All’articolo 3 della nostra magna
Carta sta scritto: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti
alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di
opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della
Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando
di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno
sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori
all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese”. Nella
costituzione materiale del bel paese questo articolo non esiste più. E da un
bel pezzo. Poiché quel suo perentorio “rimuovere gli ostacoli di ordine economico
e sociale” al tempo del liberismo più selvaggio ha partorito la “social
card”, ovvero la negazione palese del dettato costituzionale. Una
sostanziale vergogna. Poiché aver pensato alla “social card” ha voluto
significare che quel “compito” affidato alla politica non
ha da essere. Poiché aver pensato alla “social card” è stata l’ammissione finalmente
confessata che la povertà è di questo mondo, è di questo paese che cancella
così quell’imperativo “compito” che pur si era dato. È stato
un abbassar la guardia, è stato uno stare con quell’1% che detiene tanto provvedendo
ad elargire le briciole a tutto il resto del paese. Come si vive con la “social
card”? Meglio che senza? Quanto è bastevole affinché si possa
perseguire – secondo la Carta – “il pieno sviluppo della persona umana e
l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica,
economica e sociale del Paese”? Perché non si danno le risposte giuste
alle domande ineludibili? Istruiti quanto basta con la cosiddetta ultima “legge
della stabilità” si è voluto stabilizzare la “povertà made in Italy”,
come da costituzione materiale vigente. Come si vivrà con 14 euro in più al
mese? E non per tutti. Ha scritto Carlo Verdelli sul quotidiano la Repubblica
del 30 di ottobre, nel già citato Suo scritto
“L’ultimo miglio della povertà”: Povera
Italia che improvvisamente si scopre povera. Ai 4,8 milioni di persone che secondo
l’Istat non ce la fanno più (8 per cento della popolazione, il doppio rispetto
a 5 anni fa), vanno aggiunti altri 9 milioni e mezzo che tirano a campare con
meno di 506 euro al mese. Il totale fa spavento, 14 milioni e rotti. E lo
spavento cresce con i 6 milioni di analfabeti e un tasso di abbandono
scolastico tra i più alti dell’Unione europea. Ha scritto Francesco
Cundari sul quotidiano l’Unità del 21 di agosto dell’anno 2011 col titolo “La crisi è figlia di precise scelte
politiche”, Autore citato nel post di ieri, ha scritto che,
secondo la vulgata del liberismo più selvaggio e dell’inarrestabile
finanziarizzazione della economia, i mercati sarebbero capaci di autoregolarsi
e che non esisterebbe più alcuna differenza significativa tra destra e
sinistra. Non per nulla, a ben vedere, questa seconda affermazione è una
diretta conseguenza della prima: se i mercati possono regolarsi da soli,
scompare necessariamente ogni differenza tra destra e sinistra, per la semplice
ragione che scompare la politica, che è innanzi tutto confronto tra i
rappresentanti di diversi interessi - tutti ugualmente legittimi, s'intende -
per la distribuzione delle risorse. È avvenuta quella che da tempo vado
definendo come la “lotta di classe” all’incontrario. Un colpo da maestri. Sostiene
lo scrittore ed opinionista Goffredo Fofi – in “La vocazione minoritaria”, Laterza editore (2009), pagg. 165, € 12
-: “Una
delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver convinto i
poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la volgarità. In passato
i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva, anche con la
forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che peccassero di
invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene dell’inferno.
Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una cosa del tutto nuova:
la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non ricchi, a far sì che i
non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come maestri di vita, come
modelli assoluti di cui seguire ogni esempio”. Un colpo magico.
Definitivo. Dall’obnubilamento delle coscienze
e dalla “scarnificazione” del pensiero
- come mi piace sostenere - il quadro a tinte fosche che ne risulta è
quello che la cronaca impietosamente offre alla nostra atterrita visione
quotidiana. Storie crudeli di uomini e di donne, che hanno lavorato e creato
ricchezza e sicurezza sociale. Uomini e donne che sono da annoverare oggigiorno in quei “14 milioni e rotti” buttati
fuori dalle loro esistenze, dai loro sogni, dalle loro speranze. Storie
che Carlo Verdelli ha trascritto nel Suo reportage. Storie di sconfitte e di
esclusione, storie d’inumana, misera realtà. (…). …a Carau Antonio, camionista
fino al fatidico 2011, sta diventando insopportabile. «Ho la patente C, 40 anni
di esperienza, l’ultima nel trasporto di carta igienica ai supermercati.
Licenziato, sbam, e nessuno che mi riprende perché a 60 anni, dicono, sono
vecchio. Durante il giorno giro,come tutti noi fregati dal Duemila, spesso vado
alla libreria Sormani dove danno dei film, faccio le code alle mense, mi
ammazzo di colloqui per un lavoro. Ma il vero tormento è la notte. Dormo tra
due marocchini. Ruttano, scoreggiano, non hanno rispetto, si lavano i piedi
dove io devo lavarmi la faccia. Fortuna che ho un amico imbianchino. Gli ho
chiesto di lasciarmi la sua macchina per la notte. Farà più freddo ma almeno
non sentirò la puzza dei cameroni». E così pure (…). …Dario Colucci è un
inquilino di Mambretti (ove è ubicato a Milano un nuovo dormitorio
pubblico n.d.r.), anche lui ha conosciuto il salto in basso repentino, da rompersi le
ossa. Odontotecnico diplomato, 30 anni da artigiano di dentiere e ponti fino
alla specializzazione in modellazioni tridimensionali, ha perso tutto in un
colpo, come al casinò: lavoro, casa, famiglia, tre figli. «I clienti non
pagavano, il laboratorio è soffocato, ci hanno uccisi di tasse. Avevo il mutuo
della casa da pagare, ho consegnato le chiavi alla banca e mi sono trasferito
nella mia Ford Fiesta». (…). E dopo la Fiesta, signor Dario? «Non resistevo
più, ghiacciava anche dentro. Mi sono trovato un localino segreto all’ospedale
di Niguarda, vicino alla sala prelievi. In cambio di non venir denunciato,
aiutavo gratis quello che caricava le macchinette di bibite e merende alle 5 di
mattina. Anche quando sono venuto in Mambretti, ho dato una mano. Pitturare i
muri, pulizie. Adesso quelli dell’Arca mi hanno affidato l’incarico di
operatore notturno. Lo dico sottovoce ma sto ritrovando fiducia». Storie
dei cosiddetti “colletti bianchi”: Caterina Disi ha 48 anni, dei lunghi capelli
neri senza neanche uno bianco e non cerca compassione. Nata in Sardegna,
diploma di educatrice professionale alla Sapienza di Roma, un curriculum di
dieci pagine, ultimo lavoro riconosciuto alla Asl di Ravenna che però la
licenzia, da due anni e mezzo è in giro con le sue valigie. Single, dorme in un
convento di suore, aspetta gli esiti della causa che ha intentato alla Asl («Mi
daranno dei soldi ma non mi ridaranno il posto»), non va alle mense per la
vergogna («Mangio biscotti, piuttosto »), entra ed esce dagli uffici di
collocamento come dalle librerie, senza mai niente in mano. «Ma la fede non mi
fa perdere la speranza. Avrei potuto schiantarmi nella depressione, invece non
ho mai preso un farmaco. Il mio unico sonnifero è il rosario. Ma non accetto
tutto, non accetto più. Ho studiato tanto, lavorato tanto, non ho commesso
reati e mi ritrovo nella povertà assoluta. Pretendo rispetto dal mio Paese.
