Cosa è andato scrivendo mai Alessandro
Robecchi su “il Fatto Quotidiano” di oggi col titolo “Correre dietro ai polacchi non ci rende meno italiani”? Anche a
costo – e corro coscientemente il rischio - d’essere accusato della pratica
alquanto odiosa del “citarsi addosso” – formuletta inventata da quel grande
spiritosone che è Woody Allen – e di essere additato del narcisismo più
sfrenato, anche a costo di tutto ciò ho il dovere di segnalarvi il mio post del
20 di dicembre dell’anno appena trapassato che ha per titolo “Nell’epoca della nuova povertà”. E cosa
ho scritto in quel post che pochi, pochissimi, sparuti avventurieri della rete
avranno letto? Scrivevo, per l’appunto, che… Oggigiorno nuovi scenari ha aperto la globalizzazione, ché solamente la
cecità della politica non ha consentito di vedere al tempo dovuto. Essa, la
globalizzazione, ha agito ed agisce così come aveva intuito quel grande che è
stato il Liebig. Poiché le cose intuite dall’illustre scienziato per i fenomeni
della Natura valgono per l’appunto anche nelle vicende degli umani. Come non
vedere al giusto tempo che la globalizzazione avrebbe introdotto nelle società
dell’Occidente quel “fattore limitante”
per il quale, come in un mastello la doga più corta determina il livello al
quale il liquido può in esso essere raccolto, così il “fattore limitante” – conseguenza di una sfrenata, incontrollata
globalizzazione - dei bassi o bassissimi salari dei paesi poveri divenuti
emergenti, l’assenza di ogni forma di tutela sociale e del lavoro, avrebbe,
quel “fattore limitante”, investito
e colpito anche le cosiddette società del capitalismo avanzato? Con la sua
logica sfrenata, con il falso assunto che i mercati sarebbero stati capaci di
autoregolamentarsi, la globalizzazione e la finanziarizzazione del capitalismo
ha provveduto a spolpare le ricchezze e le risorse delle società occidentali
per le quali si aprono scenari chiari di un ritorno ad un’epoca nuova di
povertà. Ma se c’è stata una cecità della politica come non vedere di pari
passo anche una cecità nel mondo della finanza e dell’economia? Avere
impoverito grandi masse nel mondo dell’Occidente capitalistico, avere di fatto
spinto all’indietro una spessa fetta di quello che è stato il “ceto medio” delle società avanzate ha
di conseguenza tolto dalla scena quei nevrotici “consumatori” che oggigiorno si invocano inutilmente affinché
riprendano a sostenere i consumi per consentire il riavvio della cosiddetta “ripresa”. Questo venivo scrivendo
nel mio inutile scribacchiare. E questo prima del “blocco” dello scrivano.
E così oggi mi sono trovato a leggere il bello scrivere di Alessandro Robecchi
ed a ritrovare in esso quelle elementari intuizioni che forse maldestramente
avevo messo nero su bianco, tanto per dir, come si diceva al tempo del
calamaio, della penna e della carta. Ha scritto dunque Alesasndro Robecchi che…
È
vero che se corri dietro al tram risparmi un euro e mezzo, ma se corri dietro a
un taxi riesci a risparmiare molto di più. Che questa scemenza sia applicabile
all’economia, e quindi alla vita delle persone, non fa ridere per niente.
Eppure è quello che ci sentiremmo di suggerire alla Electrolux, la
multinazionale degli elettrodomestici che ha proposto ai suoi lavoratori un
accordo che suona più o meno così: noi vi molliamo qui e andiamo a fare le
nostre lavatrici in Polonia, a meno che voi non accettiate di prendere salari
polacchi. In pratica si tratta di una riduzione di stipendio di quasi il
cinquanta per cento: quello che prima facevi per 1.400 euro, domani potresti
farlo per 700. Se no a casa. Prendere o lasciare che si direbbe, dall’economia,
alla politica, alle riforme, pare la moda del momento. Vedete anche voi che la
formuletta del tram e del taxi è una metafora perfetta: perché diavolo inseguire
stipendi polacchi quando si potrebbero rincorrere addirittura quelli cinesi? E
perché limitarsi agli stipendi cinesi quando si potrebbero pagare stipendi
cambogiani? Il fatto è che c’è sempre qualcuno che è il polacco di qualcun
altro (o il cinese, o il cambogiano…) e quindi non si finisce più: la corsa al
ribasso è una specie di toboga insaponato dove si prende velocità e non si
riesce a frenare. Ma certo, certo, non c’è dubbio che la faccenda non sia così
semplice. (…). E in più, della proposta Electrolux non si calcola un piccolo
dettaglio. Che i lavoratori prenderebbero stipendi polacchi, ma non
abiterebbero in Polonia. Continuerebbero a pagare affitti o mutui italiani, a
comprare cibo nel supermercati italiani e a far benzina in Italia, che Varsavia
gli viene un po’ scomoda. Dunque, non per tirare in ballo il vecchio maestro
Keynes (…), se ne deduce che oggi, con il suo stipendio, un lavoratore
dell’Elecrolux potrebbe forse permettersi di comprare una lavatrice Electrolux,
ma domani, con il suo stipendio polacco, non potrà più. Meno soldi in tasca a
chi lavora, quindi meno consumi interni, quindi nuovi lavoratori in esubero,
quindi nuove riduzioni di salario. È la famosa manina magica del mercato che
sistema tutto, a favore del mercato, naturalmente. (…). Nel frattempo, sarebbe
bello non diventare troppo polacchi, troppo cinesi o troppo cambogiani,
continuando a fare la spesa qui. (…). E così pure il mio narcisistico
“io” – che sembra sia essere, il “narcisismo” intendo dire, sempre secondo
i maligni, una caratteristica propria di tutti quelli che trovano necessario lo
scrivere - si è ancor di più gonfiato, sino a scoppiarne come fu per la rana di
Fedro, alla lettura del magistrale pezzo di Gad Lerner sul quotidiano la
Repubblica di oggi che ha per titolo “La lotta di classe asimmetrica”. È
da tempo assai che vado parlando di “lotta di classe”. Per quei pochi,
pochissimi, sparuti navigatori della rete incagliatisi su questo blog sarà
parso essere questa mia una fissazione fuori dal tempo e dalla Storia. Solo che
da un bel po’ di tempo vado parlando di una “lotta di classe all’incontrario”.
Non più i meno abbienti ed i bisognosi ad essere protagonisti di essa, la “lotta
di classe” intendo dire, ma essa è condotta “all’incontrario” ovvero dalle
categorie sociali più ricche e fortunate. Gad Lerner da più erudito parla di “lotta
di classe asimmetrica”. Ma per il resto non cambia nulla. Scrive Gad
Lerner che… Nella lotta di classe asimmetrica (…) i lavoratori sono ridotti a
variabile marginale. Stoccolma ha il potere di giocarsi gli operai polacchi
contro gli operai italiani, e inoltre può mettere ogni stabilimento a rischio
chiusura in competizione con l’altro; azionando così una corsa al ribasso no
limits del costo della manodopera. Il sacro principio della libera concorrenza,
dispiegato senza regole su un orizzonte mondiale, anela a svincolarsi dai
contratti localmente stipulati con la parte più debole. In materia di
retribuzioni prevalgono le tariffe di volta in volta indicate come riferimento
là dove conviene; e pazienza se ciò comporta una vera e propria retrocessione
di civiltà. Prendere o lasciare. Il governo, i sindacati e la politica sono
chiamati solo a una presa d’atto subalterna. A disarmarli è la nuova centralità
finanziaria del rapporto creditore/debitore che prosciuga le risorse pubbliche
necessarie all’esercizio della mediazione nel più antico conflitto capitale/lavoro.
