sarebbe impensabile nella Pasqua, che celebra il mistero della morte e resurrezione tanto più difficile da accettare, eppure decisivo. Mentre la nascita di un bambino, ne converrai, è sempre motivo di festa per tutti. Il Natale ha una portata antropologica molto forte, non a caso, soprattutto in Occidente”.
Anche perché vi ricomprende le tradizioni pre-cristiane, vero? “Certo, pensalo nel nostro Monferrato cosa significa, appena superato il solstizio d’inverno, celebrare la vittoria del sole sulla notte, la luce, le giornate che ricominciano a allungarsi. Ovvio che le luminarie di Natale precedono il cristianesimo, perché precedente è il bisogno di vincere il buio. Anche l’impiego del vischio, quando la terra è congelata, era già un’abitudine celtica da noi ereditata. Nel momento più duro dell’anno naturale la famiglia si raccoglie e per contrasto festeggia, si consola scambiandosi doni. In questo senso il Natale è più antropologico, mentre a Pasqua la storia prevale sulla natura”.
Anche tu, però, nel libro, critichi “l’ideologia del Natale”. La tua indulgenza per i pagani non arriva a giustificare l’orgia consumistica contemporanea. “Un conto è il presepe, la capanna della natività che esercita un richiamo meraviglioso perfino su uomini sapienti che non avevano la fede nel Dio d’Israele: i magi. Penso a loro, capaci di una ricerca, di una lotta anti-idolatrica, di inseguire una speranza che abita tutta la storia umana…
Mi stai dicendo che si può essere pagani e anti-idolatri nello stesso tempo? “Ma certo, di nuovo è mio padre che me l’ha insegnato. C’è il giusto e l’ingiusto, mica il battezzato e il non battezzato. L’idolatria del Natale contemporaneo è bel altra cosa dalle sue origini pagane. Fa prevalere l’arroganza di chi ha rispetto a chi non ha, il misurarsi sulla quantità dei doni. Fino a rendere questo Natale invivibile alle persone sole, agli emarginati, ai più poveri. È assurdo, ma in questi giorni di una festa mal vissuta aumentano perfino i suicidi”.
Se ben capisco, devi ai pochi anni trascorsi con tua madre la fede cristiana che ha fatto di te uno studioso della Bibbia e il fondatore di una comunità monastica. “È così, ma se n’è andata troppo presto e quindi il suo impulso spirituale non sarebbe bastato senza l’apporto di Cocco e Etta, le due donne al tempo stesso pie e curiose, aperte, che si presero cura di me dopo la morte della mamma. Un commiato che aleggia in ciascuna delle mie notti, perché la camera da letto era unica nella nostra casa dignitosa ma povera; e io ricordo le sue crisi asmatiche, ogni volta col dubbio di risvegliarmi al mattino senza che lei ci fosse più. Sono passati più di sessant’anni ma tuttora non amo andare a letto, fatico a addormentarmi”.
Ricordi il Natale con tua madre? “Lo ricordo con gioia e lo perpetuo nella sua ferma volontà che la cena natalizia preveda diciassette portate, non una di meno! Bisognava che si facesse festa dello stare insieme. E siccome in famiglia eravamo solo tre mentre – come diceva la mamma - la tavola ha quattro lati, c’era sempre il posto per chi era rimasto vedovo da poco, o per il girovago delle nostre campagne. Proprio come fate voi ebrei nella cena pasquale, quando apparecchiate un coperto in più per il profeta Elia”.

mercoledì 12 dicembre 2012

Cosecosì. 35 Matera: un dono per Gaia*.



“Sono tornata nella bella città lucana, patrimonio della Umanità, dopo molti anni. Il primo   pensiero su tale significativa residenza era stato dettato dai ricordi fermi nella mia mente e nel     mio cuore, dall’ultima visita. Nell’oggi sono stati resi più reali, più coinvolgenti”. Inizia così la bellissima memoria di viaggio di Carolina Benincasa. È che ho sempre desiderato essere un “viaggiatore”, o un “viandante” per dirla con Galimberti, anziché un “turista” come si suol essere oggi. Poiché c’è una bella differenza non tanto e non solamente nei termini d’uso. Viaggiare è ben diverso che fare il turista. Viaggiare è una partenza che non pensa alla meta ultima ma che anela a vedere e scoprire tutte le meraviglie che ci sono tra la propria casa e la meta prefissata. Il viaggiatore vive il viaggio e si avvicina alla meta con animo pieno del senso della ricerca e della conoscenza. È così che ho immaginato Carolina nel Suo viaggio. Un approssimarsi alla meta scoprendone al contempo tutto ciò che la precede e che ne fa un seguito geografico, etnico, antropologico. Ed allora mi sono ricordato di una bellissima altra corrispondenza, del professor Umberto Galimberti per l’appunto – “Le ragazze con l'asinello” sul settimanale “D” del 25 di settembre dell’anno 2010 -. Ha scritto il professor Galimberti: "Io sono un viandante, diceva Zarathustra al suo cuore. Infine non si vive se non con se stessi" (Nietzsche). Tutti noi viaggiamo, ma, (…), non siamo "viandanti", ma semplici "viaggiatori" diretti in un Luogo, che non sanno nulla dei paesaggi che li separano dalla meta, puri interluoghi tra una partenza e un arrivo. (…) Ma per noi, che a differenza del viandante, "viaggiamo", che ne è dell'intervallo tra l'inizio e la fine? Che ne è del cammino per chi vuol arrivare? Per chi vuol arrivare, per chi mira alle cose ultime, ma anche per chi mira alle mete prossime, del viaggio ne è nulla. Le terre che egli attraversa non esistono. Conta solo la meta. Egli viaggia per "arrivare", non per "conoscere". Così il viaggio muore durante il viaggio, muore in ogni tappa che lo avvicina alla meta. E con il viaggio muore l'Io stesso fissato sulla meta e cieco all'esperienza che la via dispiega al viandante che sa abitare il paesaggio e, insieme, al paesaggio sa dire addio. (…). Inutilmente la via ha istituito viandanti, le nostre orecchie sono sorde alle loro voci e a quelle dei luoghi, le sirene della "meta" e del "ritorno" hanno cancellato ogni stupore, ogni meraviglia, ogni dolore. (…).” È così che mi piace pensare Carolina nel Suo viaggio per i Sassi di Matera. Ella viaggia non per "arrivare", ma per "conoscere". Prima e dopo. Mi piace pensarla proprio così. Oggigiorno trionfa il “turista”. A me sarebbe piaciuto essere il “viaggiatore”, il “viandante” del professor Galimberti. Ritorniamo alla memoria di viaggio di Carolina Benincasa. “È sera quando giungo presso uno dei tanti “affacci”, per vivere il Sasso Barisano. Non sono molti i turisti ma tutti, al mio pari, vengono rapiti dallo strano magnetismo che tali costruzioni emanano, avvolgendo lo spettatore, penetrando in esso. Una sensazione forte e tenera al contempo che mi lascia  attonita ed immobile nell’ammirare quell’insieme di costruzioni ove i vari livelli sembrerebbero essere una tradizionale realtà urbana come si può evidenziare in   molti   centri arroccati lungo i crinali dei colli. Ma… Dopo un più attento esame si percepisce in tutta la sua complessità, la reale struttura che rende sì magico il Sasso Barisano (etimo di incerta origine). E questa  convivenza così stretta che rende il paesaggio compatto, quasi fosse una sola dimora, paragonabile ad un gigante che non incombe sul visitatore ma lo avvolge in un abbraccio tenero eppur forte, deciso come le braccia dello innamorato che racchiude la sua amata con la tenera forza dell’amore. È un messaggio vivo, quasi telepatico che raggiunge tutti i sensi degli astanti. Le luci poste  ad  illuminare  tale   realtà  contribuiscono a  rendere  le   sensazioni ancora più  magiche. A stento  riemergo  da  questo sogno, ma non del tutto, la  magia  continua quando mi inoltro tra le vie del Sasso. Le stradine  strette, pulitissime, rese ancora più suggestive dalla  scelta  delle luci dei lampioni che sottolineano, nascondono e rendono luminosa la pavimentazione resa quasi preziosa come il marmo, grazie alla molta frequentazione. Il silenzio non incombe, ma  difende quelle vetuste mura che narrano, in    assenza di rumori, il loro  andar  nel Tempo. Se la luce artificiale dei lampioni rende ancor più  suggestivo il cammino per il  Sasso, il giorno non riduce la   magia, la  rende solo diversa. Il  mattino che si era  annunciato   con   una   nebbia bianca  che, pur  lasciando intravedere  il sole poteva anche trasformarsi in pioggia, mi  regala   un   sole  quasi estivo. La visita diurna di tale patrimonio conferma la  magia della sera, rivelandomi particolari: qualche scorcio della gravina che si intravede da un vico, una cisterna  che  serviva   per il  vivere  quotidiano, sita all’interno  della  dimora, la  cortesia e  l’ospitalità dei rari   abitanti. Ancora  una  volta   questo sito doveva affascinarmi, stupirmi. Come ho già  accennato, Matera  annovera  non  solo il Sasso su descritto, ma anche le Chiese Rupestri costituite da caverne   distribuite  lungo  la  parete  rocciosa  che   si   erge   a   strapiombo   su   una   valle fluviale, in fondo alla  quale  scorre il torrente Gravina. Furono   scelte   come   abitazioni   e   luogo  di  culto dai frati greco-ortodossi che non si limitarono ad antropizzarle, bensì adornarono le pareti  di tali   grotte con  immagini   religiose nello inconfondibile stile pittorico. Vernissage che, se pur  datato,  non ha certo perso il  Suo fascino attraverso i mille anni di Storia   che   essi   hanno percorso. Volendo ammirare in uno sguardo d’insieme le due  realtà, mi reco in località Murgia Timone, un pianoro ove il   paesaggio  dei  Sassi   sembrerebbe quasi nascosto; infatti si intravedono solo le “dimore” del Sasso Caveoso, le  Chiese  Rupestri,  poste nella zona alta della Murgia ed il Sasso Barisano rimane nascosto ai miei occhi. Per poter gioire della vista globale di  questo unico e suggestivo Patrimonio dell’Umanità, devo attraversare un prato di asfodeli, alle cui basi si possono ammirare moltissime specie della macchia mediterranea erbacea originaria quale tarassaco, malva che  donano un aspetto variopinto al sentiero che mi conduce  sull’orlo della rupe, dalla quale ammiro un paesaggio,  talmente suggestivo da suscitare in me profonda commozione. Non so quanto sono rimasta davanti a tale quadro. Il Tempo si era fermato. In fondo alla valle correva, verso il mare, la Gravina”.

