Quanto è distante Marzabotto? Settant’anni…?
Settanta miglia prima che lo scafista butti a mare i suoi naviganti
“clandestini,” settanta giorni di prigionia prima che il combattente rivendichi
la gloria di esporre al mondo la morte per decapitazione del suo prigioniero
inerme, settanta bombe, settanta razzi prima che una, due, tre cadano sulla
scuola, nel mercato, prima di vedere i brandelli di sangue come a Casaglia o
Cerpiano. È molto vicina la strage di Marzabotto, ha cambiato lingua,
territorio, ma poco altro nello scempio di vita altrui che certi uomini
continuano a fare. Nello scempio di un società evoluta dove la ricchezza si
fonda anche sul mercato delle armi, sullo sfruttamento dei simili, sulla
schiavitù, e dove il confine dello spettacolo televisivo mischia ogni sera la
realtà drammatica e violenta a quella effimera della pubblicità. Il pianto
cammina ancora sui sentieri di Monte Sole nell’animo di chi c’era o di chi ha
ascoltato la voce di chi c’era. Credo sia fondamentale nella vita un giorno
andare lì. La memoria è il più importante patrimonio da difendere. E forse un
giorno, finalmente, il progresso non sarà solo un nuovo oggetto tecnologico ma
il bene per l’umanità. Da “Cambia
solo la lingua” di Giorgio Diritti - regista e scrittore, ha diretto i
film “L’uomo
che verrà” (2009) sulla strage nazista di Marzabotto ed “Il
vento fa il suo giro” – sul quotidiano la Repubblica del 21 di
settembre dell’anno 2014. 27 di gennaio, nel giorno della “Memoria”.
Da “I ragazzi immortali sull'isola di Pasqua” di Ezio Mauro, sul quotidiano la Repubblica del 26 di gennaio 2016, in occasione della pubblicazione del volume “Senza adulti” di Gustavo Zagrebelsky – Einaudi Editore (2016), pagg. XIII-106, € 12 -: (…). Si spezza sotto i nostri occhi un altro vincolo societario, quello tra i vincenti e i perdenti della globalizzazione, perché oggi i forti possono fare a meno dei deboli fino ad accettare non la disuguaglianza che c'è sempre stata, ma l'esclusione. Con una bizzarria evidente: ci viene detto che la giovinezza dura a lungo, anzi è eterna, quando siamo consumatori, mentre scopriamo che dura meno dell'anagrafe e si restringe quando siamo produttori. (…). …oggi la generazione dominante si comporta come fosse l'ultima, nell'egoismo del consumo illimitato delle risorse naturali e delle fonti energetiche e nel consumo distorto delle risorse genetiche manipolate, delle risorse finanziarie che scaricano l'indebitamento di oggi sui cittadini di domani. Quando Thomas Jefferson annunciò che "la Terra appartiene alla generazione vivente" intendeva affermare la piena sovranità e la piena libertà dei viventi rispetto al passato, anche davanti ai legami normativi e costituzionali, che possono essere modificati. Oggi l'uso proprietario delle risorse naturali rovescia quell'intenzione: la Terra sembra appartenere ai viventi per sempre, nel senso che non si sentono responsabili davanti al futuro. È come se le generazioni di oggi fossero disinteressate alla loro successione, cieche di domani. E infatti, (…), il calo demografico non è forse un rifiuto di ogni responsabilità per il futuro, una chiusura esclusiva nell'oggi, un rimpicciolimento dell'orizzonte? Torniamo agli immortali: il disimpegno dalla discendenza trasforma il ciclo in un punto, ferma la storia. C'è un rapporto psicologico, morale, addirittura politico tra la negazione della morte e il rifiuto della procreazione, perché per l'immortale l'attività generativa esce dall'eterno presente, addirittura lo mette in discussione fino a rivelarne l'inganno, dunque è un contro-senso. D'altra parte – (…) - quante persone scoprirebbero che non vale la pena di vivere