Pretendo autonomia e ruolo sociale. Voglio giustizia, perché la merito».
Dice Caterina Disi “non ho commesso reati”. In questi giorni, in queste ore, un
cittadino della Repubblica d’Italia – e la corte dei suoi sudditi - si dimenano
sbavando affinché non venga applicata una legge dello Stato. Se fosse incappata
Caterina Disi in quello stesso reato al momento successivo della sentenza della
Cassazione avrebbe viste applicate, da subito, le pene irrogate. Per Caterina
Disi non ci sarebbe stato un “quarto grado” di giudizio, ché tale
è divenuta la manfrina recitata in questi giorni nei palazzi del potere da
quell’”antipolitica” che il potere lo detiene costi quel che costi.
Ed intanto il Paese affonda poiché è certo oramai che i cittadini del bel paese
non “sono
eguali davanti alla legge”. Quel “quarto grado” andrebbe cancellato,
è da nomenclatura sovietica signor B.!
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
giovedì 31 ottobre 2013
mercoledì 30 ottobre 2013
Capitalismoedemocrazia. 39 “L’ultimo miglio della povertà”.
Osservate bene il box che ho
riportato dal quotidiano la Repubblica di oggi e che è parte di un reportage di
Carlo Verdelli che ha per titolo “L’ultimo
miglio della povertà”. Vivono in uno stato di “povertà assoluta” 4
milioni 814.000 italiani; nella cosiddetta “povertà relativa” 9 milioni
563.000. Dati che si commentano da soli. Dati crudeli. Dati allarmanti.
Allarmanti per chi? Sullo stesso quotidiano Massimo Giannini si è prodotto
nella presentazione dell’ultimo lavoro del sociologo Luciano Gallino – “Il colpo di stato di banche e governi”
(2013), pagg. 352, € 19, Einaudi Editore – con un pezzo che ha per titolo “Terminator il banchiere”. Scrive Massimo
Giannini che la “GCG”, o Grande Crisi Globale, non è un accidente della storia,
improvviso e imprevedibile, né un incidente del sistema, previsto e riparabile.
È invece l’effetto di una scelta consapevole e tragicamente sbagliata, che i
governi hanno condiviso con le istituzioni finanziarie e i think tank economici
del pianeta. Il collasso dei mercati non è effetto né della recessione mondiale
(creata da costi del lavoro strumentalmente giudicati insopportabili) né
dell’esplosione dei debiti pubblici (gonfiati da una spesa sociale falsamente ritenuta
insostenibile). Semmai è la causa dell’una e degli altri. L’accumulazione
finanziaria è stata “la risposta” che le classi dirigenti hanno dato “alla
stagnazione economica” e alla disoccupazione endemica. È lo scenario
che i volenterosi ragazzi di “Zuccotti Park” – sembrano ricordi
di un’altra era, provenienti da chissà quale pianeta - hanno cercato di
trasmettere e rendere universale affinché una risposta forte venisse da ogni
dove, ovvero quella loro drammatica denuncia dell’1% che determina il destino
del rimanente 99% degli esseri umani. Sostiene nel Suo pezzo Massimo Giannini: La
crisi origina dalle disuguaglianze, e nello stesso tempo le moltiplica. Lo 0,6%
della popolazione mondiale adulta detiene una ricchezza personale netta di 87,5
trilioni di dollari (pari al 39% della ricchezza totale del mondo), mentre il
69,7% ne possiede per 7,3 trilioni (pari al 3,3% del totale). Fermare la
“macchina”, finora, non è stato possibile. Scenari realizzatisi non per
un destino avverso ma per evidenti scelte e che si sarebbero potuti evitare o
correggere sul nascere sol che la politica fosse stata più accorta facendo
scelte ben diverse nella difesa di quel che un tempo veniva definito il “bene
comune”. Per uscire dal sempiterno gioco del “detto e del non detto” sono
andato a rileggere quanto Francesco Cundari scriveva sul quotidiano l’Unità del
21 di agosto dell’anno 2011 col titolo, inequivocabile, “La crisi è figlia di precise scelte politiche”: (…). A
quattro anni dal crollo dei subprime e a tre anni dal fallimento di Lehman
Brothers, il dibattito politico italiano e internazionale non potrebbe essere
più istruttivo. La crisi presenta il conto agli Stati, che si sono indebitati
proprio per salvare quella finanza che doveva fare da sé, autoregolarsi e
risolvere autonomamente tutti i problemi del mondo. E a Washington lo scontro
tra destra e sinistra è tra chi vuole tagliare lo stato sociale, a cominciare
dalla moderatissima riforma sanitaria di Obama, e chi vuole togliere i benefici
fiscali ai più ricchi. Esattamente come in Italia. Un quadro che dimostra la
falsità di due affermazioni a lungo circolate in questi anni: che i mercati
sarebbero capaci di autoregolarsi e che non esisterebbe più alcuna differenza
significativa tra destra e sinistra. Non per nulla, a ben vedere, questa
seconda affermazione è una diretta conseguenza della prima: se i mercati
possono regolarsi da soli, scompare necessariamente ogni differenza tra destra
e sinistra, per la semplice ragione che scompare la politica, che è innanzi
tutto confronto tra i rappresentanti di diversi interessi - tutti ugualmente
legittimi, s'intende - per la distribuzione delle risorse. Ora però si tratta
innanzi tutto di distribuire i sacrifici, purtroppo. Non per niente, dagli
stessi ambienti da cui fino a ieri proveniva l'elogio dei mercati e della
finanza che è all'origine della crisi, viene ora una violenta campagna di
delegittimazione della politica, che si accompagna alla ripetizione delle
stesse formule e delle stesse ricette che ci hanno portati fin qui. (…). Per
concludere con lo sguardo puntato sulla specificità della situazione italiana: Quello
che il mondo si appresta a pagare è il costo del liberismo, che in Italia si è
accompagnato a una particolare forma di conflittualità politica, tanto
esasperata nella forma quanto vaga nei contenuti, che ha favorito naturalmente
tutte le reazioni antipolitiche e antistatuali, dal leghismo al liberismo. Lo
stesso Silvio Berlusconi si è presentato come il campione dell'antipolitica,
l'imprenditore che alla politica era solo «prestato». In fondo, (…), la sua
intera parabola rappresenta la forma più estrema di privatizzazione del
politico. In Italia, purtroppo, paghiamo il conto anche di tutto questo. L'uomo
solo al comando, che con la sua sola persona doveva surrogare gli odiosi
partiti e gli inutili riti parlamentari, lascia un Paese allo sbando, lanciato
contro un muro. L'idea che si possa risolvere il problema procedendo nella
stessa direzione, e magari con una bella accelerata, non pare delle più
brillanti. E dopo – novembre 2011 - venne la cacciata ad opera dei “mercati”.