È così che la lotta di classe diviene asimmetrica e il lavoro, reso precario,
tende a precipitare sempre più spesso nella povertà (…). Le statistiche sulla
ricchezza nazionale divulgate dalla Banca d’Italia ci confermano che stiamo
vivendo una metamorfosi sociale, con l’acuirsi delle disuguaglianze e la
diffusione della povertà. Ma ancora non fotografano a sufficienza il dato nuovo
rappresentato dall’estendersi dell’area che i sociologi definiscono labouring
poors: ovvero i titolari di un posto di lavoro fisso la cui busta paga però non
li sottrae all’indigenza. Tale condizione verrebbe generalizzata da eventuali
accordi consensuali di taglio dei salari. Essi giungerebbero a suggellare una
gigantesca opera di espropriazione di ricchezza ai danni del lavoro dipendente
già in atto da anni in tutto l’occidente. Ne sono talmente consapevoli il
presidente Obama negli Usa e i partner della “grosse koalition” in Germania, da
avere scelto di innalzare per legge il salario minimo orario nei loro paesi. Un
parziale antidoto alla diffusione della povertà fra i lavoratori dipendenti.
(…). Come è stato possibile dimenticare il “fattore limitante” del
grande Liebig? Cecità della politica! Oggi il Leporello del “Don
Giovanni” potrebbe ben cantare “Madamina! il catalogo è questo”
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 29 gennaio 2014
lunedì 27 gennaio 2014
Eventi. 15 “4517” ovvero Primo Levi.
Dall’intervista di Enzo Biagi a
Primo Levi trasmessa l’8 di giugno dell’anno 1982 su Rai1 e riportata da “il
Fatto Quotidiano” del 26 di gennaio 2014.
Levi come ricorda la
promulgazione delle leggi razziali? - Non è stata una sorpresa quello che è
avvenuto nell’estate del ’38. Era luglio quando uscì Il manifesto della razza,
dove era scritto che gli ebrei non appartenevano alla razza italiana. Tutto
questo era già nell’aria da tempo, erano già accaduti fatti antisemiti, ma
nessuno si immaginava a quali conseguenze avrebbero portato le leggi razziali.
Io allora ero molto giovane, ricordo che si sperò che fosse un’eresia del
fascismo, fatta per accontentare Hitler. Poi si è visto che non era così. Non
ci fu sorpresa, delusione sì, con grande paura sin dall’inizio mitigata dal
falso istinto di conservazione: “Qui certe cose sono impossibili”. Cioè negare
il pericolo -.
(…). Come ha vissuto quel tempo
fino alla caduta del fascismo? - Abbastanza tranquillo, studiando, andando in
montagna. Avevo un vago presentimento che l’andare in montagna mi sarebbe
servito. È stato un allenamento alla fatica, alla fame e al freddo -.
E quando è arrivato l’8
settembre? - Io stavo a Milano, lavoravo regolarmente per una ditta svizzera,
ritornai a Torino e raggiunsi i miei che erano sfollati in collina per decidere
il da farsi -.
La situazione con l’avvento della
Repubblica sociale peggiorò? - Sì, certo, peggiorò quando il Duce, nel dicembre
’43, disse esplicitamente, attraverso un manifesto, che tutti gli ebrei
dovevano presentarsi per essere internati nei campi di concentramento -.
Cosa fece? - Nel dicembre ’43 ero
già in montagna: da sfollato diventai partigiano in Val d’Aosta. Fui arrestato
nel marzo del ’44 e poi deportato -.
(…). Lei ricorda il viaggio verso
Auschwitz? - Lo ricordo come il momento peggiore. Ero in un vagone con
cinquanta persone, c’erano anche bambini e un neonato che avrebbe dovuto
prendere il latte, ma la madre non ne aveva più, perché non si poteva bere, non
c’era acqua. Eravamo tutti pigiati. Fu atroce. Abbiamo percepito la volontà
precisa, malvagia, maligna, che volevano farci del male. Avrebbero potuto darci
un po’ d’acqua, non gli costava niente. Questo non è accaduto per tutti i
cinque giorni di viaggio. Era un atto persecutorio. Volevano farci soffrire il
più possibile -.
Come ricorda la vita ad
Auschwitz? - L’ho descritta in “Se questo è un uomo”. La notte, sotto i fari,
era qualcosa di irreale. Era uno sbarco in un mondo imprevisto in cui tutti
urlavano. I tedeschi creavano il fracasso a scopo intimidatorio. Questo l’ho
capito dopo, serviva a far soffrire, a spaventare per troncare l’eventuale
resistenza, anche quella passiva. Siamo stati privati di tutto, dei bagagli
prima, degli abiti poi, delle famiglie subito -.
(…). Che cosa l’ha aiutata a
resistere nel campo di concentramento? - Principalmente la fortuna. Non c’era
una regola precisa, visibile, che faceva sopravvivere il più colto o il più
ignorante, il più religioso o il più incredulo. Prima di tutto la fortuna, poi
a molta distanza la salute e proseguendo ancora, la mia curiosità verso il
mondo intero, che mi ha permesso di non cadere nell’atrofia, nell’indifferenza.
Perdere l’interesse per il mondo era mortale, voleva dire cadere, voleva dire
rassegnarsi alla morte -.
Come ha vissuto ad Auschwitz? - Ero
nel campo centrale, quello più grande, eravamo in dieci-dodici mila
prigionieri. Il campo era incorporato nell’industria chimica, per me è stato
provvidenziale perché io sono laureato in Chimica. Ero non Primo Levi ma il
chimico n. 4517, questo mi ha permesso di lavorare negli ultimi due mesi,
quelli più freddi, dentro a un laboratorio. Questo mi ha aiutato a
sopravvivere. C’erano due allarmi al giorno: quando suonava la prima sirena,
dovevo portare tutta l’apparecchiatura in cantina, poi, quando suonava quella
di cessato allarme, dovevo riportare di nuovo tutto su -.
(…). È vero che cadevano più
facilmente i più robusti? È vero. È anche spiegabile fisiologicamente: un uomo
di quaranta-cinquanta chili mangia la metà di un uomo di novanta, ha bisogno di
metà calorie, e siccome le calorie erano sempre quelle, ed erano molto poche,
un uomo robusto rischiava di più la vita. Quando sono entrato nel lager pesavo
49 chili, ero molto magro, non ero malato. Molti contadini ebrei ungheresi, pur
essendo dei colossi, morivano di fame in sei o sette giorni -.
Che cosa mancava di più: la
facoltà di decidere? - In primo luogo il cibo. Questa era l’ossessione di
tutti. Quando uno aveva mangiato un pezzo di pane allora venivano a galla le
altre mancanze, il freddo, la mancanza di contatti umani, la lontananza da
casa…-.
La nostalgia, pesava di più? - Pesava
soltanto quando i bisogni elementari erano soddisfatti. La nostalgia è un
dolore umano, un dolore al di sopra della cintola, diciamo, che riguarda
l’essere pensante, che gli animali non conoscono. La vita del lager era
animalesca e le sofferenze che prevalevano erano quelle delle bestie. Poi
venivamo picchiati, quasi tutti i giorni, a qualsiasi ora. Anche un asino
soffre per le botte, per la fame, per il gelo e quando, nei rari momenti, in
cui capitava che le sofferenze primarie, accadeva molto di rado, erano per un
momento soddisfatte, allora affiorava la nostalgia della famiglia perduta. La
paura della morte era relegata in secondo ordine. Ho raccontato nei miei libri
la storia di un compagno di prigionia condannato alla camera gas. Sapeva che
per usanza, a chi stava per morire, davano una seconda razione di zuppa,
siccome avevano dimenticato di dargliela, ha protestato: “Ma signor capo
baracca io vado nella camera a gas quindi devo avere un’altra porzione di
minestra” -.
