Lunedì 20 di settembre dell’anno
2010 postavo “C’era una volta…”. Me lo ritrovo e lo ripropongo alla Vostra
cortese attenzione. Scrivevo allora: Sarà
capitato ai tanti di noi di dare inizio ad un racconto, ad una qualsivoglia
storia, con quel celeberrimo “c’era una
volta”. E se ad ascoltare saranno stati, indubbiamente come saranno stati, dei
bambini, sarà stato facile cogliere il momento magico innescato nelle loro giovanissime
e fertilissime menti. Sarà scattato in essi quel momento supremo nel quale
sembra che tutto si sia fermato solo per ascoltare l’affabulatore di turno. E
si sarà potuto cogliere il respiro dei piccoli quasi contenuto se non sospeso,
i loro occhi assumere una espressione di improvviso straniamento dalla realtà
circostante, mentre le loro giovani menti si saranno inoltrate in labirinti
nuovi ed inesplorati dai quali tornare con sempre nuove consapevolezze.
L’affabulazione. La vita nelle fiabe. Una storia antica, propria degli umani.
Si è affabulato ovunque e sempre, per vincere paure o quant’altro la vita doviziosamente
propina dalla sua capace cornucopia del dolore. Ma l’affabulazione rimane una
magia ed un mistero al contempo. Conosco persone a me carissime che,
sorprendendomi nell’affabulare con i loro innocenti pargoli, hanno dimostrato
allarme per le fiabesche storie che non disdegnano anche la rappresentazione
del male del vivere. Mi sono sentito in quegli istanti come un “violentatore” inopportuno di quelle giovani
coscienze. Ma le fiabe hanno di straordinario la rappresentazione del male del
vivere in un contesto che è pur sempre fantasioso e fantastico. Quale dovrebbe
essere il limite proprio delle fiabe? Cosa andrebbe bandito in esse? Mi accorgo
d’essermi inoltrato in un labirinto oscuro e pericoloso. Non ne ho la
necessaria competenza. Mi manca, come suol dirsi, la dottrina. Me ne ritraggo
prontamente citando il grande Bruno Bettelheim (nato a Vienna il 28 di agosto dell’anno
1903 e trapassato a Silver Spring, nello stato del Maryland, il 13 di marzo dell’anno
1990) che, per le sue origini ebraiche, fu costretto ad emigrare negli USA dove
ottenne la cittadinanza ed ove esercitò la professione di psicologo
dell'infanzia interessandosi in particolar modo dell'autismo. Secondo il grande
studioso austriaco il messaggio che le fiabe inviano al bambino è questo: - una lotta (e la sua rappresentazione anche
per il tramite delle fiabe, per l’appunto n.d.r.) contro le gravi difficoltà della vita è inevitabile, è una parte
intrinseca dell’esistenza umana, che soltanto chi non si ritrae intimorito ma
affronta risolutamente avversità inaspettate e spesso immeritate può superare
tutti gli ostacoli e alla fine uscire vittorioso – citazione tratta dall’opera
di quel grande “Il mondo incantato. Uso,
importanza e significati psicoanalitici delle fiabe” – pag. 13 – pubblicata
da Feltrinelli. Fortificati nell’infanzia e nel corso degli anni che pur son
già tantissimi dagli insegnamenti di quel grande, ci siam fatti soggiogare
dalla fiaba (in verità nera che più nera non si può) che Giacomo Papi ha
scritto di recente per un supplemento al quotidiano “la Repubblica”. Titolo della
fiaba “Questo re”. Una fiaba (nera),
che ha inizio nel secolo ventesimo e che si trascina angosciosamente in questo
tormentato secolo nuovo. Merita attentissima lettura. Chi è l’orco di turno? Allora…
C'era
una volta un re che aveva capito che crescere è il contrario di morire. Perciò
era diventato re. C'era riuscito sorridendo, vendendo, imbrogliando,