Ma non dalla politica buona e del “bene comune”. E lo scenario che ne è
conseguito è ben interpretato e reso evidente nella sua drammaticità dai dati
riportati nel box proposto in alto. Poiché ne diviene che, nell’assoluta
indifferenza dei più della politica, quel banchiere “Terminator”, per come lo
definisce Massimo Giannini, ha ben rodato il suo congegno di dominio assoluto.
Scrive l’illustre opinionista: La “macchina”, messa a punto nei laboratori
dei pensiero neo-liberista trans-nazionale, è ormai capace di auto-rigenerarsi.
La finanza produce finanza. La carta genera carta. La manifattura scompare. I
posti di lavoro spariscono. E in questa dissipazione programmata sviliscono
vite e svaniscono diritti. (…). Nella classifica delle top 20 mondiali, le 14
europee detengono attivi per 28,2 trilioni di dollari, mentre le 3 americane ne
hanno per 5,5 trilioni. Così diventa possibile la «creazione di denaro dal
nulla. In meno di dieci anni, la “macchina” immette sul mercato Ue titoli
cartolarizzati per 7 trilioni di euro (quasi la metà del Pil dell’Unione), 30,5
trilioni di dollari di derivati scambiati su piazze organizzate, e 597 trilioni
di dollari di derivati “Over the Counter” (di cui 58,2 trilioni di Cds, i
certificati assicurazione dei crediti). A questo si aggiunge lo “shadow
banking”, cioè il sistema “ombra” rappresentato da società che operano come
banche senza esserlo, che solo negli Usa vale 23 trilioni di dollari.
L’Occidente vive all’ombra di questa bolla immane, che si gonfia libera e
irresponsabile, esplode e poi ricomincia a gonfiarsi. (…). I governi, vittime
gregarie di una sindrome da “corteggiamento del capitale”, l’assecondano con
strategie economiche incentrate sul taglio del Welfare e sui salvataggi bancari
a carico dei contribuenti. I media, risucchiati dentro una nuova “fabbrica
dell’egemonia”, la cavalcano con un conformismo che finisce per deformare la
realtà. (…). E c’è sempre un qualcuno che vede la luce al fondo del
tunnel e c’è sempre un “babbo-natale” di turno (Letta-Saccomanni) pronto a
regalare la mancetta alle famiglie impoverite affinché si invoglino a
riprendere lo scialo di sempre.
venerdì 25 ottobre 2013
Storiedallitalia. 33 L’extraterrestre, i fagiolini ed il potere.
Se un giorno lontano,
lontanissimo si spera, ci sarà l’extraterrestre di turno che avrà la voglia, dopo
un lungo, lunghissimo navigare per gli spazi sconfinati del cosmo, di capire la
complessità ridicola ed invereconda di un disastrato, scomparso paese sul quale
si sia perigliosamente posato; e se quel giorno quell’extraterrestre avrà da
cogliere la fortunata coincidenza di poter compulsare, come rapito da un
mistero profondo, i testi giusti alla bisogna; solamente allora si sarà resa
opera meritoria alla memoria cosmica che tutto conserva anche oltre la
sopravvivenza dei pianeti e dei corpi celesti conosciuti. Anche oltre la
sopravvivenza delle stesse misere creature viventi che quelle vicende provarono
ignominiosamente a scrivere e che il tempo avrà avuto la bontà e l’accortezza di
cancellare per sempre. Solo che le fortunate coincidenze abbiano a porre sotto
lo sguardo attento di quell’extraterrestre il documento giusto, l’incunabolo prezioso
che disveli misteri e segreti di un mondo immondo che si spera – a quel tempo -
non sia sopravvissuto all’arrivo di quel volenteroso e coraggioso navigatore
degli spazi cosmici infiniti. E se del cartiglio fortunosamente sopravvissuto all’usura
del tempo ed alle alterne vicende quell’extraterrestre, venutone fortunosamente
in possesso, avrà lo spirito tollerante, vasto e libero di penetrarne il senso
più segreto, avrà modo di rendere servigi preziosissimi alla scoperta ed al
disvelamento di quella (in)civiltà scomparsa meglio ed ancor più se avesse
compulsato di seguito tante, tantissime altre più paludate pubblicazioni che,
dalle polveri di quelle rovine, avessero la fortuna di rivedere la luce della
novella stella sorta per illuminare la novella vita. Ed a quell’extraterrestre
non resterebbe, se le fortunose coincidenze gli dessero tra gli arti suoi per
l’appunto i testi giusti, che affondare gli organi suoi della visione per
carpirne senso e mistero della pochezza di quel mondo fortunatamente scomparso.