*Memoria di viaggio tratta dal testo di Carolina  Benincasa “Viaggio misterico nella magia della città dei sassi” edito  da Atrimedia (2011). Per gentile concessione dell’Autrice. Carolina Benincasa si è laureata in Economia. È docente di climatologia ed etnoantropologia presso l'Università Verde e di Geografia Economica negli Istituti Tecnici. È Autrice di articoli aventi per tema l’Archeologia industriale. Ha ricevuto premi internazionali per la  saggistica, la poesia e… la cucina, intesa come momento geo-etno-antropico e storico. È Consigliere Nazionale dell'Archeoclub. È presidente regionale e provinciale nella sede del capoluogo calabrese. È collaboratrice della  Sovrintendenza ai beni Archeologici e della Sovrintendenza ai Beni mobili ed immobili. È collaboratrice della Società Dante  Alighieri.

domenica 9 dicembre 2012

Sfogliature. 16 La menzogna in politica e il diritto alla verità.



La cattiva notizia alla fine c’è stata. Non rimane che apprestare le opportune difese. Ha scritto Adriano Prosperi sul numero 46 della rivista “Left” del 17 di novembre – “Un Paese illegale” -: (…). Con un decreto legge d’urgenza, il CAF (Craxi, Andreotti, Forlani) consegnò l’Italia alla Fininvest e l’illegalità divenne legale (…). Poi nell’aprile del 1993 un plebiscito referendario cancellava il sistema proporzionale e introduceva il sistema maggioritario. Un rimedio peggiore del male. (…). La strada era aperta all’avventura del partito-azienda di Berlusconi. (…). Un Paese che vedeva con favore chiudersi l’età  di Tangentopoli e aprirsi quella della libertà dalle leggi. (…). Nel 1991 un Norberto Bobbio ormai scorato scriveva: «La gestazione della seconda Repubblica, se dovrà nascere, sarà lunga. Ma poiché, se nascerà, nascerà con gli stessi uomini che non solo sono falliti ma sono inconsapevoli del loro fallimento, non potrà che nascere male, malissimo, come male, malissimo è finita la prima». (…). Sembra stia per ritornare “lo spirito del tempo”. Esisteva, nel tra-passato (elettronicamente parlando) blog, una sezione che aveva per titolo “Zeitgeist”, ovvero “lo spirito del tempo”, che è stata un'espressione creata nel tardo secolo decimonono per indicare la natura della cultura dominante in una certa era della Storia. Significato che, per un processo d’adattamento ai momenti storici che siano in corso, ha l’ambizione di definire l’aspirazione del presente come atto votato all'eternità. Tale sembra essere la rinnovata “scesa in campo” che la cattiva notizia ci ha portato, nonostante le disastrose prove d’inettitudine fornite nel governo della cosa pubblica. Scorrendo i fogli elettronici dell’e-book, salvato dal “naufragio” elettronico, ritrovo il post numero 48 di quella benemerita sezione – alle pagine 2.547-2.549, alla data del 31 di maggio dell’anno 2009 – che ha per titolo “La menzogna in politica e il diritto alla verità“. Qual è la verità che sta dietro la nuova “scesa in campo”? Lo ripropongo di seguito.