Lei ha raccontato che nei lager
si verificavano pochi suicidi: la disperazione non arrivava che raramente alla
autodistruzione. - Sì, è vero, ed è stato poi studiato da sociologi, psicologi
e filosofi. Il suicidio era raro nei campi, le ragioni erano molte, una per me
è la più credibile: gli animali non si suicidano e noi eravamo animali intenti
per la maggior parte del tempo a far passare la fame. Il calcolo che quel
vivere era peggiore della morte era al di là della nostra portata -.
Quando ha saputo dell’esistenza
dei forni? - Per gradi, ma la parola crematorio è una delle prime che ho
imparato appena arrivato nel campo, ma non gli ho dato molta importanza perché
non ero lucido, eravamo tutti molto depressi. Crematorio, gas, sono parole che
sono entrate subito nelle nostra testa, raccontate da chi aveva più esperienza.
Sapevamo dell’esistenza degli impianti con i forni a tre o quattro chilometri
da noi. Io mi sono esattamente comportato come allora quando ho saputo delle
leggi razziali: credendoci e poi dimenticando. Questo per necessità, le
reazioni d’ira erano impossibili, era meglio calare il sipario e non
occuparsene -.
Poi arrivarono i russi e fu la
libertà. Come ricorda quel giorno? - Il giorno della liberazione non è stato un
giorno lieto perché per noi è avvenuto in mezzo ai cadaveri. Per nostra fortuna
i tedeschi erano scappati senza mitragliarci, come hanno fatto in altri lager.
I sani sono stati ri-deportati. Da noi sono rimasti solo gli ammalati e io ero
ammalato. Siamo stati abbandonati, per dieci giorni, a noi stessi, al gelo,
abbiamo mangiato solo quelle poche patate che trovavamo in giro. Eravamo in
ottocento, in quei dieci giorni seicento sono morti di fame e freddo, quindi, i
russi mi hanno trovato vivo in mezzo a tanti morti -.
Questa esperienza ha cambiato la
sua visione del mondo? - Penso di sì, anche se non ho ben chiara quale sarebbe
stata la mia visione del mondo se non fossi stato deportato, se non fossi
ebreo, se non fossi italiano e così via. Questa esperienza mi ha insegnato
molte cose, è stata la mia seconda università, quella vera. Il lager mi ha
maturato, non durante ma dopo, pensando a tutto quello che ho vissuto. Ho
capito che non esiste né la felicità, né l’infelicità perfetta. Ho imparato che
non bisogna mai nascondersi per non guardare in faccia la realtà e sempre
bisogna trovare la forza per pensare -.
Grazie, Levi. - Biagi, grazie a
lei -.
domenica 26 gennaio 2014
Uominiedio. 12 Internet ed i doni di Dio.
“La fede risponde a esigenze che
non sono razionali, e tuttavia sono vissute come irrinunciabili dall'uomo: le
spinte alla continua ricerca di qualcosa oltre l'esistente”. Lo ha
scritto il professor Umberto Galimberti sul settimanale “D” del 21 di settembre
dell’anno 2013 – “Tra religione e
scienza non serve scegliere” -. La questione quindi è ostica assai,
controversa, sfuggente. Dio. La faccenda vissuta ha dell’inverosimile, dell’incredibile,
ed è tutta da dimostrare. Ma come dimostrarla? La storiella mi è stata
raccontata. Ha a che fare con un “dono di Dio”, Internet. Wow! (al
tempo prima di Internet si sarebbe forse detto “urca”!). Una scena
consueta di commensali che distrattamente orecchiano ciò che il piccolo mostro
casalingo va rimettendo a getto continuo. La notizia per l’appunto: “Il vescovo
di Roma sostiene che anche internet è un dono di Dio”. Sfugge prontamente ad
uno dei commensali: - Ci ha messo del tempo a fare il dono! -. Una battuta o
una solenne, pensata riflessione dal sen sfuggita? Piccata la risposta di una
dei commensali: – Certo, ha voluto che gli uomini arrivassero da se a quel dono
-. Il primo commensale di rimando: – Ma che diavolo di dono è allora! -. Non mi
è stato raccontato il prosieguo della conversazione. Mi è venuto da pensare al dio
del vecchio testamento, signore degli eserciti, diffusore di cataclismi,
pestilenze, piogge di sale e quant’altro atti a seminare morte e distruzione di
massa, istigatore di sacrifici umani – uno, per fortuna non andato a buon fine
-. E che dire poi della sventura toccata ai progenitori di tutto il genere
umano, quell’Adamo e quella Eva puniti, con le conseguenze che sono tuttora
sotto gli occhi del mondo, solo per aver voluto assaggiare il frutto di un certo
albero spinti com’erano dal desiderio della “conoscenza”? Ripeto,
della “conoscenza”. Dubito che quel vecchio, burbero dio avesse a
cuore la “conoscenza”. È pur vero che quel dio ha lasciato il campo, almeno
nel nuovo testamento, ad una figura più umana e più caritatevole, quell’uomo di
Nazareth, ma tant’è che mi è parso esagerato quanto il vescovo di Roma vada
incautamente sostenendo. Continua a scrivere il professor Galimberti: Siamo
d'accordo nel dire che la scienza non dice cose "vere", ma solo cose
"esatte", cioè ottenute dalle premesse (…) che ha anticipato. Su
questo convengono anche gli scienziati, così come sono d'accordo nel negare
alle loro conclusioni il carattere di verità assolute, perché altrimenti non ci
sarebbe progresso scientifico, che si realizza ogni volta che al posto delle
premesse precedentemente assunte se ne assumono altre più esplicative. (…)…nella
storia la scienza ha smantellato tante credenze religiose, senza che questo
abbia in alcun modo modificato il sistema di credenze a cui aderiscono le
persone di fede. Dobbiamo allora concludere che la fede religiosa risponde a
esigenze che non sono razionali, e tuttavia vengono vissute come
irrinunciabili, perché l'uomo è abitato anche da una dimensione irrazionale che
può esprimersi solo uscendo dal recinto stretto della razionalità. Che risposte
razionali possiamo dare all'esperienza del dolore, che non di rado affligge la
nostra esistenza? Oppure all'esperienza dell'amore che si nutre di ogni cosa
all'infuori che della razionalità? O alla domanda sul senso della nostra
esistenza, che non di rado vaga e tracolla nell'insignificanza? Tutte le
religioni raccolgono queste istanze e le proiettano nella trascendenza, che
sarà pure un mondo inventato, ma che risponde comunque a quell'esigenza
incondizionata propria della natura umana che non si accontenta dell'esistente,
ma è in ricerca continua del suo oltrepassamento. E questo vale non solo in
ambito religioso, ma anche in ambito scientifico (altrimenti non avremmo
progresso), in ambito sociale (per un miglioramento delle condizioni di vita) e
in ambito personale (nella ricerca mai interrotta di una migliore realizzazione
di sé). E allora i conti li dobbiamo fare non contrapponendo le risposte della
scienza e quelle della religione, ma con quell'esigenza incondizionata di
trascendenza, (…) …di oltrepassamento della situazione esistente, che è tipica
dell'uomo, che proprio per questo si distingue dall'animale. Che poi a questa
esigenza non si diano risposte sicure, questo fa parte della condizione tragica
dell'uomo, a cui la religione a suo modo cerca di porre rimedio. Ritengo
che sarebbe oggigiorno molto più accettabile un messaggio (religioso) diverso che
non cercasse commistioni improprie e non realizzasse inaccettabili forzature
per il buon senso comune degli uomini d’oggi, che è divenuto tale, buon senso
intendo dire, solamente grazie al progresso compiuto dal genere umano,
progresso realizzato anche a dispetto o addirittura contro il pensiero ostativo
di quella che passa per la ispirata chiesa universale di Roma. E per tornare
allo scritto del professor Galimberti: Siamo inoltre d'accordo che non si danno
"verità di fede" perché la fede crede proprio perché non sa, mentre
la dove si sa, non si crede. Io non credo che due più due faccia quattro perché
lo so, mentre, se ho fede, credo che Cristo sia risorto perché non ho nessuna
evidenza né dimostrazione, ma solo la fede di coloro che ne hanno dato
testimonianza.
mercoledì 22 gennaio 2014
Storiedallitalia. 36 “Il diritto di evadere a prezzo di favore”.