E tra abrasioni e lacerazioni del sopravvissuto cartiglio avrebbe modo di
leggere quanto il misterioso estensore veniva in un tempo lontano, disperatamente,
a vergare: Gli annali dell'autunno 2013 (autunno per nulla "caldo", anzi
decisamente "indifferente")
ricorderanno uno dei migliori esempi di giornalismo investigativo italiano
degli ultimi anni. La signorina Francesca Pascale di Fuorigrotta (Napoli),
appena 28 anni, agendo sotto le spoglie di fidanzata ufficiale di Silvio
Berlusconi, condusse infatti una pericolosa inchiesta, alla fine della quale
divulgò al grande pubblico che l'economato di Palazzo Grazioli - il palazzo del
Potere per antonomasia: il palazzo dei festini, del lettone, degli accordi e
dei tradimenti politici - pagava i fagiolini 80 euro al chilo. Riscontrato,
secondo i dettami del giornalismo, che i fagiolini a Roma si potevano comprare,
nei diversi mercati a un prezzo variabile tra i tre e i dieci euro al chilo,
considerato anche un possibile sovrapprezzo per il trasporto a domicilio, il
prezzo finale risultava decisamente anomalo. Questa la clamorosa denuncia, che
presenta aspetti paradossali e suggestivi allo stesso tempo, di cui sicuramente
la magistratura si vorrà occupare, essendo evidente la notizia di vari
possibili reati, non ultimo - lascia intendere la Pascale - la circonvenzione
di incapace. L'inchiesta ben si inserisce nello spirito del tempo. Non è
sfuggito a nessuno che l'affare dei fagiolini cade in un momento particolare
della vita politica: Silvio Berlusconi, l'utilizzatore finale dei fagiolini
stessi, è stato infatti condannato definitivamente per una frode fiscale
colossale, ancorché in massima parte prescritta. Il Senato sta discutendo se
espellerlo, proprio per questo motivo. Quello che lo riguarda come uomo pubblico,
ora però lo investe anche nella sfera dell'economia domestica. Come avviene il
ricarico del prezzo dei fagiolini? C'è un Frank Agrama anche nella filiera
alimentare di palazzo Grazioli? Quanti fagiolini si mangiavano nelle cene
eleganti? Berlusconi mangia fagiolini sovrastimati a sua insaputa? Ma come
poteva non sapere? E quanto costa, a noi contribuenti, il fagiolino d'oro di
Palazzo Grazioli? La «fine di un ventennio» può avere accelerazioni tragiche
(speriamo di no), ma anche rivelare virtù nascoste nel popolo; la vicenda di
Francesca Pascale, una donna del popolo che, per amore del suo uomo, sfida il
pericolo come l'ancella fedele nella reggia di Ulisse infestata dai Proci, è lì
a dimostrarci che ci si può sempre riscattare e tornare a sperare. E fa, naturalmente
riscoprire la bontà del tempo antico. Si era appena dopo la fine della seconda
guerra mondiale e al Quirinale, il massimo dei palazzi del potere, sedeva un
integerrimo presidente, Luigi Einaudi. Questi, una sera, invitò a cena un
gruppo di giornalisti e la servitù, per dessert, portò in tavola un piatto di
pere, di grandi dimensioni. Il presidente ne prese una e fece: «Troppo grande
per me, qualcuno ne vuole metà?»; disse di si lo sceneggiatore Ennio Flaiano,
al quale venne depositata nel piatto la sua metà. Erano tempi di grande
frugalità. Poi, come ricorda Flaiano, cominciò «l'era delle pere indivise».
Ché, a conclusione del “divertissement” procuratomi dalla
lettura dianzi proposta e contenuta nel fantasioso cartiglio, mi corre l’obbligo
di rivelare nome e cognome dell’esistente estensore della stessa – lettura
intendo dire -, ovvero di quell’Enrico Deaglio che con competenza e passione ha
affidato alle pagine del Venerdì di Repubblica del 18 di ottobre ultimo il Suo
pezzo che per titolo ha “E l'affare dei
fagiolini mise a soqquadro il palazzo del Potere”. Per l’appunto.
mercoledì 23 ottobre 2013
Cronachebarbare. 25 Maradona, Fazio, il fisco e il gesto dell’ombrello in tv.
È da tempo che ho abbandonato
quell’idea ed ho gagliardamente resistito alla tentazione d’essere spettatore e
partecipe - passivo - di quegli indecorosi spettacoli che il piccolo mostro
elettronico della casa ci vomita con la regolarità naturale delle stagioni.
Conservavo amorevolmente e gelosamente una sola nicchia, piccola, al sabato
sera ed alla domenica sera, sino a qualche tempo addietro, rappresentata dalla trasmissione
della terza rete della Rai, quel “Che tempo che fa” che sembrava ci
restituisse la dignità di cittadini adulti e pensanti, dignità brutalmente
azzerata dai tanti, tantissimi palinsesti adusi a considerare gli spettatori televisivi
del bel paese dei buoni “dodicenni non tanto svegli”. Al quale
mantra ci si era adeguati, colpevolmente dai programmatori delle reti
televisive, inconsapevolmente, forse, dai teleutenti-dipendenti. Una
mitridatizzazione su larga scala. Un’operazione di distrazione di massa. È da
un certo tempo in poi che la mia piccola nicchia non mi è stata più tanto cara.
Uno sguardo fuggevole e poco interessato ad essa – a quella che è stata la mia
piccola nicchia intendo dire - sul piccolo mostro elettronico nel mentre vomita
le sue scempiaggini; un passare ad altra visione per sfuggire ad un imprevisto
livellamento di essa su standard neghittosi che non le si addicono. È così che
mi sono persa l’ultima nefandezza. Ha scritto Francesco Merlo sul quotidiano la
Repubblica del 22 di ottobre – “Maradona,
Fazio, il fisco e il gesto dell’ombrello in tv” -: (…). …il pubblico televisivo più
colto d’Italia applaudiva il reato di evasione, che offende la disperazione del
Paese impoverito, proprio come la corte eversiva del Cavaliere celebra la frode
fiscale davanti al tempio di Palazzo Grazioli. (…). Potenza della televisione
che trasforma i delinquenti in eroi e viceversa. Di sicuro l’intervista di
Fabio Fazio a Maradona diventerà un classico della mancanza di equilibrio, del
rovesciamento di senso, dell’Italia migliore che sarebbe in fondo uguale
all’Italia peggiore, dei moralisti che fanno la morale a tutti, tranne a se
stessi. E ripartiamo dunque da Maradona che ha fatto il gesto dell’ombrello a
Equitalia “che mi vuole togliere tutto: tié”. Come Berlusconi, pure lui
pretende l’impunità. Il reato è, all’ingrosso, lo stesso. Entrambe le condanne
sono definitive. E anche la sfrontatezza è la medesima. Maradona si crede al di
sopra della legge perché ha la manina di Dio e il pibe de oro; Berlusconi
perché è stato eletto dal popolo ed è l’unto del Signore. E così è
stata profanata quella nicchia. Poiché non è pensabile che per un servizio che
sia “pubblico” debbano valere gli stessi parametri delle televisioni che si
definiscano commerciali. Che senso ha portare sul piccolo schermo un campione
dell’ambiguità, l’interprete di una vita sregolata che ha cercato di riempire
di senso ricorrendo agli intrugli che donano un benessere artificioso ed irresponsabile?