“Si crede in Italia che l’era di Berlusconi sia una particolarità, un’anomalia tipica del nostro paese. In realtà, essa è piuttosto tipica del nostro tempo. Le ideologie sono tramontate, le classi sociali sono sbiadite, ed emergono uomini politici di nuovo conio, scelti dagli elettori non tanto per quel che rappresentano, tanto meno per il partito che possono avere o non avere alle spalle, quanto per la loro personalità, per le loro promesse, per la loro forza di attrazione: possiamo dire per il loro carisma. È l’epoca, la nostra del populismo. (…). Nell’era del populismo, il leader proviene dal nulla e rappresenta solo se stesso”. Avete appena letto un altro brano tratto dall’ultimo lavoro di Piero Ottone – pagg. 166/167 - che ha per titolo “Italia mia”, lavoro edito da Longanesi. Ricordo di avere in altra occasione parlato del cosiddetto “mostro mite”, un’intelligente intuizione del sociologo Raffaele Simone, ovvero dell’attuale configurazione planetaria della destra rampante e vincente. A ben ragione anche l’illustre Piero Ottone, autore  del brano sopra riportato, parla di un’anomalia, anomalia che ha l’esatta misura in una configurazione delle compagini politiche oggigiorno vincenti che non è limitata geograficamente ma “è piuttosto tipica del nostro tempo”. Ed essendo in presenza di un’anomalia di fatto epocale, ci si misura quotidianamente con uno stravolgimento delle regole politiche e della stessa convivenza sociale con esiti che difficilmente, al momento, possono essere intuibili e valutabili. Al riguardo ne ha scritto da par Suo Stefano Rodotà sul quotidiano “la Repubblica” con un editoriale che ha per titolo “La menzogna in politica e il diritto alla verità”. Di seguito ne trascrivo le parti più salienti. Si è discettato nei giorni passati del limite pubblico/privato per un uomo che abbia scelto di “darsi alla politica”. Di darsi, e non tanto di uomo invocato da alcuno per una sua provvidenziale “discesa in campo”. Intelligenti pauca. Orbene, su quel limite è come discettare del sesso degli angeli. O meglio, con un ritornello sentito nella mia età più giovine, se venga prima l’uovo o la gallina. Irrisolvibile. Basterebbe ragionarci sopra per cogliere il capo della intricata matassa. Si ha un bel dire dai famigli del potente di turno che certe “cose” sarebbe cosa buona e giusta che restassero nella sfera del privato. Se tale ambito fosse stato il prediletto, in barba anche ad una funzione pubblica per la quale la ristrettezza del privato va necessariamente sacrificata, per quale motivo di difficile intuizione l’egoarca di Arcore ha costretto il vespide del piccolo mostro ad imbandirgli immantinente un’apparizione nel corso della quale ha riempito l’etere tutto di castronerie subito sbugiardate dalla libera stampa del bel paese? Castronerie divenute di dominio planetario. È come per il vescovo di Roma che, in quel d’Africa, ha avuto l’improntitudine di pronunciarsi su argomenti di non sua competenza pretendendo anche che la stampa dell’universo mondo tacesse sui suoi inqualificabili pronunciamenti. Lor signori ambiscono di utilizzare la grancassa dei media a tutto spiano, pretendendo al contempo di non esserne sbugiardati o quanto meno richiamati alla concretezza.

“(…). Quali sono i doveri dell´uomo pubblico? Quale dev´essere la sua moralità? Possono convivere vizi privati e pubbliche virtù? Può il politico coltivare la pretesa di stabilire egli stesso  fin dove può giungere lo sguardo dei cittadini? E soprattutto: qual è il rapporto tra verità e politica nel tempo della comunicazione globale? «La menzogna ci è familiare fin dagli albori della storia scritta. L´abitudine a dire la verità non è mai stata annoverata tra le virtù politiche e le menzogne sono state sempre considerate giustificabili negli affari politici». Così Hanna Arendt, che tuttavia in questa lunga abitudine non vedeva un dato da accettare in nome di un troppo facile realismo politico. Al contrario, contro la menzogna bisogna lottare non solo per la sua intrinseca immoralità, ma per i suoi effetti distruttivi proprio dello spazio della politica. Dove esiste un establishment, un ceto politico consapevole della necessità di mantenere la propria legittimità nei confronti dei cittadini, la pubblica menzogna sui propri fatti privati porta all´espulsione del mentitore. (…). Non un sussulto moralistico, ma l´affidabilità stessa del politico rende inammissibile la menzogna. Questo significa che parlare del rapporto tra menzogna e politica esige distinzioni. Vi è la menzogna in nome della salute della Repubblica, quella su vicende private del politico, quella che vuol salvaguardare uno spazio di intimità di cui nessuno può essere espropriato. Né il primo, né l´ultimo caso possono essere invocati nella vicenda che coinvolge Silvio Berlusconi. Per quanto sia divenuta totalizzante l´identificazione sua con i destini del paese, non si può certo ritenere che il suo parlar franco sui rapporti con una giovane ragazza metta a rischio il sistema politico italiano. Al contrario, proprio le sue reticenze, i silenzi e le contraddizioni stanno producendo effetti perversi nella sfera pubblica. La difesa della privacy, il rifiuto di una politica fatta di un guardare nel buco della serratura? Chi ragiona in questo modo sembra ignorare il modo in cui la vicenda è stata resa pubblica, la denuncia circostanziata e impietosa di Veronica Lario, i suoi diretti riferimenti politici. Lì si parlava della figura pubblica di Berlusconi, non di qualche pettegolezzo privato. Da decenni, peraltro, è cosa nota e consolidata che i politici godono di una più ridotta aspettativa di privacy, proprio perché la decisione di vivere in pubblico e di gestire la cosa pubblica impone loro di rendere possibile una conoscenza ampia e una valutazione continua proprio da parte di quei cittadini al cui giudizio il presidente del Consiglio sembra tenere tanto. Chi, allora, ha diritto alla verità? (…). Molte volte si è sottolineato che le procedure di occultamento della verità hanno sempre accompagnato i regimi totalitari, mentre l´accesso alla verità è sempre stato una prerogativa delle libere assemblee, a partire dalla democrazia di Atene. Il diritto alla verità, in questo caso più che mai, è diritto di tutti. È stato proprio il presidente del Consiglio a rendere ineludibile la questione con le sue reticenze, le doppie versioni, il distogliere lo sguardo da fatti incontestabili. Il suo rifiuto di rispondere a domande specifiche, e tutt´altro che pretestuose proprio perché riferite a dati precisi, assomiglia assai a quella facoltà di non rispondere di cui giustamente può giovarsi l´indagato o l´imputato. (…). Una menzogna può acquietare i fedeli di un politico, ma lo spinge a rinserrarsi nel suo campo trincerato, corrode la fiducia dei cittadini in un tempo in cui proprio la produzione di fiducia è considerata un elemento indispensabile per restituire alla politica un vero consenso. Non è il moralismo a spingere verso questa conclusione, anche se oggi soffriamo proprio di un deficit spaventoso di moralità pubblica. La democrazia, ricordiamolo, non è solo governo del popolo, ma governo in pubblico. Qui, in questa semplice e profonda verità, sta l´inammissibilità della menzogna in politica, che si trasforma proprio nella pretesa di non rendere conto dei propri comportamenti da parte di chi ha liberamente scelto di uscire dal rassicurante spazio privato per essere protagonista nello spazio pubblico.”

giovedì 6 dicembre 2012

Storiedallitalia. 32 Il “pasticciaccio” dell’irto colle.