“C’era una volta…”. È che quell’incipit, che tanto ci ha fatto
sognare, non vale nella storia di oggi. La storia non è mia ma l’ha raccontata,
come sempre magistralmente, Bruno Tinti su “il Fatto Quotidiano” di oggi col
titolo “Il diritto di evadere a prezzo
di favore”. Poiché quel “c’era una volta” non vale proprio
per il bel paese dell’oggi, che continua ad essere il paese di sempre. Ma quel “c’era
una volta” confesso che mi piace tanto ed allora, tanto per dare uno
smacco al mio “blocco” dello scrivano, mi sono premurato di andare a cercare
una lettura di tanto tempo fa che aveva per inizio quel magico “c’era
una volta”. E così la magia può, per incantamento, riprodursi anche se
il risveglio da essa, dalla magia intendo dire, è dei più amari che si possano
immaginare. E così…: C’era un paese che si reggeva sull’illecito.
Non che mancassero le leggi, né che il sistema politico non fosse basato su
principi che tutti più o meno dicevano di condividere. Ma questo sistema,
articolato su un gran numero di centri di potere, aveva bisogno di mezzi
finanziari smisurati (ne aveva bisogno perché quando ci si abitua a disporre di
molti soldi non si è più capaci di concepire la vita in altro modo) e questi
mezzi si potevano avere solo illecitamente, cioè chiedendoli a chi li aveva in
cambio di favori illeciti. Ossia, chi poteva dar soldi in cambio di favori, in
genere già aveva fatto questi soldi mediante favori ottenuti in precedenza; per
cui ne risultava un sistema economico in qualche modo circolare e non privo di
una sua autonomia. Nel finanziarsi per via illecita, ogni centro di potere non
era sfiorato da alcun senso di colpa, perché per la propria morale interna, ciò
che era fatto nell’interesse del gruppo era lecito, anzi benemerito, in quanto
ogni gruppo identificava il proprio potere col bene comune; l’illegalità
formale, quindi, non escludeva una superiore legalità sostanziale.(…). Il paese
aveva nello stesso tempo anche un dispendioso bilancio ufficiale, alimentato
dalle imposte su ogni attività lecita e finanziava lecitamente tutti coloro che
lecitamente o illecitamente riuscivano a farsi finanziare. Poiché in quel paese nessuno era disposto non
diciamo a fare bancarotta, ma neppure a rimetterci di suo (e non si vede in
nome di che cosa si sarebbe potuto pretendere che qualcuno ci rimettesse), la
finanza pubblica serviva ad integrare lecitamente in nome del bene comune i
disavanzi delle attività che sempre in nome del bene comune si erano distinte
per via illecita. La riscossione delle tasse, che in altre epoche e civiltà
poteva ambire di far leva sul dovere civico, qui ritornava alla sua schietta
sostanza di atto di forza (così come in certe località all’esazione da parte
dello Stato si aggiungeva quella di organizzazioni gangsteristiche o mafiose),
atto di forza cui il contribuente sottostava per evitare guai maggiori, pur
provando anziché il sollievo del dovere
compiuto, la sensazione sgradevole di una complicità passiva con la cattiva
amministrazione della cosa pubblica e con il privilegio delle attività
illecite, normalmente esentate da ogni imposta. Di tanto in tanto, quando meno
ce lo si aspettava, un tribunale decideva di applicare le leggi, provocando
piccoli terremoti in qualche centro di potere e anche arresti di persone che
avevano avuto fino ad allora le loro ragioni per considerarsi impunibili. In
quei casi il sentimento dominante, anziché
di soddisfazione per la rivincita della giustizia, era il sospetto che
si trattasse di un regolamento di conti di un centro di potere contro un altro
centro di potere.(…). E qui mi fermo in quella storia di un certo tempo
andato che è iniziata con l’immancabile, magico “c’era una volta”. Avrete
certamente riconosciuto la penna arguta di Italo Calvino in quel Suo “Apologo sull’onestà nel paese dei
corrotti” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 15 di marzo 1980.
1980! Un altro mondo. Un altro tempo. Ma la storia dell’oggi non abbisogna, dicevo,
del magico “c’era una volta”, poiché quel “paese dei corrotti” sta
sempre lì, a farsi rimirare nella sua sempiterna bruttura. E Bruno Tinti ce la
racconta poiché è una storia che ha vissuto in prima persona. Quindi… Conducevo
un’indagine nei confronti di un medico: il dottor Bisturi, uno importante,
molto noto, ottima clientela. Dai primi sommari accertamenti contabili e
bancari sembrava che rubasse al Fisco 300.000 euro all’anno: un “nero” da
600.000 euro, niente male. Cominciai la solita routine: estratti conto bancari,
sequestro contabilità, fatture, ricevute… E poi tutto ai due marescialli della
Gdf che lavoravano in ufficio con me: studiate, incrociate i dati, trovate
altri conti bancari se ce ne sono, cercate cassette di sicurezza, insomma
guadagnatevi lo stipendio. Il medico aveva nominato un avvocato molto bravo che
gli aveva subito spiegato l’abc dell’evasore sottoposto a indagine: stai
tranquillo, non fare niente, penso a tutto io. “Quello che dobbiamo fare – gli
aveva detto – è ridurre al massimo l’ammontare dell’evasione. Qualcosa resterà,
è inevitabile; ti costringeranno a pagarla e dovrai anche pagare le sanzioni ma
qui c’è poco da fare. Sul piano penale, niente di che: la tariffa per questo
genere di cose varia tra 8 mesi e 5 mesi e 10 giorni; con la condizionale,
niente prigione. Quindi stai sereno e lavora molto perché dovrai pagarmi una
sontuosa parcella e questa sì che sarà una pena concreta”. L’avvocato aveva,
naturalmente, ragione. Questi processi sono come una messa: un rito che gli
iniziati conoscono benissimo e che non cambia mai; indagini, processo, condanna
a pena modestissima e condizionale. Ma il dottor Bisturi non gli credette. Così
un bel giorno i miei due giannizzeri, i marescialli che stavano studiando le
carte, arrivarono nel mio ufficio: “Ma lo sai che Bisturi ha tentato di corromperci?”.
“Ma che dici?”. “Sì, sì; è arrivato il capitano Paghetta (era quello addetto
all’ufficio stipendi, ovviamente amico di tutti i finanzieri) e ci ha detto
che, se davamo una mano al dottor Bisturi, questi ce ne sarebbe stato
eternamente grato, pensa un po’”. “Ma siete sicuri?”. “Certo, come no”.
Richiesta al Gip di custodia cautelare per tentata corruzione e capitano
Paghetta arrestato. Luogo di detenzione: una stanza sita tra l’ufficio del
Colonnello comandante il Nucleo di Polizia Tributaria e quello del suo
aiutante; di fronte, nel corridoio, il bagno: una pensioncina a una stella.
Dopo un rapido tira e molla, il capitano confessa: “Un mio amico, il signor
Ortofrutta, mi ha chiesto un favore…”. Stessa procedura con Ortofrutta: “Va
bene, è vero. Il dottor Bisturi è un mio carissimo amico. Lo vedevo così
abbattuto, poverino. Gli ho detto che conoscevo il capitano Paghetta, forse
potevo aiutarlo. Mi faceva pena, è tanto una brava persona…”. Così anche il
dottor Bisturi finisce nella pensioncina a una stella. E lì confessa anche lui.