Il senso è che, anche per quella che era una nicchia nel marcescente spettacolo
delle televisioni, l’audience a tutti i costi ha bisogno d’essere raggiunto
costi quel che costi. Ma con un pessimo ritorno. Continua Francesco Merlo: A un
pubblico di sinistra il ‘tipo Maradona’ non dovrebbe piacere: per scelta di vita,
abitudini, modelli, letture e passioni. E sarà pure sussiegosa, e anche un po’
finta e verniciata di politicamente corretto, ma certamente quella che si
riconosce nel programma di Fazio non è l’Italia devota o prona ad una variante
del berlusconismo delinquenziale. A nessuno come a quel pubblico dovrebbe
essere chiaro che Maradona non è l’Italia che stringe la cinghia, ma quella che
salta le code e parcheggia in seconda fila, quella che eleva a pedagogia il
fregare il prossimo, quella che “meglio furbi che virtuosi”, quella della
prepotenza e non della solidarietà, quella affascinata dai delinquenti, quella
che si gira dall’altra parte, quella che non paga le tasse … (…). È chiaro che
dialogare con un genio del pallone che è però sregolato in tutto, sino alla
delinquenza fiscale, necessita di una misura, di un senno, di una regola. E ci
sono delle cose che non si possono perdonare neppure a Maradona, per rispetto
di chi paga le tasse e anche il canone televisivo. A meno che non si sostenga
che Maradona, che non le paga, è meglio di Fazio che le paga, come la settimana
scorsa aveva egli stesso ribadito a Brunetta che lo insolentiva. Come può lo
stesso pubblico averli applauditi entrambi? Esigenza di copione? A meno che non
si arrivi al ‘sottosopra’, un po’ in nome del pallone che ci rende tutti tifosi
sconclusionati, ma soprattutto in nome dell’audience che ‘stracangia’ Maradona
in Renzo Piano e trita alla stessa maniera Cacciari e Celentano: l’indifferenziato
televisivo. È questa la vera subalternità, la stessa che trasforma il
giornalista-nemico di Berlusconi nel giornalista-compare: Maradona non si può
contraddire perché non si può maltrattare l’audience. La verità è che c’è una
tecnica televisiva, quella di assecondare a tutti i costi l’ospite, che può fare
danni all’etica televisiva. E il pubblico addomesticato non è più né di destra
né di sinistra: è un pubblico di manichini. Certo, l’ospite va trattato con
educazione, ma non con soggezione, non‘alla Vespa’, che è sempre ben disposto
verso il potente, il vip e il divo di turno. Ed a questo punto, tentando
arditamente d’accostare il sacro al profano, che mi viene di proporre una
paginetta del professor Umberto Galimberti a proposito di quel “finto
dialogare” dei talk show. Scrive l’illustre Autore sul settimanale “D” del 19
di ottobre ultimo – “Se ogni scontro tra
idee diverse finisce in duello” -: Il dialogo (…) non è una cosa tranquilla,
come solitamente si crede, ma come diceva Eraclito, è una guerra (pólemos),
condotta però non per averla vinta sull'avversario, ma per cercare, a partire
dai diversi pareri, la verità. Al punto che, scrive Platone a più riprese, se
l'avversario adduce argomenti troppo deboli o insufficienti a sostenere la
propria tesi, invece di approfittarne per metterlo fuori gioco e umiliarlo,
occorre andargli in "soccorso (…)". Una delle ragioni, anche se non
la principale, per cui Platone riteneva che la politica dovesse essere affidata
ai filosofi è nel fatto che i filosofi, (…), hanno in vista la verità, e in
politica il bene comune, piuttosto che non la difesa strenua della propria
parte (in politica del proprio partito) a prescindere da ciò che è meglio per
la città. Ne sono una prova i talk show politici, dove vediamo prevalere (…)
l'inimicizia e la voglia di sopraffare l'avversario piuttosto che la ricerca di
ciò che sarebbe giusto fare, pur partendo da posizioni distanti. E questo
perché in televisione non si "dialoga". Non tanto perché si
sovrappongono le voci, quando non le grida, ma perché ciascuno tratta l'altro
non come un interlocutore con cui discutere, ma come un pretesto per
sopraffarlo onde riscuotere successo presso il pubblico televisivo. Questa è la
falsificazione di tutti i talk show televisivi: si finge di parlare con il
proprio interlocutore, ma in realtà si parla al pubblico per mostrare la
propria superiorità rispetto all'avversario. Ciò che si cerca, infatti, non è
la "verità", ma la propria "vittoria" su quanti partecipano
alla trasmissione. E siccome in televisione non si può articolare un ragionamento,
ma si deve procedere per frasi ad effetto, slogan, dettati ipnotici, per i
tempi ristretti imposti dal mezzo televisivo, i talk show sono del tutto
inutili perché non chiariscono le idee a nessuno, ma si limitano a confermare
nel pubblico le idee che già si possiedono a partire dalla propria
appartenenza, qualcosa di simile al tifo sugli spalti di un campo di calcio. Sono
stato il profanatore di un pensiero così dotto avendolo accostato –
imprudentemente? - alla ignominiosa vicenda di “Che tempo che fa”? A
quella che è stata per lungo tempo la mia nicchia, la mia ancora di salvezza,
la mia uscita di sicurezza di siloniana memoria? Poiché a “quellichelasinistra”
quell’artista delle pedate non ha nulla da trasmettere se non un moto di pietà
per una vita condotta e spesa al limite di qualsivoglia accettabile regola. Francesco
Merlo conclude: Eppure anche delicatamente si poteva dire a Maradona che le tasse
bisogna pagarle e che le sentenze definitive non possono essere ribaltate in
una trasmissione tv. Bastava immaginare che al posto di Diego Armando ci fosse
ancora Brunetta e ripetergli con fierezza di versare all’erario il 50 per cento
dello stipendio e di non avere nessuna condanna per frode fiscale. Ma è
da un bel pezzo che il Fabio Fazio sembra abbia smarrito la giusta via, per la
qual cosa sono stato costretto ad abbandonare quella nicchia dorata. Da quando
ha smesso di porre quelle domande che sollecitino quelle risposte che rendano
pienamente umani gli uomini del potere, o dello spettacolo o dello sport.
mercoledì 16 ottobre 2013
Cosecosì. 60 Quelli che erano di “Sendero luminoso”.
Dichiarava il cardinale Reinhard
Marx, arcivescovo di Monaco di Baviera, al quotidiano “La Stampa” del 26 di ottobre
dell’anno 2008 – anno di inizio della grande “crisi” -: Con
il tipo di capitalismo ereditato dalla seconda guerra mondiale non andiamo
lontano. Un capitalismo senza un quadro etico è nemico del genere umano.