Vi è stato il tempo del “pasticciaccio” di Via Merulana. È questo il tempo del “pasticciaccio” del cosiddetto colle del Quirinale. E tutto rotola di “pasticciaccio” in “pasticciaccio”. Nel bel paese. È che il primo lo si deve alla fervida fantasia dell’Emilio Gadda. Quest’ultimo lo dobbiamo all’imperativo primo degli abitatori del bel paese – “tengo famiglia” - per i quali tutto ne segue. Soccorrono i laudatori ed i turiferari che reggono alto il turibolo per incensare meglio. Accade così che si tenti di trasformare un affare del “tengo famiglia” in un attentato agli organi costituiti. In uno stravolgimento istituzionale. Un colpo di stato. Bum! L’ho di già scritto tante altre volte. Scrive Gianluigi Pellegrino sul quotidiano la Repubblica: (…). Il Presidente della Repubblica non è sovraordinato, ma si colloca all’esterno dei tre poteri ed è chiamato dalla Costituzione a sorvegliare che il reciproco controllo e quindi il reciproco equilibrio tra loro, sia il più pieno e completo. Per questo suo ruolo unico di garanzia, le funzioni del Capo dello Stato non sono mai sindacabili da alcuno dei poteri, e rimesse alla sola Corte costituzionale in due eccezionali ipotesi. (…). Ma quale equilibrio istituzionale, mio buon dio, veniva salvaguardato con le telefonate intercettate? Quale esercizio della funzione veniva esplicato nel corso di esse? Si allibisce. Si trasecola. Scrive sull’argomento Marco Travaglio – “il Fatto Quotidiano”, “Stato di rovescio” -: (…). Nessuno nota (…) l’imbarazzato e imbarazzante eloquio del comunicato della Corte là dove scrive, copiando paro paro dalla memoria dell’Avvocatura dello Stato, che “non spettava alla Procura di Palermo di omettere di chiedere al giudice l’immediata distruzione” delle quattro telefonate incriminate. Perché i supremi giudici non hanno scritto che “spettava alla Procura di Palermo chiedere al giudice l’immediata distruzione”? Forse perché sanno benissimo anche loro che non esiste alcuna norma, ordinaria o costituzionale, che lo preveda. Chi agisce male, pensa male e scrive anche peggio. Che cosa penserebbe una ragazza se il suo fidanzato, anziché “ti amo”, le dicesse “non spetta a me omettere di amarti”? (…). Stanno così le cose in questo disastrato paese. In un altro “pasticciaccio” – in un famoso lodo – venne fuori che il pronunciamento di un organo giudicante del bel paese fosse preso “paro paro” dagli appunti vergati in uno studio privato di una delle parti in causa. Tale è l’ignonimia che regna diffusa nel bel paese. E c’è pure chi oggi asserisce di vedere il trionfo del buon diritto che sconfigge la cosiddetta antipolitica. È un imbroglio: l’antipolitica è la pratica in uso dalla politica condotta con altri mezzi. Ovvero dalla cattiva politica. Scrive Franco Cordero – la Repubblica, “La geometria del diritto” -: (…). Dall’estate pendeva un ricorso del Quirinale davanti alla Consulta, contro i pubblici ministeri palermitani in una causa assai grave, dove s’intravedono fondi cupi della recente storia d’Italia. (…). La Corte doveva scovare nella Carta un equivalente dell’art. 4 Statuto albertino («la persona del Re è sacra e inviolabile»). Solo così il Presidente non sarebbe mai ascoltabile, fuori della cerchia in cui parla, salvo che vi consenta graziosamente: (…). Trovare la norma ossia cavarla dal testo, perché vigono solo fonti scritte, era compito erculeo: non esistono testi adoperabili a tale fine; e l’arte ermeneutica ha delle regole. Dal fatto che il Presidente non risponda penalmente degli atti d’ufficio (art. 90 Cost.) non è seriamente arguibile il tabù su emissioni verbali private (...); né possiamo arguirlo dalle funzioni enumerate nell’art. 87; chi lo tenti cade nel vaniloquio. (…). La Carta è muta in proposito e i lavori preparatori non lasciano dubbi sul disegno dei costituenti: avevano in mente una figura laica, senza cascami d’ancien régime; gli negano l’immunità processuale che, senza fondamento, l’attuale capo dello Stato rivendica. Le prerogative esistono in quanto una norma le definisca. Non hanno più corso i misteri covati dalla ragion di Stato (…) ed è manovra reazionaria ogni tentativo d’esumarli. I deliberanti devono essersene resi conto, perché muovono un passo laterale puntando sull’art. 271 c.p.p. Infelice mossa del cavallo. L’art. 271 contempla due casi diversi dal nostro: intercettazioni illegalmente eseguite (comma 1); e quando parli un obbligato al segreto (c. 2). Qui nessuna norma codificata vietava l’ascolto, né esistevano segreti (il conversante avrebbe guadagnato simpatia politica svelando i contenuti, anziché nasconderli strenuamente, con qualche gesto eccepibile: ad esempio, attribuendosi inesistenti poteri da organo censorio d’atti giudiziari). L’art. 271 non detta divieti, li presuppone, stabiliti altrove, e l’unica fonte possibile è la Carta, nella quale non ne esiste nemmeno l’ombra. Afferma in proposito il professor Alessandro Pace – “il Fatto Quotidiano”, “Ma il Gip non è obbligato a distruggere quelle bobine” di Silvia Truzzi - che ha difeso la Procura di Palermo dinnanzi alla Consulta: - La mia opinione di studioso, e dico “di studioso”, è nel senso che né l’uno né l’altro comma potessero applicarsi alla specie. Non il secondo comma perché non sussiste l’eadem ratio per sostenere che nella specie vi possa essere un’analogia tra il Capo dello Stato e un avvocato e un sacerdote; ma nemmeno il primo comma, nel quale si parla di “casi non consentiti di intercettazioni”. Esiste bensì il divieto di intercettazioni “dirette” a danno del Presidente della Repubblica nell’art. 7, 3°comma, della legge 219/1989, ma non esiste nel nostro ordinamento alcun divieto d’intercettazioni indirette. Lo ha detto la stessa Corte Costituzionale nella sentenza 390/2007 con riferimento alle intercettazioni dei parlamentari interpretando l’art. 68 Cost. E lo si deve ripetere anche per il citato art. 7, per la semplice ragione che le intercettazioni casuali costituiscono un fatto fortuito, e i fatti fortuiti non possono essere né imposti né vietati. Se ne possono disciplinare le conseguenze, ma non i fatti in sé e per sé -. È questo lo stato dell’arte nel bel paese. Continua a scrivere il professor Cordero, impareggiabile erudito in materia costituzionale: Pour cause i comunicanti tacciono sull’art. 7, l. 5 giugno 1989 n. 219, invocato dal Quirinale: «I provvedimenti che dispongono intercettazioni» sono ammessi solo nei confronti del sospeso dalla carica; non è norma applicabile qui (non era lui l’intercettato, né pendono accuse votate dal Parlamento in seduta comune). Vale il regime delle voci fortuitamente colte, non equiparabili all’intercettazione mirata (le distingue l’art. 6 l. 20 giugno 2003 n. 140 a proposito dei parlamentari). (…). Meno forbito, il comunicato esige l’immediata distruzione dei materiali sacrileghi (…): la ordini il giudice, e sia eseguita clandestinamente; nessun estraneo deve vedere o udire, meno che mai gl’interessati al processo. Non stupisce sentirlo dal soi-disant inviolabile, ma sono parole della Corte chiamata a custodire le norme fondamentali, quasi avesse dimenticato gli artt. 24 («la difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado») e 111 Cost., dove il contraddittorio figura due volte, requisito immanente. (…). Abbiamo sotto gli occhi una decisione esemplare, in senso negativo, rincresce dirlo: vi spirano nostalgie del segreto; sottintende la mistica delle prerogative; tira in ballo un inesistente limite istruttorio (art. 271 c.p.p.); e incredibile, viola norme costituzionali sul contraddittorio. Ormai sa d’ipocrisia aspettare i motivi: quando anche li compili un mago dialettico, il quadro resta; quel comunicato chiude la Corte in gabbia. Fossero in ballo interessi disponibili, diremmo: ogni tanto capita; non era buona giornata. Stavolta l’evento pesa in sede culturale e politica. Era l’ultimo accidente augurabile all’Italia devastata dai quasi vent’anni d’egemonia berlusconiana. Ritorno al professor Pace. Domanda Silvia Truzzi: Vuol dire che i pm avrebbero dovuto staccare il registratore non appena riconosciuta la voce di Napolitano? - Significa proprio questo. Il che urta però con la consolidata giurisprudenza della nostra Corte di Cassazione secondo cui è legittima la captazione accidentale di una conversazione rilevante come notitia criminis o come prova in un processo penale. Mi chiedo: e se in un futuro lontano venisse casualmente intercettato il Presidente della Repubblica le cui parole facciano sospettare l’esistenza di fatti configurabili come alto tradimento o attentato alla Costituzione nei quali egli sia implicato, cosa dovrebbe fare il pm? Distruggere seduta stante il file e dimenticare l’accaduto? -. Semplicemente è questa l’arte dell’antipolitica nel bel paese. Sol che se ne voglia accettare l’esistenza, ma a ruoli rovesciati: ove l’antipolitica è la cattiva politica condotta con simili ed altri sinistri mezzi.