Il suo avvocato è furibondo: “Ti avevo detto di stare tranquillo. Che ti è
venuto in mente!”. E anche a me è venuta questa curiosità. Perché tutto questo
casino per 5 mesi e 10 giorni con la condizionale? E gliel’ho chiesto. La
risposta è stata istruttiva. “Vede – mi disse il dottor Bisturi – io lo sapevo
che rischiavo poco o nulla: un po’ di soldi e una piccola pena. Ma ero
angosciato, non capivo più niente. Il fatto è che ho lavorato per 15 anni negli
Stati Uniti. E lì l’evasione fiscale è una cosa seria. Intanto ti sbattono in
galera per 5, anche 10 anni. Ma l’avvocato me lo aveva detto che questo non
sarebbe successo. Però lì c’è la perdita di status sociale. Se ti succede una
cosa del genere, per prima cosa ti cacciano dal country club; e poi non vengono
più a casa tua per i barbecue di fine settimana. Tua moglie non è più invitata
alle gare di torta alla frutta tra le mamme del complesso residenziale dove
abiti. E, dopo un po’, anche la clientela ti abbandona. Ecco, io ero
terrorizzato per tutto questo”. Capito perché in Italia la lotta all’evasione
fiscale è impossibile? Negli Stati Uniti i cittadini e lo Stato sono uniti
contro gli evasori: la società li emargina e lo Stato li sanziona. Nel nostro
Paese, i cittadini e i delinquenti sono uniti contro lo Stato: si proteggono
l’un l’altro e contrastano la repressione e la sanzione. E i rappresentanti
dello Stato che li aiutano si guadagnano consenso.
martedì 21 gennaio 2014
Capitalismoedemocrazia. 44 “Nel mondo ci sono 85 uomini d’oro”.
Il cosiddetto “blocco”
dello scrivano non si allenta. È come essere stretti in una morsa che impedisca
la formulazione di pensieri compiuti. E senza pensieri compiuti resta ben poco
da scrivere. Mi sorprendo d’essere sempre di più incline ai discorsi
convenzionali, banali, tipo del “che tempo che fa”. È la menomazione
propria dovuta al cosiddetto “blocco”. Dello scrivano per
l’appunto. È per sfuggire alla menomazione propria del cosiddetto “blocco”
che mi premuro di scrivere della diseguaglianza. Ancora della diseguaglianza,
direte! Ebbene, è un tema che anche nel recente passato mi ha portato a
scribacchiare per lungo e per largo. Ma è un tentativo, questo, per sfuggire
alla menomazione del “blocco”. Anche perché, della diseguaglianza
tra gli esseri umani come corruttrice e distruttrice della democrazia, ne sono
stato sempre convinto. Ho sempre sostenuto che la “crisi” dovrà in qualche
modo farci uscire “diversi” dal lungo ed oscuro tunnel nel quale ci ha
sprofondati. “Diversi” ed anche un tantino più eguali, nel senso che vengano
ad essere restituite le possibilità di ascesa che sono state sottratte a
larghissime fasce sociali. La “nuova povertà”, che imprigiona
masse sempre più numerose, è la conseguenza diretta della diseguaglianza
imposta da quello che è il capitalismo finanziario dominante e disumanizzante.
Non mi riesce di attribuire – a causa di
uno sciopero delle firme indetto dal Cdr – a quale giornalista del quotidiano
la Repubblica spetti la paternità del dossier che ha per titolo “Nel mondo ci sono 85 uomini d’oro in tasca
la ricchezza di metà popolazione”. In esso sta scritto: «Le
pari opportunità stanno diventando un miraggio a livello globale», afferma
l’Oxfam (che è un’agenzia internazionale per lo sviluppo, l’emergenza e
le campagne di opinione contro l’ingiustizia della povertà nel mondo n.d.r.),
accusando
le élite economiche mondiali di agire sulle classi dirigenti politiche per
truccare le regole del gioco economico, erodendo il funzionamento delle
istituzioni democratiche. È a tutto ciò che bisogna reagire; ché anche
per le diseguaglianze planetarie il discorso non diventi del tipo del “che
tempo che fa”. Poiché il rischio grosso è l’assuefazione. È che a
questo punto mi va di proporre un pensiero compiuto che ho letto in quello
stupendo libro che è “Bartleby, lo scrivano” di Herman Melville: È così vero, e così terribile,
che, sino a un certo punto, il pensiero e lo spettacolo della miseria suscitano
le nostre più nobili emozioni, ma in certi casi, oltre un certo punto, non più.
Errano coloro che asseriscono che, invariabilmente, questo mutamento è dovuto
all’inerente egoismo del cuore umano. Deriva piuttosto da un certo senso di
impotenza di fronte a un male eccessivo e radicale. Per un essere sensibile la
pietà non di rado è sofferenza. Quando si scopre infine che questa pietà non
può risolversi in aiuto efficace, il buon senso impone all’anima di
liberarsene. Continua l’anonimo giornalista del quotidiano la
Repubblica di oggi, riportando una riflessione di Winnie Byanyima che è la direttrice
di Oxfam International: «Viviamo in un mondo in cui chi detiene il
potere economico ha ampie opportunità di influenzare i processi politici,
rinforzando così un sistema nel quale la ricchezza e il potere sono sempre più
concentrati nelle mani di pochi, mentre il resto dei cittadini del mondo si
spartisce le briciole», (…). «Un sistema che si perpetua, perché gli individui
più ricchi hanno accesso a migliori opportunità educative, sanitarie e
lavorative, regole fiscali più vantaggiose, e possono influenzare le decisioni
politiche in modo che questi vantaggi siano trasmessi ai loro figli. Se non
combattiamo la disuguaglianza, non solo non potremo sperare di vincere la lotta
contro la povertà estrema, ma neanche di costruire società basate sul concetto
di pari opportunità, in favore di un mondo dove vige la regola dell’asso
pigliatutto». (…). Una denuncia spaventosa che non mi era ancora
capitato di leggere con tanta chiarezza e che avvalora la mia convinzione che
la “crisi”
non sarà mai superata se non saranno rimosse le storture introdotte da un
capitalismo senza sensibilità e “doveri sociali”. A questo punto
ritengo necessario che leggiate il resto del dossier dell’anonimo giornalista: Immaginate
una bilancia: su un piatto ci sono ottantacinque persone, sull’altro ce ne sono
tre miliardi e mezzo, ma l’ago è in perfetto equilibrio. È la metafora con cui
l’Oxfam, una della più importanti associazioni di beneficenza internazionali,
misura il gap ricchi-poveri sul nostro pianeta: 85 miliardari possiedono 1.200
miliardi di euro, l’equivalente di quanto detenuto da metà della popolazione
terrestre. (…). Non è la prima volta che circolano cifre simili: la ragione
fondatrice del cosiddetto movimento 99 per cento, quello di “Occupy Wall
Street”, era appunto l’idea che l’1 per cento della popolazione mondiale fosse
più ricco di tutti gli altri. “Plutocrats”, un libro- inchiesta della
giornalista Cinthya Freeland uscito lo scorso anno, andava oltre, sostenendo
che il vero oltraggio non è la ricchezza dell’1 per cento contro il 99 per
cento, bensì quella dello 0,1 per cento, la crema della crema, il club dei
miliardari. Proprio su questi si concentra lo studio di Oxfam: gente come il
messicano Carlos Slim, il fondatore della Microsoft Bill Gates, Larry Page di
Google e Warren Buffett. O come Michele Ferrero, Leonardo Del Vecchio e Miuccia
Prada, i tre italiani presenti tra gli 85. In Africa, nota il rapporto, le grandi
multinazionali sfruttano la propria influenza per ridurre la pressione fiscale,
riducendo le risorse che i governi locali potrebbero usare per combattere la
povertà. Lo stesso viene fatto dai giganti della rivoluzione digitale, che
sfruttano scappatoie e sotterfugi per pagare zero o quasi tasse sui loro
immensi profitti. In 29 su 30 paesi sviluppati o in via di sviluppo esaminati
dall’indagine la tassazione per i ricchi non fa che diminuire. E l’1 per cento
dei più ricchi delle terra detiene complessivamente un patrimonio di 180
trilioni di dollari. (…).
domenica 5 gennaio 2014
Cosecosì. 66 Evasione e pioggia a catinelle.