Bisogna chiedere scusa a Marx: aveva visto giusto. Marxianamente parlando – nel senso dell’Uomo
di Treviri – si può ben dire che il capitalismo finanziarizzato ha fallito
nell’impresa. Scrivevo a breve distanza da quella dichiarazione – era il 18 di
aprile dell’anno 2009 - in “Del
capitalismo egoista”: Avevo appena finito
di leggere l’articolo di Federico Rampini “Se
i mercati cancellano l'etica” sul quotidiano “la Repubblica” che la radio,
quasi sempre accesa in casa nostra per via della tragedia d’Abruzzo, che
orecchiavo sbadatamente nel mentre scorrevo la scrittura dell’illustre
opinionista, dava la notizia di un’azione militare di “Sendero luminoso” in uno dei paesi più problematici del sud
dell’America, il Perù. Chi si ricordava più di “Sendero luminoso“? Grande è stata la sorpresa di mia moglie: –
Allora “sendero lumisoso“ esiste
ancora – è stata la sua immediata reazione e considerazione. Io intanto andavo
indietro negli anni a ricordare. Un istantaneo tuffo all’indietro. “Sendero luminoso”, un gruppo
d’ispirazione maoista, ha rappresentato per quelli della mia generazione, anche
se non maoisti o tiepidamente maoisti, un’ancora di speranza per un cambiamento
radicale della storia dei più derelitti dell’umanità. Come sia andata la Storia,
quella grande e crudele, è sotto gli occhi di tutti. Sentire una notizia
riguardante quel che resta di quel manipolo di visionari mi ha suscitato un
moto di patetica considerazione. Ma non solo. Lo confesso. Confesso che nel mio
intimo mi sono detto, quasi rabbiosamente, che un ritorno alle ideologie pure e
dure, alle speranze nate allora attorno a quei gruppi di coraggiosi visionari,
alle utopie di quel tempo, un ritorno a quella storia minima, un ritorno
insperato, sarebbe oggigiorno salutare per questa umanità disorientata ed
incredula. Inebetita. Un’umanità senza una meta che conti qualcosa. E questo
pensiero fulmineo, fulmineo come un lampo, me lo sono tenuto per me, non ho
osato neanche condividerlo, affidarlo a mia moglie, come quasi sempre mi
avviene di fare. Avrebbe obiettato che la storia di quei gruppi o gruppuscoli
ha comportato anche dolori e lutti. È pur vero. Violenza, certo. Avrei potuto
controbattere che, scomparsi loro, quelli di “Sendero luminoso”, la violenza ha continuato ad esistere in altre
forme, come sempre, da parte soprattutto dei ceti sociali più abbienti e dei
cosiddetti colletti bianchi, da parte dei signori della finanza, che nel corso
del passato millennio ed in questo corrente hanno reso sempre più gravosa
l’esistenza di milioni e milioni di esseri umani. Arricchendosi smisuratamente.
Ed oggi, continuando nella loro violenza di classe, presentando il conto del
loro fallimento alle società d’Occidente e d’Oriente affinché siano esse a
ripianare gli errori della loro dissennatezza. E pensando a quei tempi oramai
andati, a quelle speranze morte e sepolte, a quelle utopie dileggiate in
seguito, mi sono chiesto cosa abbia determinato a livello planetario lo stato
di colpevole acquiescenza, di sonnacchiosa attesa, di inutili aspettative, da
parte soprattutto dei ceti meno abbienti, dei poveri in particolare. E dei
giovani di tutto il mondo, tagliati fuori per gli anni a venire da ogni
speranza di vita dignitosa. Furono quei movimenti, quei gruppi e gruppuscoli
che ispirarono, in quel martoriato subcontinente, in quegli anni, nuove visioni
sociali e, tanto per ricordare, il diffondersi di quel movimento di base nato
all’interno della chiesa cattolica e che prese il nome di “Teologia della liberazione”. Liberazione dalla fame, dalla
povertà, in Terra. Senza un rimando a dopo una vita di stenti. E come anche
quel movimento sia andato a finire, quasi avversato dalle alte gerarchie di Roma,
è la storia degli sconfitti di quel tempo, è la storia della sconfitta di tutti
i deboli e poveri di questo angolo d’universo chiamato Terra. “Sendero luminoso” forse è bene che
continui a vivere nei ricordi nostri, che non torni in campo come in quel tempo
andato, è bene forse che rimanga tra gli affetti nostri di un tempo di
speranze, nell’illusione di una storia nuova a venire. E dei “Tupamaros”? Cosa ne è stato dei “Tupamaros”? E di Monsignor Camara? E
di Monsignor Romero? E di Leonardo Boff? La Storia, la Storia grande, non ha
concessioni da fare agli umiliati ed ai perdenti di sempre. “… el pueblo unido jamas serà vencido…”. Sarà
vero? Ne dubito assai. È che divento sempre più vecchio e quindi sempre più
disilluso. (…). Così sentivo e così scrivevo in quel tempo che sa tanto di
era trascorsa e sepolta. Ma i fatti definiti in quelle mie riflessioni hanno
prodotto i loro effetti che a tutt’oggi segnano il destino d’emarginazione e di
povertà di sempre più larghi strati sociali dell’Occidente progredito. Per
contestualizzare quelle vicende trascrivo una corrispondenza di Federico
Rampini del 5 di ottobre ultimo che ha per titolo “A New York non bastano due lavori per vivere”, corrispondenza
pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica: Alpha
Manzueta finisce il suo primo lavoro (turno di notte) ogni mattina alle 7. E
comincia il suo secondo lavoro a mezzogiorno. Per recuperare un po' di forze,
nell'intervallo tra i due va a dormire. Non a casa sua, perché non ce l'ha. Va
in un centro di accoglienza per homeless. La sua storia è stata raccontata dal
New York Times. «Mi sento bloccata, mi sforzo e mi sforzo, ma per quanto io
faccia non vado da nessuna parte, non riesco a tirarmi fuori dal ricovero per
senzatetto», ha raccontato la Manzueta al reporter che la intervistava. A 37
anni, Manzueta ha una figlia di due anni e mezzo. Quando è sul lavoro porta una
divisa. È un'agente che regola il traffico all'aeroporto JFK di New York.
Quando ha quell'uniforme addosso, è l'ordine e la legge. Quando si toglie la
divisa e torna al centro di accoglienza per senzatetto, viene trattata come una
semi-delinquente: deve rispettare il coprifuoco e consegnare una parte del suo
salario come prova che sta "risparmiando" per trovarsi una casa vera.