mercoledì 5 dicembre 2012

Sfogliature. 15 Un pasticciaccio brutto assai.

Ove vuol dimostrarsi la ripetitività delle cose “storte” nelle vicende degli umani. Laddove mi soccorre l’e-book di quello che è stato questo blog che alle pagine 971 e seguenti, di quella che fu la rubrichetta “Memorie del tempo”, annota il post del 26 di luglio dell’anno 2007 che ha per titolo “Un pasticciaccio brutto assai”. Brutto prima ma ancor più brutto dopo la sentenza della Consulta suprema. Registra “il Fatto Quotidiano” la sentenza con un editoriale – senza firma - che ha per titolo “Una Corte cortigiana”: Dalle motivazioni della sentenza si capirà come abbia potuto la Consulta accogliere un conflitto di attribuzioni cervellotico, protervo e infondato come quello sollevato dal capo dello Stato contro la Procura di Palermo. Dal comunicato emesso ieri dopo 4 ore di Camera di Consiglio (…), si desume solo che si è deciso di piegare una norma pensata per tutt’altre evenienze al caso che tanto angustia Napolitano: la captazione casuale, anzi inimmaginabile di 4 sue telefonate sulle utenze intercettate di Nicola Mancino, un privato cittadino coinvolto nelle indagini sulla trattativa Stato-mafia. L’art. 271 del Codice di procedura non c’entra nulla col capo dello Stato: riguarda le intercettazioni fuorilegge o quelle di conversazioni che svelino “fatti conosciuti per ragione del ministero, ufficio o professione” della persona ascoltata (il difensore che parla col cliente, il confessore col penitente). (…). Non resta, purtroppo, che ricordare l’oracolo del presidente emerito Gustavo Zagrebelsky su Repubblica: “L’esito è scontato”. (…). Ecco: da ieri abbiamo una Corte cortigiana.

Trascrivo da “Quel pasticcio del codice” di  Franco Cordero pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del  25 di luglio dell’anno domini 2007. È il Franco Cordero celeberrimo autore de “L’armatura”, più volte riportata. Elucubra da par suo, come il suo Fert  dottore in filosofia. Ma su di un fatto reale, dell’oggigiorno. Soccorre con il suo elucubrare il popolo elettore minuto in fatto di giuridiche elucubrazioni; cose da dotti, da azzeccagarbugli di manzoniana memoria. Ci si affida semplicemente e consapevolmente ad un Maestro di tale portata. È che un certo popolo elettore minuto ignaro delle cose del potere non avrebbe pensato mai e poi mai di doversi rivoltolare in simili pasticci, come ai tempi di un egoarca che fu. A quel popolo minuto era stato fatto credere che passati i tempi di un egoarca che fu non si sarebbero alzati lai, e voci irate e lamentevoli, ed assurde recriminazioni degli addetti sempiterni del potere all’indirizzo di un altro potere. Passano i tempi, si perdono i peli superflui ma non i vizi. Antico detto piegato al caso pietoso. Vizi. Ovvero il vizio per eccellenza; la difesa strenua del proprio potere, come ricevuto da investimento divino. Unti per sempre. Cose d’altri tempi, e non tanto dei tempi di un egoarca che fu, quanto di un medioevo scuro scuro. Da “inquisizione” di un potere contro un altro potere. Assurdo. Trascrivo a favore del popolo elettore minuto che si rivoltola inquieto assai per il pasticciaccio brutto.