una volta che non dovessimo più morire? L'esorcismo tecnico della morte sconta questa conseguenza, l'affievolimento della vita, il disinteresse a crearla per limitarsi a consumarla. L'ultimo nesso che si rompe, tra giovani e vecchi, è dunque tra padri e figli, il più sacro, quello che trasforma in generazioni le classi di età che si succedono. Siamo davanti all'inedito. (…). All'egoismo storico dei viventi, bisogna opporre il diritto di coloro che verranno, il diritto di succedere a noi. Siamo evidentemente davanti alla prefigurazione di diritti pre-civili e pre-politici: semplicemente umani, anzi dovremmo dire pre-umani, perché riguardano i futuri abitanti della Terra. Il diritto di esistere, prima ancora del diritto del vivente. Il punto zero del diritto. (…). …in realtà le generazioni future non hanno alcun diritto soggettivo, quando vivranno non potranno chiedere i danni ai loro predecessori, tutt'al più potranno maledirli. Ma (…) la società non può reggere a lungo questo rovesciamento del debito storico: come se i figli avessero pagato definitivamente ciò che dovevano ai padri, e i padri non fossero in grado di regolare davvero i conti dei loro obblighi con la discendenza. Ci salva solo, (…), la categoria del dovere, senza un diritto giuridico corrispondente. Il dovere da solo. Aggiungo che si chiama responsabilità. Il contrario della moderna fuga nell'illusione di una vita infinita, sempre uguale a se stessa, dunque tecnicamente irresponsabile. Gli immortali si fermino in tempo, riportino gli adulti nel mondo per tenerlo insieme, come diceva Eliot: "Non sei né giovane né vecchio / ma è come se dormissi dopo pranzo / sognando di entrambe queste età".
Da “Rubare
il futuro la dura legge che incatena le generazioni” di Gustavo
Zagrebelsky, sul quotidiano la Repubblica del 25 di marzo dell’anno 2015: Le
società vecchie sono quelle soffocate dal peso del passato. Le giovani sono
quelle che, almeno in parte, se ne affrancano, per guardare liberamente se
stesse e deliberare senza pregiudizi. Le età delle società si misurano in
“generazioni”. Ma, che cosa sono le generazioni, una volta che, dalla cellula
in cui sta il rapporto generativo genitori- figli, si passa alla dimensione
sociale in cui migliaia o milioni d’individui si succedono sulla scena della
vita, gli uni agli altri? Una volta che si voglia sostenere che una generazione
giovane sostituisce una generazione vecchia? La questione ha una storia. Thomas
Jefferson disse: «La terra appartiene a (alla generazione de) i viventi» («the
earth belongs to the living»). Quel motto stava a significare che, sebbene ogni
costituzione porti in sé ed esprima l’esigenza di stabilità e continuità, non
si doveva pensare a una fissità assoluta, a costituzioni perenni e
immodificabili. Poiché ogni generazione è indipendente da quella che la
precede, ognuna può utilizzare come meglio crede, durante il proprio
“usufrutto”, i beni di questo mondo e, tra questi, le leggi e le costituzioni.
Ma, qual è la “scadenza” di una generazione, cioè la sua durata in vita? (…).
…oggi, nelle nostre società, in nome di che cosa la generazione nuova pretende
lo spazio che era della vecchia? Sempre più spesso i vecchi confessano il loro
sentirsi “fuori luogo”. Con le parole di Norberto Bobbio: «Nelle società
evolute il mutamento sempre più rapido sia dei costumi sia delle arti ha
capovolto il rapporto tra chi sa e chi non sa. Il vecchio diventa sempre più
colui che non sa rispetto ai giovani che sanno, anche perché hanno maggiore
capacità di apprendimento ». Il luogo dei giovani nelle società odierne è il
luogo della competitività, dell’innovazione, dell’efficienza e della velocità.