Oggi “non mi cale” di
scrivere. “Cale” che è voce del verbo “calere”. Ché, nelle sue
forme più contorte, del verbo “calere” intendo dire, fece scrivere
in una antica novella “Madonna, siccome poco v'è caluto di costui,
che tanto mostravate d'amare, così vi carrebbe vie meno di me”. Magistrali
coniugazioni del verbo “calere”. È che oggi “piove
a catinelle”. Che è cosa ben diversa da quel “sole a catinelle” di
quel guitto che è tanto di moda. E che ha fatto godere platee numerosissime. Beate
loro, le platee intendo dire. Anzi “beote”, che non è per nulla un
refuso del mio inesperto digitare, ma che intendo dire “beote” per l’appunto,
che per il dizionario Sabatini Coletti “beota” sta per “1 Della Beozia, in Grecia 2 Da
stupido; imbambolato: faccia b. • s.m. e f. 1 Nativo, abitante della Beozia 2
fig. Persona tarda d'ingegno, idiota SIN scemo: sorriso da b. • sec. XVII”.
Risale per l’appunto al secolo diciassettesimo. È che il cielo sembra essersi
appesantito nel grigiore di questa giornata di “pioggia a catinelle”.
L’aria è ferma. Non un refolo di essa. Ed il cielo plumbeo sembra quasi volersi
schiacciare, precipitare, sul mare immoto. È che oggi è il 5 di gennaio appena,
ed avremo ancora ben 360 giorni da scorrere e da contare. Con tutto quel che ne
segue. Ma il mio “non mi cale” è peraltro legato alla opprimente quotidianità
che nelle sue cronache non concede uno spiraglio che sia di cambiamento. Si
dirà, è “lo spirito del tempo” – nel senso storico e non atmosferico –
quello che i germanici amano definire “zeitgeist”. Ma questo stramaledetto
“spirito
del tempo” è sì da lungo tempo oramai che ingombra ed affligge i giorni
che ci sono dati da vivere. Poiché lo scrivere trova incoraggiamenti e spunti
dalla vita che pulsa – quando pulsa – attorno. E se essa, la vita intendo dire,
è come questa giornata grigia, immota, il cielo basso e pesante, il mare che
sembra d’avere scordato i suoi moti naturali di flusso e di riflusso, eterni, e
tutto sembra in uno stato d’attesa che fa pure paura, come in una sospensione
che non ha nulla di naturale, ben pochi stimoli ne vengono affinché si possa
vergare il foglio bianco – in verità si vergava in un tempo andato – per
parlare della vita e dei suoi accidenti. Ed in una giornata di “pioggia
a catinelle” nulla rimane se non l’amata lettura. Ché con essa, la
lettura intendo dire, non hai da inventarti di storie, non hai da farti venire
idee di quelle che gli altri – ma speri invano – possano trovare intelligenti e
stimolanti. – Quant’è stato stimolante quel tuo post! – per scoprire che con
quel post stramaledetto non eri riuscito a rendere palese quel che ti eri
ficcato in mente di dire, di trasmettere l’ideuzza che tanto ti era piaciuta, e
scopri invece che con quello stramaledetto post avevi fatto intendere tutto il
contrario dell’ideuzza tua. Ma così va il mondo. E se oggi “non mi cale” di scrivere
leggo, anzi ri-leggo il ritaglio dell’altro ieri da “il Fatto Quotidiano” – “Evasioni, storie di ladri: dall’idraulico
ai politici” - di Bruno Tinti. Del quale, Bruno Tinti intendo dire, per non
cadere in ulteriori equivoci, la redazione del quotidiano di cui sopra ha
offerto questa breve nota biografica: “Bruno Tinti, l’autore dell’articolo, è
stato magistrato dal 1967 al 2008. Tra il 1992 e il 2000 è stato presidente di
tre commissioni ministeriali per l’elaborazione di una nuova legge penale
tributaria per sostituire la 516/82; il Parlamento italiano approverà la nuova
legge con modifiche tali da snaturarne completamente l’impianto, sì da renderla
del tutto inefficiente”. E così, pur non avendo oggi voglia di scrivere
alcunché, per via della cosiddetta giornata di “pioggia a catinelle”,
qualche cosina sono riuscito a scriverla. Ma urge che io mi fermi, altrimenti
il cosiddetto “blocco” di un inesperto scrivano andrebbe a farsi benedire.
Non mi resta che consigliarvi la lettura del pezzo di Bruno Tinti che di
seguito trascrivo in parte. Allora scrive Bruno tinti… A un certo punto ho capito che
l’evasione fiscale era un crimine grave: 150 miliardi di euro in media all’anno
non li rubano nemmeno tutte le rapine, i furti e le truffe messi insieme;
quanto alle corruzioni, senza evasione fiscale non si potrebbero fare perché
non ci sarebbero i tesoretti riservati. Però quasi nessuno dei pm miei colleghi
aveva una gran voglia di occuparsene. Così ne radunai due o tre che erano
interessati e cominciammo a studiare; e poi a lavorare. Eravamo a metà degli
anni 80. Nel mondo dei ciechi… sapete come si dice. Finì che, a furia di
scrivere articoli e libri sul fatto che la legge penale-tributaria era tutta
sbagliata, mi nominarono presidente di una commissione tecnica incaricata di
scriverne una nuova. Io non ero più tanto giovane nemmeno allora; ma stupido e
ingenuo sì. Così ci credetti e cominciai a lavorare. Ci impiegammo sei o sette
anni (i governi cadevano e risorgevano come funghi e ogni volta si doveva
ricominciare da capo) ma, alla fine, venne alla luce una legge coi fiocchi. Era
anche ovvio: in commissione eravamo magistrati, funzionari delle imposte, Gdf,
avvocati, tutti del mestiere; se non lo sapevamo noi quello che si doveva fare
per contrastare l’evasione… Come metodo di lavoro adottammo le storie di vita
vissuta; ce ne erano a migliaia ma, stringi stringi, appartenevano tutte a tre
categorie: il “nero”, le fatture false e l’abuso del diritto (o elusione
fiscale). Poi gli avvocati insistettero per considerarne un’altra: la bugia
pura e semplice. E da lì cominciarono i guai. (…). Io raccontai la storia
dell’idraulico. Allora, c’è un idraulico che viene incaricato di rifare un
bagno nella casa di un pensionato. Presenta un preventivo, lo discute con il
suo cliente e alla fine si accordano: 3.000 euro. A lavoro fatto arriva il
momento di pagare. “Con fattura o senza?”, dice l’idraulico. “Che differenza fa
– dice il pensionato – abbiamo stabilito 3.000 euro”. “Sì, ma con fattura c’è
l’Iva, 600 euro. Capisci, debbo annotare la fattura in contabilità e a questo
punto l’Iva va versata”. “Ma così io debbo pagare 3.600 euro!”. “Eh, che ci
posso fare. Certo, se mi dai contanti, io non ti faccio la fattura, non devo
versare l’Iva, 3.000 euro avevamo detto e 3.000 sono”. Non gli dice che non
pagherà nemmeno l’Irpef, hai visto mai che il pensionato gli chieda uno sconto.