 “(…). La storia risale all´art. 68 Cost., riscritto dalla l. 29 ottobre 1993 n. 3: il parlamento godeva d´un diritto d´asilo; i suoi componenti non erano giudicabili senza il voto affermativo della Camera competente. Adesso lo sono ma, siccome gli unti dal popolo hanno sangue blu, la nuova norma subordina le intercettazioni al voto camerale. Tanto vale impedirle: l´espediente investigativo riesce utile finché chi parla non sappia d´essere ascoltato; qui era clamorosamente avvertito. Insomma, fin quando l´assemblea non lo conceda, nessuno controlla i loro apparecchi: se però, in vena garrula, entrano nello spazio acustico altrui, legittimamente sorvegliato, imputent sibi (incredibile quanto ciarlino); un´altra volta siano più cauti. Così ragionano gli assuefatti al discorso serio: l´assemblea accorda licenze d´ascolto, permettendo atti da compiere, mentre qui risultano compiuti; sarebbe un permesso d´usare materiali bene raccolti; in tal senso Montecitorio s´arroga anomali poteri autorizzativi nei tardi anni Novanta, perché la XIII legislatura, dominata dal centro-sinistra, incuba già filosofemi berlusconiani. Il fiore velenoso sboccia sub divo Berluscone: l. 20 giugno 2003 n. 140, dichiarata invalida dalla Consulta nella parte in cui contemplava un´assurda immunità processuale dei cinque presidenti; l´interessato era lui. L´art. 6 regola l´uso del materiale ritualmente intercettato dove risuonino ugole parlamentari: l´ipotesi auspicabile è che il gip, anche su istanza delle parti (possibile quindi l´intervento ex officio), lo ritenga irrilevante; allora ordina che sia distrutto (comma 1); se però una parte vuol usarlo e udite le altre, lui reputa adoperabili i discorsi de quibus, chiede il permesso alla Camera competente (commi 2-3); negato il quale, l´intero reperto (dischi, nastri, verbali, tabulati) va distrutto al più tardi nei 10 giorni (c. 5). Siamo in piena teratologia, la scienza dei mostri: norma indecorosa, scritta con i piedi, grossolanamente invalida; è facile previsione che tale sia dichiarata dalla Corte costituzionale. I lettori inesperti possono rendersene conto da un esempio. N e P, boss mafiosi, conversano sul filo o nell´etere con Q, eletto dal popolo (è ingenuo presupporre che le cosche non abbiano chi le tutela dai banchi): rievocano delitti su cui l´inquirente s´era affaticato invano; salta fuori l´organigramma dei mandanti, consiglieri, gestori, manovali. Sia lodato Iddio, caso risolto, purché l´assemblea accordi il permesso d´usare le sante parole: se lo nega con l´argomento insindacabile del fumus persecutionis, va tutto al diavolo; siccome una norma matta estende l´immunità processuale ai collocutori, N e P vengono assolti. Cose da burla macabra. L´ignaro domanda perché gli autori dello scempio abbiano chiamato alla ribalta il gip: figura innaturale; è il pubblico ministero che raccoglie le prove d´accusa. Risposta ovvia: nella cultura berlusconiana, condivisa da settori nel centrosinistra, i requirenti sono belve in cerca d´una preda, finché non abbiano carriera separata agli ordini del governo, e quale castigamatti, riappare il giudice istruttore. Ma il contrappasso batte colpi anche fuori dell´inferno dantesco: i soi-disant garantisti evocavano un gip spegnitore; stavolta dà fuoco lui alle polveri. L´anomalia allignava già nel codice, in barba alla logica accusatoria: non s´erano mai visti termini oltre i quali l´organo requirente debba astenersi dall´indagare, sotto pena d´inefficacia dell´atto compiuto; il legislatore 1989 li impone; e affida al giudice l´eventuale riapertura; scelta insindacabile (artt. 405-7 e 414 c.p.p.). Il caso del quale sono piene le cronache, dunque, è attribuibile al legislatore calamitosamente pasticheur. Definiamolo in chiave tecnica, fuori dall´alluvione retorica. La Camera bassa ha ricevuto l´ordinanza: erano e sinora restano estranei al procedimento gli onorevoli le cui parole il giudice ritiene utili; l´organo requirente non li ha iscritti né indaga nei loro confronti; qui appare due volte assurdo che l´uso delle prova dipenda dall´assenso assembleare; infatti, stiamo parlando d´una norma invalida. Senonché quel giudice afferma l´ipotetica responsabilità dei predetti. In quale conto tenere i relativi argomenti? Nell´attuale contesto, nessun conto: sono dei flatus vocis, come scrivevano filosofi medievali nelle dispute sui nomi; opinioni irrituali; non era affare suo disquisirle lì. Ma ha scritto quel che pensa. L´atto configura una denuncia obbligatoria (art. 331, illo tempore chiamata rapporto): il pubblico ministero, suo destinatario, la iscrive nel registro (art. 335) e indaga; indi chiede il processo o l´archiviazione (art. 408); se il gip gliela nega, malgré lui formula l´imputazione, essendovi obbligato (art. 409, c. 5). La parola passa a Montecitorio. Il partito blu s´è schierato: B. offre largo e micidiale compatimento agli esponenti Ds condolendosi dell´attacco sferrato in spregio alle regole; vittime come lo era lui; nel nome d´una buona giustizia e buona politica, i profondi pensatori d´Arcore invocano il ripristino dell´immunità parlamentare, abolita 14 anni fa, affinché le Camere ridiventino asilo d´impuniti (i napoletani dell´età barocca lo chiamavano confugio, nome pittoresco). Come voteranno i partiti del centrosinistra? L´unica risposta pulita è sì, senza clausole: se il pubblico ministero ritiene sostenibile l´ipotesi d´una corresponsabilità e l´udienza preliminare porta al dibattimento, tribunale e corti diranno quanto fondamento abbia; frapporre ostacoli sarebbe ignobile e politicamente stupido. Gl´italiani sensibili al bisogno d´un minimo etico nella cosa pubblica non hanno combattuto la pirateria berlusconiana per installarne una solidale, pseudoliberal-bolscevica. Ma povera procedura penale, contraffatta da ignoranti chierici del garantismo bicamerale. “

venerdì 30 novembre 2012

Strettamentepersonale. 7 Se la crescita non basta più.