convincendo, conquistando, donando, corrompendo e pagando, pagando tanto tutti
al punto da non sapere più chi né quanti fossero. Poi, quando fu re, volle
essere imperatore perché solo se ci si espande non si marcisce. Riuscì
nell'impresa sorridendo, vendendo, imbrogliando, convincendo, conquistando,
donando, corrompendo e pagando, pagando tanto tutti, al punto da non sapere più
chi né quanti fossero. Al punto da pagare anche i nemici. I suoi possedimenti
oltrepassavano l'orizzonte, incastrandosi e scontrandosi tra loro, e non
bastavano le leggi che i suoi mille consiglieri inventavano di notte perché le
sue attività si rafforzassero a vicenda invece di entrare in collisione, e si
producesse armonia invece di conflitto. Ingrandendosi l'Impero, si allargava
anche la folla di stipendiati, creditori, ricattatori. Ingrandendosi l'Impero,
si moltiplicavano le falle da tappare, le liti da dirimere, le richieste da
soddisfare. Ingrandendosi l'Impero, i suoi mille consiglieri furono obbligati a
dedicarsi, invece che all'intero, a parziali e provvisori interventi di
correzione e rinvio. Ingrandendosi l'Impero finì per sovrapporsi all'universo.
I suoi alleati si ribellavano, pretendevano, minacciavano, le mogli chiedevano,
i figli litigavano, i servi erano diventati vassalli, i vassalli erano
diventati re e regnavano incontrastati sui regni che lui gli aveva ceduto.
Tutti si pugnalavano nell'ombra, preparandosi alla sua fine, disgustati e
divertiti dallo spettacolo del vecchio imperatore che continuava a dibattersi,
ma rimaneva in vita soltanto perché la sua sopravvivenza garantiva ormai quella
del mondo. Il popolo lo applaudiva, lo toccava e lo acclamava ancora perché
sentiva che senza di lui sarebbero state travolte le sicurezze di ognuno. Era
diventato il sole moribondo e anacronistico intorno a cui ruotava la realtà e
andava in scena lo spettacolo. I suoi cento palazzi scricchiolavano a turno, ma
molti non li aveva neppure visitati. Soltanto gli oppositori, ormai ridotti a
pittoreschi orpelli nel paesaggio del suo immenso potere, lo rassicuravano, nel
loro inutile abbaiare, sulla solidità della sua presa. Lo accusavano di farsi
le leggi per sé, ed era vero, ma accadeva anche perché tutto era suo. Le
emergenze erano ovunque, la marcescenza lo assediava, ma l'imperatore correva,
anche se non sorrideva più, fedele all'intuizione che lo aveva reso ricco, re e
imperatore. Ingrandirsi. Crescere. Espandersi. Se soltanto fosse riuscito a
fermarsi a guardare l'Impero, si sarebbe domandato: - E allora? -. Se soltanto
fosse riuscito a fermarsi, avrebbe capito che c'è un punto oltre il quale la
vastità del possesso coincide con il nulla. Che c'è un punto oltre il quale gli
imperi si sovrappongono al mondo e, quindi, ritornano al mondo, perché nessuno
può più controllarli. Scrisse il pensatore anarchico Gafyn Llawgoch, osservando
da Cardiff l'avanzata di Hitler in Europa: - Anche gli imperi sono schiavi
dell'entropia. La sabbia dei deserti, le radici delle foreste, l'acqua degli
oceani, presto sommergeranno tutto di nuovo. E allora si potrà ricominciare -.
Se soltanto fosse riuscito a fermarsi, l'imperatore avrebbe visto il lento,
paziente, meraviglioso spettacolo shakespeariano della decomposizione. E avrebbe
compreso che lo sconfinato potere che aveva accumulato era solo l'organismo di
un grande animale morente. E forse sarebbe tornato a sorridere. Avete per
caso riconosciuto l’orco della fiaba?
Nessun commento:
Posta un commento