“Niente fattura – dice il pensionato – Passa domani per i primi mille euro in
contanti”. Rapido calcolo sull’ammontare globale dell’evasione: 600 euro di Iva
e 900 di Irpef (ipotizzando un’aliquota del 30%). L’idraulico ha fregato allo
Stato 1.500 euro. Come lui, milioni di artigiani, commercianti, professionisti,
piccoli e medi imprenditori, ogni giorno evadono con lo stesso elementare
sistema; alla fine dell’anno questo popolo dell’Iva sottrae allo Stato (secondo
Corte dei Conti, Eurispes, Agenzia delle Entrate) dai 100 ai 120 miliardi di
euro. In effetti è un fenomeno preoccupante. (…). Insomma, non basta creare una
contabilità falsa omettendo fatture, ricevute, parcelle e dunque omettendo
l’annotazione di quanto percepito: occorre qualcosa in più. Cosa, non si sa.
Che resta da fare al professionista che, dopo il quinto cliente, comincia a
farsi pagare in contanti e non emette fattura? Mah. Da allora gli idraulici
evadono in pace. E anche il resto del popolo dell’Iva. Se li beccano, solo
“dichiarazione infedele” è. Niente custodia cautelare, niente intercettazioni,
pena piccolina (la tariffa è 5 mesi e 10 giorni con la condizionale). Pensate
che un ladruncolo che si frega un navigatore da una macchina si prende come
minimo un anno. Naturalmente ci restammo tutti un po’ male (ma non gli
avvocati). Quello che mi dette da pensare per molti mesi fu che questo bel
regalo agli evasori non lo avevano fatto Berlusconi&Co. Il decreto
legislativo 74/2000 venne emanato da un governo presieduto da Massimo D’Alema,
con ministro delle Finanze Vincenzo Visco e ministro della Giustizia Oliviero
Diliberto. Da allora cominciai a essere meno stupido.
giovedì 2 gennaio 2014
Storiedallitalia. 35 Severi moniti.
“Anch’io ho commesso un errore”
avrebbe detto l’indimenticato Cesare Polacco in uno dei tanti spot del
“Carosello” d’un tempo. In un’Italia forse un tantino più ingenua ma mai e poi
mai innocente del tutto. Rubo a quel mitico “ispettore Rock” la
battuta. È che lui avrebbe poi aggiunto: “Non ho mai usato la brillantina Linetti”,
mostrando, con una lieve flessione del capo, il suo cranio glabro, nel senso
che più liscio e levigato non si può. Il mio errore è stato di ben altra natura,
però. È stato compiuto, l’errore intendo dire, nel post del 13 di dicembre che
ha per titolo “Quelli che non se ne può più”, della serie “Storiedallitalia”.
È che avevo chiuso quel post con un “Presto che arriva il natale!” all’indirizzo
del movimento pseudo-rivoluzionario dei cosiddetti “forconi” che di lì a
poco si sarebbe spento in vista della rinnovata santa natalità. Mi sbagliavo. E
di grosso. È che ho sperato sino in fondo che il carattere proprio degli
abitatori del bel paese, di non avere memoria alcuna, non mi costringesse ad
ammettere pur anco io di avere “commesso un errore”. È che,
trapassato senza rimpianti il vecchio anno ed accolto con ingiustificati
entusiasmi il novello virgulto, mi è giunta la eco di una cronaca a firma del
noto Michele Serra – “Arrivano i Cobas
dei tatuatori” – pubblicata sull’ultimo numero del settimanale l’Espresso.
La cronaca che ne fa l’illustre opinionista mi ha colto di sorpresa avendo
considerato, erroneamente, quel moto pseudo-rivoluzionario come estinto, o
meglio, ancora alle prese con i festeggiamenti inneggianti al “sole
invitto” che torna prepotente a risplendere nel cielo terso dopo
l’ansioso superamento del recente “solstizio d’inverno”. Donde “anch’io
ho commesso un errore”. I fatti narrati nella cronaca sembrano come provenire
da enormi distanze astrali. Scrive il nostro: Giorgio Napolitano, con un gesto
irrituale, riceve al Quirinale una delegazione del movimento dei Forconi,
formata da un camionista con sei figli rimasto senza lavoro e dal padroncino
che lo ha appena licenziato. I due, nel corso dell’animata discussione nel
Salottino Beige, vengono alle mani e si
rotolano avvinghiati sul pavimento, tra insulti atroci e urla di dolore. In
attesa che i corazzieri riescano a separarli, Napolitano rivolge alla
delegazione «il più sentito ma anche vigile sollecito affinché le ragioni del
dialogo prevalgano, mettendo da parte le inaccettabili inimicizie che tanto
danno arrecano al corretto dipanarsi della dialettica tra le parti sociali». E
sì che l’inclinazione del buon, arzillo vegliardo dall’alto dell’irto colle ad
ammannire moniti ad ogni pie’ sospinto penso non sorprenda più nessuno
nell’intera galassia e pur oltre, ma da che mondo è mondo ci vuole sempre un
po’ di misura. Niente. E così vengo ad apprendere da quella cronaca quasi
marziana che Un ramo oltranzista dei Forconi genera le Roncole, che in una
manifestazione di protesta disboscano Villa Borghese e con la legna ricavata
formano una gigantesca pira attorno alle mura del Quirinale appiccando il fuoco.
In un comunicato ufficiale, ancora leggibile nonostante sia parzialmente
annerito dalle fiamme, Napolitano «con pacatezza ma anche con fermezza invita
le parti sociali a non cedere a facili scorciatoie e a perseguire con
determinazione quella ricerca del dialogo che, unita alla necessaria analisi
delle concrete possibilità di intervento economico e legislativo da parte del
governo e delle sue diverse componenti, è in grado di individuare quelle
soluzioni che possono avviare un processo di distensione». Avevo a
bella posta rinunziato all’ultimo messaggio di capodanno del vegliardo dell’irto
colle. È che, nell’occasione ultima, mi era tornato alla mente l’alto monito
suo al momento del trapasso del precedente vegliardo anno – il 2012, in attesa del pargolo
“tredicino”
-, monito che, con inusitata veemenza e convinzione, rivelava al popolo
trepidante l’esistenza di “una crisi sociale” insospettata e della
quale sino ad allora sembrava non fosse giunta notizia sull’irto colle. Donde,
nell’ultima occasione, dicevo, mi è sembrato sensato, per la mia personale
salute mentale, sfuggire al monito al momento del trapasso del 2013. E così,
sempre dalla cronaca che ne ha fatto Michele Serra della permanente esistenza
di quel movimento pseudo-rivoluzionario detto dei “forconi” apprendo: Il
movimento compie il suo definitivo salto di qualità. Tra le sue componenti
prendono il sopravvento i costumisti, i coristi e le comparse degli enti lirici
(circa 300 mila, tutti in attesa del rinnovo del contratto) che saccheggiano i
magazzini dei loro teatri e allestiscono un’imponente armata in costume. Una
moltitudine impressionante di armigeri egizi (Aida), guardie pontificie
(Tosca), sentinelle cinesi (Turandot), banditi messicani (Fanciulla del West) e
lombardi alla prima crociata marciano su Roma e stringono d’assedio il Quirinale.
Incurante del nugolo di frecce che tempesta i suoi appartamenti e dei tremendi
colpi d’ariete che scuotono le mura, il Capo dello Stato si affaccia alla
finestra e rivolge agli assedianti «un severo monito affinché la legislatura
possa seguire il suo percorso naturale, senza quelle deplorevoli forzature che
impedirebbero ai diversi attori politici e alle parti sociali di stabilire i
provvedimenti necessari e le tempistiche opportune, per affrontare con la
dovuta serenità le difficili prove che attendono la nostra comunità nazionale».
Stremati dal discorso, i manifestanti tolgono l‘assedio e fanno ritorno alle
loro case. È la fine del movimento. E “stremato” e basito resto
anch’io che pur ho disertato d’ascoltare il messaggio di fine anno tenendo
molto alla mia incolumità mentale. Mi domando: quando ritorneranno “quelli
che non se ne può più”? Buon Anno ancora.
mercoledì 1 gennaio 2014
Cosecosì. 65 Almanacco del 2014*.