(…). La crescita non è una scelta ma una condizione obbligata per la sopravvivenza del sistema capitalistico: venuta meno questa condizione, la sua rapida ripresa è diventata un’invocazione corale. Ma esistono dei forti dubbi che la crescita possa rappresentare l’unica soluzione dei nostri problemi in quanto un’espansione quantitativa senza limiti così come l’abbiamo conosciuta dalla rivoluzione industriale non appare sostenibile. Così scrivono Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini sul quotidiano la Repubblica del 9 di novembre – “Se la crescita non basta più” -. Debbo questo post a M.B., negli occhi della quale ho visto, nell’ultimo nostro fuggevole incontro, lo sgomento e la paura. Lo sgomento suo che penso sia comune a tutti gli operatori economici e commerciali in questo periodo di difficilissima navigazione all’interno della “grande crisi”. È la prima volta che mi viene di aggettivarla, la crisi intendo dire. Dicevo della paura che ho visto negli occhi della carissima amica di una vita; la paura di un passo indietro che riporti una grossa fetta della società alle soglie della povertà. Donde quella paura vista in quello sguardo suo mi spinge a parlare di “grande crisi”, per l’appunto. E dalle parole sue disperate e come senza speranza alcuna ho potuto cogliere anche una punta di astio verso tutti coloro che, al pari dei due estensori della nota, auspicano che l’uscita della crisi sia diversa nelle quantità economiche ma anche e soprattutto nelle percezioni e nei nuovi atteggiamenti che i consumatori in quanto tali dovranno necessariamente fare propri. Urgono nuovi atteggiamenti e nuovi comportamenti, più responsabili e più consapevoli. Continuano a scrivere Giorgio Ruffolo e Stefano Sylos Labini: Ricordiamo che prima dell’attuale crisi l’economia mondiale si sviluppava a un tasso medio che, se estrapolato fino al 2050, l’avrebbe moltiplicata per 15 volte; se prolungato fino alla fine del secolo, di 40 volte. E sappiamo che la crescita comporta un incremento della popolazione, che oggi è pari a circa 6,5 miliardi di persone e nel 2050 dovrebbe toccare i 9 miliardi. Riproponiamo dunque la domanda: è concepibile un’economia capace di una crescita continua? Per noi la risposta è senza alcun dubbio negativa perché la crescita sta determinando un’imponente distruzione di risorse naturali. Ne deriva che il rilancio della crescita può rappresentare una fase, non uno stato permanente dell’economia, e che agli economisti toccherebbe il compito di rispondere alla domanda: esistono altre forme di economia che possano fare a meno della crescita senza farci ricadere nella povertà? È possibile “una prosperità senza crescita” (…)? Da tempo economisti e scienziati si sono impegnati nel compito di immaginare quali dovrebbero essere le linee portanti di un nuovo modello di sviluppo dell’economia in senso ecologico e, soprattutto, di un nuovo modello ideologico. Crediamo che sia giunto il momento di passare dall’economia della competizione a una nuova economia della cooperazione: la competizione sempre più spinta ha prodotto un’età della crescita che è oramai degenerata in un’età della distruzione. Nuove forme di cooperazione potrebbero, invece, condurci verso un’età di rinnovato benessere. (…). Ciò significa passare dalla quantità alla qualità, da un concetto di “maggiore” a uno di “migliore”, dall’espansione illimitata all’equilibrio dinamico. (…). Un processo di riconversione ecologica dell’economia richiede nuovi indicatori e nuovi strumenti di misura delle performance economiche, sociali e ambientali. Occorre superare il Pil che rappresenta il valore monetario dei beni e servizi scambiati sul mercato. Il prodotto interno lordo si è rivelato molto utile nel misurare la crescita quantitativa, ma ha via via perso di efficacia nelle economie postindustriali dove è cresciuto il peso dei servizi immateriali e delle attività di carattere sociale, dove la qualità del prodotto e la produzione di nuovi prodotti hanno assunto maggiore importanza e dove le tematiche relative all’ambiente sono diventate sempre più centrali nelle scelte di vita di un gran numero di persone. Inoltre, il Pil ignora completamente il fatto che la crescita dell’economia è strettamente associata con il consumo delle risorse che quindi tendono ad esaurirsi. Non solo i combustibili fossili, ma anche le foreste, il suolo coltivabile, i metalli ed altre materie prime. Infine, il Pil non conteggia la produzione di rifiuti, l’inquinamento, le emissioni di anidride carbonica, la disponibilità di acqua dolce, il livello di istruzione. Se tutto ciò venisse incluso nella stima del Pil constateremmo che le nostre società non si stanno più arricchendo ma si sono incamminate lungo un percorso di impoverimento sociale, economico e ambientale. Per uscire dalla crisi, dunque non basta semplicemente rilanciare la crescita, ma è necessario concepire un nuovo modello di sviluppo ecologico e cooperativo ed elaborare nuovi indicatori che siano in grado di misurare realmente la ricchezza prodotta e le risorse consumate a livello globale. Spero che M.B., abituale ed attenta lettrice delle cose che vado proponendo su questo blog, legga con attenzione le sagge parole dei due illustri Autori e voglia ammainare la sua animosità verso tutti coloro, me compreso, che sono dell’idea di uno sviluppo, di una crescita che siano diversi e più adeguati e rispettosi dell’equilibrio dinamico della troposfera. Senza una consapevolezza nuova grandi disastri ci attendono che supererano di gran lunga, per gli effetti che essi dispiegheranno, i disastri economici e finanziari prodotti dalla “grande crisi” che stiamo vivendo.  Ha scritto il filosofo francese Serge Latouche – la Repubblica del 14 di settembre 2012 – in un Suo editoriale che ha per titolo “Facciamo economia”: Viviamo in una società della crescita. Cioè in una società dominata da un'economia che tende a lasciarsi assorbire dalla crescita fine a se stessa, obiettivo primordiale, se non unico, della vita. Proprio per questo la società del consumo è l'esito scontato di un mondo fondato su una tripla assenza di limite: nella produzione e dunque nel prelievo delle risorse rinnovabili e non rinnovabili, nella creazione di bisogni - e dunque di prodotti superflui e rifiuti -  e nell'emissione di scorie e inquinamento (dell'aria, della terra e dell'acqua). Il cuore antropologico della società della crescita diventa allora la dipendenza dei suoi membri dal consumo. (…). Per usare una metafora siamo diventati dei "tossicodipendenti" della crescita. (…). Un meccanismo che tende a produrre infelicità perché si basa sulla continua creazione di desiderio. Ma il desiderio, a differenza dei bisogni, non conosce sazietà. Poiché si rivolge ad un oggetto perduto ed introvabile, dicono gli psicoanalisti. (...). …la ridefinizione della felicità come "abbondanza frugale in una società solidale" corrisponde alla forza di rottura del progetto della decrescita. Essa suppone di uscire dal circolo infernale della creazione illimitata di bisogni e prodotti e della frustrazione crescente che genera, e in modo complementare di temperare l'egoismo risultante da un individualismo di massa. (…). L'abbondanza consumista pretende di generare felicità attraverso la soddisfazione dei desideri di tutti, ma quest'ultima dipende da rendite distribuite in modo ineguale e comunque sempre insufficienti per permettere all'immensa maggioranza di coprire le spese di base necessarie, soprattutto una volta che il patrimonio naturale è stato dilapidato. Andando all'opposto di questa logica, la società della decrescita si propone di fare la felicità dell'umanità attraverso l'autolimitazione per poter raggiungere l'"abbondanza frugale". (…). Jean Baudrillard lo aveva ben visto a suo tempo quando disse che "una delle contraddizioni della crescita è che produce allo stesso tempo beni e bisogni, ma non li produce allo stesso ritmo". Ne risulta ciò che egli chiama "una depauperizzazione psicologica", (…). La vera povertà risiede, in effetti, nella perdita dell'autonomia e nella dipendenza. Un proverbio dei nativi americani spiega bene il concetto: "Essere dipendenti significa essere poveri, essere indipendenti significa accettare di non arricchirsi". Siamo dunque poveri, o più esattamente miseri, noi che siamo prigionieri di tante protesi. La crescita del benessere (del “ben” “essere” e non degli oggetti che non consentono di “essere, di stare bene al mondo” n.d.r.) è dunque la strada maestra della decrescita, poiché essendo felici si è meno soggetti alla propaganda e alla compulsività del desiderio. (…). Mi ricordo ancora la mia prima arancia, trovata nella mia scarpa a Natale, alla fine della guerra. Mi ricordo anche, qualche anno più tardi, dei primi cubetti di ghiaccio che un vicino ricco che aveva un frigorifero ci portava le sere d'estate e che noi mordevamo con delizia come delle leccornie. Una falsa abbondanza commerciale ha distrutto la nostra capacità di meravigliarci di fronte ai doni della natura (o dell'ingegnosità umana che trasforma questi doni). Ritrovare questa capacità suscettibile di sviluppare un'attitudine di fedeltà e di riconoscenza nei confronti della Terra-madre, o anche una certa nostalgia, è la condizione di riuscita del progetto di costruzione di una società della decrescita serena, come anche la condizione necessaria per evitare il destino funesto di un'obsolescenza programmata dell'umanità. Dedicato a M.B., operatrice commerciale in ansia, che mi è molto cara. 

mercoledì 28 novembre 2012

Dell'essere. 9 Adolescenza infinita.