L’identità dell’odierna generazione emergente è la produttività crescente
finalizzata allo sviluppo. (…). …la produttività crescente è la più implacabile
delle leggi, perché richiede la mobilitazione di tutte le energie sociali
disponibili e implica la marginalizzazione di coloro i quali non ne sono
partecipi. Costoro, cioè coloro che non sanno, non possono o non vogliono stare
al passo, cioè gli inidonei e i non integrati non possono giustificare la loro
esistenza. Noi viviamo in un’epoca che crediamo ancora dominata dall’idea o,
forse, dall’ideologia dei diritti umani: un’epoca aperta dalle rivoluzioni
liberali e trionfante nella seconda metà del Novecento, anche come reazione
alle tragedie dei totalitarismi. La Dichiarazione universale dei diritti
dell’uomo del 1948, che inizia proclamando che «tutti gli esseri umani nascono
liberi ed eguali in dignità e diritti» può essere assunta come il simbolo
riassuntivo di un’intera generazione. Ma è ancora così? (…). La cosiddetta
crisi fiscale dello Stato e la conseguente riduzione della “spesa sociale” —
pensioni e assistenza, sanità, lavoro — chi finisce per colpire? Proprio i più
deboli. Tra questi, gli anziani, il cui numero percentuale rispetto agli
individui produttivi, aumenta con la durata della vita. Forse, è alle viste una
vera e propria ribellione della generazione giovane, su cui grava l’onere del
sostentamento degli anziani. Non li si elimina fisicamente e direttamente, ma
li si abbandona progressivamente al loro destino, con effetti analoghi. Sulle
società della crescita per la crescita, incombe un’altra minaccia. Occorrerebbe
sempre rammentare la lezione dell’Isola di Pasqua. Quest’isola polinesiana,
scoperta dagli europei il giorno di Pasqua del 1722, è celebre per i 397
megaliti, uno dei quali raggiunge il peso di 270 tonnellate, che raffigurano
giganteschi ed enigmatici tronchi umani, alcuni dei quali sovrastati da
parallelepipedi colorati di rosso. Quando gli esseri umani vi posero piede alla
fine del primo millennio, doveva essere una terra fiorente, coperta di foreste,
ricca di cibo dalla terra, dal mare e dall’aria. Arrivò a ospitare diverse
migliaia di persone, divise in dodici clan che convivevano pacificamente.
Quando vi giunsero i primi navigatori europei, trovarono una terra desolata,
come ancora oggi ci appare: completamente deforestata, dal terreno disastrato e
infecondo, dove sopravvivevano poche centinaia di persone. Nel 1864, quando
mercanti europei vi sbarcarono per i loro affari, il numero era ridotto a 111
individui, denutriti, geneticamente degradati. Che cosa e come era avvenuto
questo disastro? C’è un rapporto tra le grandi e inquietanti teste di pietra e
l’estrema desolazione di ciò che le circonda? L’enigma di Pasqua, per com’è
stato sciolto dagli studiosi, è un grandioso e minaccioso apologo su come le
società possono distruggere da sé il proprio futuro per gigantismo e
imprevidenza. La causa prima del collasso sarebbe stata la deforestazione, cioè
la dissipazione della principale risorsa naturale. (…). E le teste di pietra?
Sembra che abbiano avuto una parte di rilievo. Col passar del tempo e in
concomitanza con le lotte tra i clan, da piccole che erano all’inizio,
diventarono progressivamente sempre più imponenti. La più alta, sei volte un
uomo normale, è anche quella costruita per ultima, quando la catastrofe
incombeva. Motus in fine velocior. Erano un simbolo di potenza tecnologica che
poteva essere speso nella lotta per la supremazia politica. Ma per scalpellarle
dalla cava, trasportarle e drizzarle — un lavoro, per quella società in quel
luogo e in quel tempo, mostruoso — occorrevano tronchi d’albero d’alto fusto e
fibre legnose per fabbricare funi. Alla fine, l’isola fu desertificata e,
parallelamente, si eressero pietre sempre più alte; poi per la maggior parte
furono abbattute e spezzate. Quando tutto fu compiuto, i sopravvissuti
pensarono a una via di fuga dall’inferno ch’essi stessi avevano creato. Ma il
legno per costruire le barche — la loro salvezza — era già stato usato e consumato
per le teste di pietra. Che cosa dunque avvenne a Pasqua? Come possiamo
condensare in una sola frase la sua parabola? Per soddisfare manie di potenza e
grandezza di oggi, non si è fatto caso alle necessità di domani. Ogni
generazione s’è comportata come se fosse l’ultima, trattando le risorse di cui
disponeva come sue proprietà esclusive, di cui usare e abusare. Il motto di
quella gente dissennata avrebbe potuto essere quello del distinto signore,
estensore della Dichiarazione d’indipendenza, Thomas Jefferson: «La terra
appartiene alla generazione vivente». Ammesso che nuove generazioni viventi
possano esserci sempre di nuovo.
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