Gennaio. I mendicanti vendono
rose rosse. Frettolosi viandanti li schivano. Se fosse una scena già scritta
sarebbe Brecht, Testori. C'è un senso di sconfitta negli uomini e nei fiori.
Non so come si annoveri (forse tra i nuovi poveri?) quello che twitta
"Ciao, sono in coda alla Caritas". Nella stagione arida (come spiega
la Fao) quando gira la ruota rischi la pancia vuota.
Febbraio. Fuori nevica. Sciatori
di Pechino salgono in teleferica sul dorso del Cervino. Dicendo cin ciun cen
acquistano in contanti tutti e quattro i versanti. Non sono molto zen. Guardano
indecifrabili quel diedro bellissimo ma raggiungibilissimo da strade
carrozzabili. Tutto sarà asfaltato. Cominciano domani. Nemmeno i valdostani ci
avevano pensato.
Marzo. La crisi offende anche i
ceti protetti. Manager con le agende vuote, come le aziende che hanno appena
svuotato: logica di mercato. Compro-oro costretti a comprare l'argento e giù,
per slittamento, ecco che i comprargento vanno a rubare il rame. Moda quasi
alla fame. Gli stilisti rammendano gli scampoli, purtroppo. Sperando che si
vendano firmano ogni rattoppo.
Aprile. Dopo Stàmina nuove cure
salvifiche! Senza alcuna disamina e inutili notifiche degli scienziati (casta!)
per promuoverle basta che piacciano alla gente. C'è l'oncorepellente estratto
dalle vongole i fanghi di Plutone l'ipnosi con le bombole le flebo di carbone
la gomma di cammella che cancella ogni male e il metodo Di Bella rifatto in
digitale.
Maggio. È maggio e Casaleggio
aggiorna i suoi pronostici. Il web, sotto il maneggio dei regimi più ostici
sarà perseguitato fino al duemilaeventi. Ma poi, transustanziato in divine
sementi feconderà il pianeta: non questo, quello nuovo che predisse il profeta
fatto a forma di uovo. Dai siti neosinfonici vulcani col pennacchio eruttano
sintonici il suono del pernacchio.
Giugno. Napolitano sgrida chi
alza la voce chi alle riforme nuoce chi veste in modo strano chi beve il
cappuccino facendo vrush. Chi tiene i piedi sul cuscino chi non saluta bene chi
gioca coi fiammiferi chi mangia troppo agliato chi accende i caloriferi nei
giorni che è vietato chi si presenta senza i pantaloni in piega e questa sua
indecenza nemmeno te la spiega.
Luglio. Di nuovo in piazza
protestano i forconi. Ma quante le scissioni! Se ne va la ramazza. Si sfilano i
picconi. I rocchetti e i ditali fanno i blocchi stradali ma i camion con
rimorchio li spianano. Spettrali la trebbiatrice e il torchio sfilano nella
notte. La ruspa e l'autobotte chiedono meste l'obolo. Sfilano per le vie mille
consorterie. Però non fanno un popolo.
Agosto. Ferie liquide: lo
spiegano i sociologi. Due giorni tra le rapide pagaiando fortissimo o un
week-end con gli enologi nel maso isolatissimo. Una nottata a Rimini ballando
al Carmencita o anche una bella gita sulle strade del vimini. A Ibiza o
Formentera per una sola sera c'è una mono-movida per chi tira la cinghia. Mai
uno che decida di non fare una minchia.
Settembre. I democratici che han
fatto punto e a capo danno consigli pratici a Renzi, il loro capo. Le tappe: il
segretario diventa commissario dell'Unione Mondiale. Poi presidente aggiunto
dell'Internazionale (nuova sede a Sagunto). Margravio. Gran Visir. Sire dei
Turcomanni. Principe del Pamir. Sindaco di Parigi. Infine, a ottantun anni
andrà a Palazzo Chigi.
Ottobre. Grillo calcola il costo
di ogni briciola che cade dalla tavola. Son quindici centesimi al dì, ma se non
lesini è un attimo che salgono a sedici. Che valgono almeno ventisette delle
vecchie lirette. La colpa è di Bruxél (salgono i decibél) insieme al pidiél e
al pidimenoél troia di tua sorél! Ridurrebbe gli sprechi calcolarli in copechi.
Novembre. Che sorpresa! la legge
elettorale! Si raggiunge un'intesa sull'urna romboidale. Il resto è a
discrezione del singolo elettore: data dell'elezione scheda di che colore in
quale seggio, al mare con l'uninominale o ai monti, dove pare valga il
proporzionale. Puoi votare col vecchio sistema manuale o dirlo in un orecchio
al presidente. Vale.
Dicembre. C'è un segnale di
ripresa industriale. Si vendono più corde per impiccarsi. Sorde alle voci
malevole le volontà politiche rendono più scorrevole il nodo della crisi. Poche
coscienze eretiche affiggono gli avvisi "chiuso per sempre". Vanno
dove nemmeno sanno come Cristo sull'asino prima che glieli brasino con la
storiella greve della ripresa a breve.
*L’almanacco è tratto,
integralmente, da “Duemilaquattordici” di
Michele Serra, pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 31 di dicembre 2013.
Lascio alla Vostra pazienza, alla
Vostra comprensione ed alla Vostra riflessione di navigatori della rete, nel
primo giorno di gennaio dell’anno 2014, un pensiero di Barbara Spinelli tratto
da “I sonnambuli dell’Europa”
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 31 di dicembre 2013: (…).
L’accenno ai baratri, sempre miracolosamente sventati, è divenuto un trucco di
governanti impotenti, inetti, che usano il linguaggio apocalittico e le paure
dei popoli immiseriti «al solo scopo di restare titolari della gestione della
crisi». Lo dice l’ultimo rapporto del Censis: non è «con continue chiamate
all’affanno», né con la «coazione alla stabilità», che si ricostruirà una
classe dirigente. Impossibile ridivenire padroni del proprio destino se gli
Stati fingono sovranità già perdute e si consolano facilmente, come in Cocteau:
«Visto che questi misteri ci oltrepassano, fingiamo di esserne gli
organizzatori». (…). Ora siamo (…) in piena discrepanza tra parole e azioni, e
tutti partecipano alla regressione: compresi gli sfiduciati, i delusi pronti a
disfarsi di un’Europa che non è all’altezza della crisi. È diffuso l’anelito a
sovranità comunque inesistenti, e il sonnambulismo riappare con il suo corteo
di irresponsabilità, ignoranza, patriottismi chiamati difensivi. (…). Ecco la
modernità brutale del 1914, scrive Clark. Anche i popoli — spogliati di
diritti, disinformati — barcollano sperduti fantasticando recinti nazionali
eretti contro l’economia-mondo. Credono di contestare i governi. Sono in realtà
complici, quando non esigono un’altra Europa: forte e solidale anziché serva dei
mercati. Il pericolo, tutti lo sentono per finta. Dice (…) Broch: «Solo chi ha
uno scopo teme il pericolo, perché teme per lo scopo». Da anni siamo abituati a
dire che l’Europa federale ha perso senso, col finire delle guerre tra europei.
Ne siamo sicuri? La povertà patita da tanti paesi dell’Unione sveglia
risentimenti bellicosi. E la mondializzazione non garantisce pace, come
ammoniva già nel 1910 Norman Angell, nel libro La grande illusione.
L’internazionalizzazione dell’economia rendeva «futili le guerre territoriali»,
questo sì. Ma intanto ciascuno correva al riarmo. (…). La forza fisica che
Angell giudicava futile, e però letale, è quella dello Stato-nazione che
s’illude di fare da sé, piccolo o grande che sia. La lezione del ‘14 non è
stata ancora imparata.
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