E poi ci sarebbe l’adolescenza. Una fase che dovrebbe essere ben delimitata nella vicenda terrestre degli umani. È che quella fase sembra oggigiorno non finire mai. Almeno per gli umani delle recenti generazioni cresciute nel bel paese. “Bamboccioni” per alcuni, “choosy” per l’ultima detta dalla Fornero che piange, se ne adontano molto. Perché mai? Cosa fanno per non meritarsi aggettivazioni di quel tipo? In verità credo ben poco – salvando i pochi, anzi i pochissimi che ci provano -. I segnali premonitori non sono mancati negli anni. Ce li ha forniti come sempre la “cattiva maestra” – secondo Popper -, madama la televisione. Che ha fatto abbondantemente ricorso ai “bamboccioni”, trentenni o quarantenni ed anche oltre nell’anagrafe, che negli spot si dilettano, gigioneggiano, fanno il “cascamorto” con il telefonino ultimo grido, o con qualsivoglia altro inutile oggetto di consumo che la televisione volesse imporre tra i desideri insopprimibile e/o le aspirazioni del suo non catafratto pubblico. Colpa della televisione allora? E perché no, colpa della scuola, tanto va di moda! La colpa a chi? Ha scritto Giacomo Papi sul numero del settimanale “D” del 10 di novembre scorso – “Adulti che non aiutano a crescere” -: (…). Negli ultimi decenni del secolo scorso tutti i bambini smisero, all'improvviso, di andare a scuola da soli. Prima era normale già in seconda elementare. Poi arrivò l'epidemia. Rispondendo a un'oscura chiamata culturale, i genitori decisero in massa che era troppo pericoloso, che c'erano troppe automobili in giro e troppi pedofili in agguato, (…). In realtà, i pericoli non erano aumentati e il tempo per i figli, mediamente, non era diminuito. A essere cambiata era la percezione degli adulti. Era aumentata la paura. I bambini incominciarono ad apparire creature fragili, incapaci di difendersi e diventare libere e autonome. Esseri viventi incapaci, letteralmente, di crescere. (…). L'allungamento della vita media deforma le età. Stiracchia in una post adolescenza infinita il periodo che va dai 20 ai 30 anni e rimanda la vecchiaia oltre i 70. Rende genitori e figli per sempre. (…). È in atto un innamoramento collettivo per le creature che rimangono piccole. Il sogno del cucciolo eterno. La nostra idea dell'infanzia è un tassello di un processo che iniziò con la moda dei bonsai, gli alberelli giapponesi che non crescono, ed esplode, oggi, per esempio, con l'invasione dei chihuahua. Ma se si rimane piccoli è per soddisfare una precisa richiesta sociale, una esigenza profonda dei grandi. Protrarre all'infinito la dipendenza dei figli è, infatti, prima di tutto, una strategia di auto-gratificazione e rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a sentirsi utili, anzi indispensabili, in un universo che sembra sempre in procinto di fare a meno di noi. Mi sento di condividere l’analisi sempre puntuale e precisa di Giacomo Papi. Alla quale analisi mi sento di affiancare la riflessione di un uomo di scienza, lo psicoanalista lacaniano Massimo Recalcati, riflessione pubblicata sul quotidiano la Repubblica – “Adolescenza infinita”, 6 di ottobre 2012 -. Scrive l’illustre Autore: (…). Ricordo un mio vecchio maestro elementare che aveva il vizio di riproporre in modo assillante una metafora educativa tristemente nota: "Siete come viti che crescono storte, curve, arrotolate su loro stesse. Ci vuole un palo e filo di ferro per legare la vite e farvi crescere diritti". In un passato che ha preceduto la contestazione del '68 il compito dell'educazione veniva interpretato come una soppressione delle storture, delle anomalie, dei difetti di cui invece è fatta la singolarità della vita. Oggi questa metafora non orienta più - meno male - il discorso educativo. Oggi non esistono più - meno male - pali diritti sui quali correggere le storture delle viti. Il problema è diventato quello dell'assenza di cura che gli adulti manifestano verso le nuove generazioni, lo sfaldamento di ogni discorso educativo che l'ideologia iperedonista ha ritenuto necessario liquidare come discorso repressivo. E qui l’illustre Autore sembra concordare in pieno con l’opinionista Giacomo Papi laddove lo stesso scriveva, a proposito delle cosiddette “cure parentali”, che esse sono, o rappresentano “prima di tutto, una strategia di auto-gratificazione e rassicurazione dei genitori, un modo per continuare a sentirsi utili, anzi indispensabili”. E di mio ci aggiungerei anche la tendenza da parte degli adulti a non differenziarsi di molto  dai pargoli loro affidati, in nome di un falso, consumistico “giovanilismo” che li conduce irrimediabilmente a confondere ruoli e competenze derivandone una deresponsabilizzazione non percepita nella giusta misura. Scrive infatti Massimo Recalcati: Non che gli adulti in generale non siano preoccupati per il futuro dei loro figli, ma la preoccupazione non coincide col prendersi cura. I genitori di oggi sono, infatti, assai preoccupati, ma la loro preoccupazione non è in grado di offrire sostegno alla formazione. Quello che dobbiamo constatare con amarezza è che il nostro tempo è marcato da una profonda alterazione dei processi di filiazione simbolica delle generazioni. Come in una sorta di Edipo rovesciato sono i padri che uccidono i loro figli, non lasciano il posto, non sanno tramontare, non sanno delegare, non concedono occasioni, non hanno cura dell'avvenire. La vita dei nostri figli è aperta ad un sapere senza veli - quello delle rete per esempio - ma anche quello relativo al mondo degli adulti una volta impermeabile ad ogni domanda, mentre oggi ridotto ad un gruviera: i figli sanno tutto dei loro genitori anche quello che sarebbe meglio non sapessero. L'alterazione del rapporto tra le generazioni passa anche da qui; i figli hanno accesso senza mediazioni culturali ad un sapere senza confini e diventano i confidenti dei genitori e delle loro pene. Anziché potere appoggiare la loro vita su quella dei propri genitori, seguono per lo più attraverso le vite da adolescenti di chi dovrebbe prendersi cura delle loro vite. Una pesante responsabilità di scelta attende i nostri giovani non essendo più la loro vita vincolata ai binari immutabili della tradizione e della trasmissione familiare. È, come direbbe Bauman, la condizione liquida delle nuove generazioni. Sempre meno esse si trovano a proseguire sulle orme dei loro familiari e sempre più si trovano  - nel bene e nel male - obbligate ad inventare un loro percorso originale di crescita. (…). L'iperedonismo contemporaneo ha scomunicato il compito educativo come una cosa per moralisti. Di conseguenza, la libertà si è ridotta a fare quello che si vuole senza vincoli né debiti. Ma intanto il debito cresce e ha sommerso le nostre vite e l'assenza di senso della Legge ha spento la potenza generativa del desiderio. E allora la libertà non genera alcuna soddisfazione ma si associa sempre più alla depressione. È qualcosa che incontriamo sempre più frequentemente nei giovani di oggi. Ma come? Hanno tutte le possibilità, più di qualunque generazione precedente? E sono depressi? Come si spiega? Si spiega col fatto che la loro libertà è in realtà una prigione perché è senza possibilità di avvenire. Cresciamo i nostri figli nella dispersione ludica mentre la storia li investe di una responsabilità enorme: come fare esistere ancora un avvenire possibile? Nietzsche aveva posto all'uomo occidentale il problema della libertà nel modo più radicale possibile. L'uomo è pronto per essere libero? È all'altezza del compito etico della libertà? La fuga delle masse nei totalitarismi del Novecento aveva dato una risposta negativa a quella domanda. No, l'uomo non è capace di essere libero, l'uomo fugge dalla libertà. Adora il tiranno e il suo bastone. La pulsione gregaria domina quella erotica. Il rifugio nel grande corpo della massa viene preferito all'assunzione singolare della propria libertà e della vertigine che essa comporta. Oggi le cose sono cambiate. La massa non è più unita dall'attaccamento fanatico all'ideale. Il cemento che la tiene insieme si è inesorabilmente sgretolato, così si è fatta liquida, ondivaga, informe. E prevale l'individuo nel suo isolamento narcisistico. Mi soccorre per concludere, come sempre, il poeta libanese Kahlil Gibran: E una donna che stringeva un bimbo al seno chiese: parlaci dei figli. Ed egli disse: i vostri figli non sono i vostri figli. Essi sono i figli e le figlie della smania della Vita per se stessa. Vengono attraverso di voi, ma non da voi, e benché stiano con voi, tuttavia non vi appartengono. Voi potete dar loro il vostro amore, ma non i vostri pensieri, poiché essi hanno i propri pensieri. Potete dare alloggio ai loro corpi, ma non alle loro anime, poiché le loro anime dimorano nella casa del futuro che voi non potete visitare neppure in sogno. Voi potete sforzarvi di essere come loro, ma non cercate di renderli simili a voi. Poiché la vita non va all’indietro e non si trattiene sullo ieri. Voi siete gli archi dai quali i vostri figli vengono proiettati in avanti, come frecce viventi. (…). Ecco il punto: “non cercate di renderli simili a voi”. Poiché li renderete per sempre i vostri “bamboccioni”, senza responsabilità e senza cuore. Soli di fronte alla Storia. E senza la libertà.