Due lavori, e neanche un appartamento? Il suo non è un caso estremo. (…). Il
16% degli adulti single che dormono in quei ricoveri, ha un posto di lavoro. E
il 28% delle famiglie ospitate negli "shelter" (rifugi) ha almeno un
membro che lavora. Molte sono donne, e di giorno noi newyorchesi le incontriamo
continuamente. Possono essere agenti del traffico come Alpha Manzueta, ma anche
commesse di negozi, perfino impiegate di banca. (…). In questo formicaio
brulicante di attività, se hai voglia di lavorare qualcosa da fare lo trovi. Il
che non significa che con un lavoro, o anche due, riesci a campare. (…). Sono
cresciuti i multimilionari, e in un solo anno ben 74mila newyorchesi sono
scivolati sotto la soglia della povertà. Le assunzioni si sono concentrate nei
mestieri meno remunerati: camerieri di ristoranti e bar, infermiere a
domicilio, commesse di negozi, fattorini delle consegne. Invece ha continuato a
svuotarsi la parte che sta in mezzo, la middle class, quel vasto ceto medio che
un tempo comprendeva anche un'aristocrazia operaia di colletti blu dagli alti
salari. Sono spariti 49mila bancari. Tutti quei mestieri che un tempo davano
uno stipendio dignitoso, uno status sociale, la possibilità di mandare i figli
in una buona scuola: sono le professioni "di mezzo" che continuano a
subire un'emorragia. (…). Poi, la sera, alcuni vanno a casa, altri dopo aver
timbrato l'ultimo cartellino tornano al dormitorio dei poveri. Il “capitalismo
egoista” ha divorato il ceto medio, quello strato sociale che ha
consentito il miglioramento della vita di milioni e milioni di cittadini, ha
consentito l’ascesa sociale e la realizzazione di sogni prima proibiti. È stata
la cecità del secolo ventunesimo. Di quelli che erano di “sendero luminoso” il
vescovo di Roma, che ha voluto nomarsi come il fraticello di Assisi, ne conosce
la storia. Una storia di visioni di liberazione dal bisogno se non dalla fame;
una storia di sogni in grande; una storia che sa di tragedia. Ha scritto Moni
Ovadia sul quotidiano l’Unità del 5 di ottobre dopo la tragedia di Lampedusa – “L’umanità perduta” -: È
l’intero modello di sviluppo che governa il pianeta che va portato sul banco
degli imputati. Dev’essere processato il perdurante retaggio del colonialismo,
il più vasto crimine della Storia, con i suoi travestimenti odierni, le
sedicenti guerre umanitarie, il land grabbing (il ladrocinio delle terre).
Questo modello considera gli esseri umani merce vile e i poveri, deiezioni di
scarto. Come «carta dei diritti» ha il libro contabile dei privilegi e per
obiettivo unico, l’ipertrofia dei profitti tramite l’esproprio privatistico
dell’intero creato. Il potere finanziario e politico-finanziario, si serve per
i propri fini, dell’immiserimento dell’economia reale e soprattutto della
riduzione progressiva del lavoro a nuova servitù. Le immense masse di disperati
generati dalle guerre «glocali», dalle migrazioni conseguenti e
dall’accaparramento illimitato delle risorse, costituiscono un’inesauribile
riserva di lavoro servile all’infimo costo della pura sopravvivenza. (…).
domenica 13 ottobre 2013
Uominiedio. 11 Una certa idea della vita.
- E poi ci sarebbe una certa idea della “vita”. Scrivevo il 5 di febbraio dell’anno 2009 – “Di una vita pienamente umana” -: (…). Scrivo da non credente. A me pare, semplicemente, che il divario tra il credente ed il non-credente passi per la “visione” che si ha del concetto proprio di vita. E nella mia riflessione non voglio assolutamente lasciarmi trascinare dalla mia “educazione scientifica”. La linea di confine è collocata proprio in quella “visione” della vita: angusta, poiché rivelatasi nell’occasione irrimediabilmente materialista da parte dei sedicenti credenti, che legano, nella vicenda della sfortunata Eluana, la loro difesa della vita alla difesa di “quella vita” ridotta alla sola materialità o meglio, con minore crudezza, alla sola forma biologica; di grande spessore e che vola alta invece e come insufflata da un anelito di insperata “spiritualità”, messa laicamente tra virgolette, la “visione” espressa nell’occasione dai cosiddetti non-credenti o laici che dir si voglia, che usurpano quasi quella “visione” della vita che dovrebbe essere propria dei credenti nel senso non solo strettamente lessicale. E mi fermo a questo punto su quel “citarsi addosso” di woodyana memoria. Poiché una certa idea della “vita” rientra a buon diritto nella cosiddetta “sovrastruttura”. Idea che non è negoziabile. Riporta il teologo Vito Mancuso – sul quotidiano la Repubblica del 13 di settembre ultimo, “Il Papa, i non credenti e la risposta di Agostino” -: Il cardinal Martini, (…), amava ripetere la frase di Bobbio: "La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede, ma tra chi pensa e chi non pensa". Il che significa che ciò che più unisce gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un'apertura della mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia tra i credenti). (…). …per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. (…). È quindi particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella distinzione tra fede e ateismo. Ben detto. Che prova a mettere nei giusti limiti ed al riparo dalle “esagerazioni” del momento gli scambi epistolari di questo giorni del secolo ventunesimo. Poiché le differenze, pur su di un piano di parità dialogante, devono pur esserci. Ma avviene, poiché è sempre avvenuto, che una delle posizioni in dialogo tenti di divenire la posizione “erga omnes”. Ovvero, una certa visione della “vita” che annulli le differenze. Scrivevo in quel tempo infuocato da un contesto da tragedia: Come è possibile porsi a difensori di una vita che non abbia una “consapevolezza” del proprio “essere”, del proprio stato, di una vita che non abbia nulla di vita di relazione con gli altri e con la propria individuale storia? Quei difensori della vita, di una vita ripeto ridotta allo stadio biologico, dovrebbero, a rigor di logica, erigersi coerentemente a difensori di tutte le forme di vita biologica; tralasciando le forme microscopiche per la loro intrinseca non visibilità nel mondo reale dei sensi ed andando su su per la scala della complessità biologica, dovrebbero erigersi a strenui difensori dei platelminti, così come dei celenterati, e degli artropodi, e dei molluschi, per non dire del resto dei vertebrati se non dei rimanenti mammiferi. Niente di tutto ciò. Istruiti alla parola della provvidenza che sia divina, abbacinati da un credo che li conduca a ritenersi creati “a somiglianza” di un’entità assolutamente astratta (dio!), hanno i credenti occupato il pianeta chiamato Terra da padroni assoluti e con i comportamenti conseguenti verso tutte le altre forme di vita biologica. La “sacralità” della vita umana ridotta al solo aspetto biologico rimasto viene tirata fuori nella vicenda tristissima di Eluana; quella vita non più umana, ma soltanto biologica, vita difesa con altisonanti proclami, e manca poco che si invochino le ire e le saette dell’astratta identità superiore che tutto ha creato. Mi sconcertano queste tristissime vicende del tempo nostro. È come se gli uni, ovvero i credenti, avessero perso i connotati loro, il loro anelito alla trascendenza, la loro visione della vita che travalica, o che dovrebbe travalicare per l’appunto l’angusta “visione” della vita ridotta allo stato “miserevole” (quante mortificazioni della carne hanno dovuto assaporare i credenti di questo mondo) della corporalità. È così che la “sovrastruttura” di una parte diviene la “sovrastruttura” per tutti. Ecco perché mi appaiono fuor di luogo gli entusiasmi suscitati, in particolari ambienti di pensiero, da tutte quelle epistole che sembrano volteggiare sulle nostre teste, sulle nostre coscienze. In una Sua riflessione – “Perché non amo il papa pacione” su “il Fatto Quotidiano” del 28 di settembre - Massimo Fini ha scritto: Nell’evangelizzazione c’è (…), in nuce, il vizio oscuro di tutta la storia dell'Occidente, il tentativo di reductio ad unum dell’intero esistente. L’evangelizzazione partorirà molti figli, apparentemente diversissimi. Il primo sarà l’eurocentrismo, il colonialismo europeo che si basa, almeno a partire dal XV secolo, sulla distinzione fra culture “superiori” e “inferiori” e il dovere delle prime di portare la civiltà alle altre. Il secondo figlio – anche se può apparir strano – sarà l’Illuminismo che a Dio sostituirà, assolutizzandola, la Dea Ragione. La Rivoluzione francese e le truppe napoleoniche si incaricheranno di esportare, sulla punta delle baionette, questa inedita “buona novella”. Il terzo – il che può apparire ancora più strano – sarà la Rivoluzione sovietica che, sotto il manto del materialismo scientifico e dell’internazionalismo proletario, tenterà di ricondurre tutto il mondo sotto il suo modello (…). Il quarto, il più compiuto e realizzato, è il modello di tipo capitalista. La sua formidabile espansione si basa su una sorta di evangelizzazione mercantile e tecnologica che ha al suo fondo la convinzione che questo sia “il migliore dei mondi possibili”. È in virtù di questa convinzione che ci siamo intromessi in tutte le altre culture, assimilandole o, quando non è stato possibile, togliendole brutalmente di mezzo. Dio ha preso le forme della ruspa. Quando Bergoglio afferma che “senza lavoro non c’è dignità” non so se si renda conto che così si inserisce, a pieno titolo, nonostante le parole su solidarietà e misericordia, in questo modello disumano. Un suo predecessore, un po’ più autorevole, San Paolo, che la Chiesa l’ha fondata, definiva il lavoro “uno spiacevole sudore della fronte”. Io non sono credente ma, pistola alla tempia, sto con Paolo non con Bergoglio. Il dito nella piaga, in quella che l’illustre chiama “evangelizzazione” che è da sempre il tentativo non taciuto di “reductio ad unum dell’intero esistente”. Anche su quella certa idea della “vita”. Scrivevo oltre: Ma lo stato “miserevole” della corporalità non dovrebbe rappresentare per i credenti solamente uno “stato del passaggio” verso quella vita gaudiosa che li attenderebbe oltre l’azzurro del cielo? È, quest’ultima, la visione della vita che manca al non-credente, al laico in quanto tale. In questa tristissima vicenda di Eluana sembra che le parti si siano invertire, come da un blasfemo copione. Preciso meglio. Ho sempre creduto e sostenuto che l’unica “singolarità” che renda l’uomo “veramente umano” sia la sua percezione della inevitabile e sempre imminente “fine”. Fine della propria corporalità, non della Storia. Solamente l’uomo veramente “umanizzato” – reso umano sin dall’atto del concepimento, dallo stadio di zigote o magari oltre? difficile questione assai – ha questa consapevolezza che lo distingue da tutte le altre forme viventi. Ho sempre sostenuto come sia impropria se non da considerarsi sommamente “errata” la tanto abusata espressione “venire al mondo”: “venire al mondo” al pari di un verme qualsiasi, al pari di una formica qualsiasi ecc. ecc. Tutte le forme biologiche nascendo “vengono al mondo”. Non per l’essere umano “umanizzato”. Per l’uomo penso debba valere meglio il suo “venire nel tempo” che sta ad indicare la sua consapevolezza di essere venuto sì al mondo ed al contempo la sua consapevolezza di “doverne immancabilmente uscire”. Quale altra specie biologica condivide con l’umana specie tale consapevolezza? Nessuna specie biologica che io sappia. Nella scala della complessità biologica le varie forme viventi hanno sviluppato anche “sensibilità” al dolore, alla familiarità, alla filiazione, alla sessualità, ma nessuna forma biologica, che io sappia, ha sviluppato la consapevolezza propriamente umana di “venire nel tempo”, di “essere nel tempo”, di essere “entrati nel tempo” e di dovere un giorno “uscire dal tempo”. E fermo a questo punto quelle mie riflessioni. È possibile concedere “sconti” su questa che è una certa idea della “vita”? È possibile farsi soverchiare da una certa “sovrastruttura” che neghi, in determinate, sfortunate circostanze della vita, queste particolarità dell’essere vivente chiamato uomo, totalmente uomo? Il dialogo è dialogo se non è impari. Altrimenti ne segue l’assolutismo. E l’assolutismo è la negazione dello stato di umanità.
mercoledì 9 ottobre 2013
Uominiedio. 10 “Il soffio di una spiritualità morta”.
È divenuto un quotidiano
scambiarsi messaggi epistolari. Ne intasano la carta stampata. La qual cosa non
disturba il buon, civico senso ma il gusto della misura certamente sì.
Scienziati e fini teologi – duellanti Ratzinger/Odifreddi -, giornalisti di
chiara fama prossimi alla pensione ed eminentissimi esponenti di quella che è
la curia della chiesa di Roma si son messi di buzzo buono per un cosiddetto
confronto a tutto campo tra chi crede e chi non crede. O magari che vorrebbe
credere ma non può. A ben ragione. Sol che la ragione resista alle sirene del
tempo. Ma gli “Ulisse” dell’oggi non hanno tempra forte e buona. E di
contorno a questo fitto scambio epistolare l’agitarsi dei numerosissimi turiboli
che atei devoti e nuovi sedicenti aspiranti adepti non si stancano di agitare con
forza per diffonderne il benefico olezzo. Come sempre si saluta qualche appena annunciata
ed abbozzata novità con il sigillo di “rivoluzione”. Succede quando le
parole hanno perso di senso. C’è stato un tempo in cui si è dibattuto del binomio
“struttura/sovrastruttura”
e tanto il moro di Treviri quanto l’Uomo della nuragica Ales hanno a quel
binomio dedicato pensieri e vita. Forse inutilmente, se queste sono le
risultanze dell’oggi. Donde ne deriva un interrogativo: perché tanto entusiasmo
attorno a quegli scambi epistolari? Ha scritto Guido Ceronetti sul quotidiano
la Repubblica del 18 di settembre ultimo – “Ma
io diffido dell’amore universale” -: Di applausi tutti ne ricevono troppi. Mi
dissuade dall’applaudire l’eccessiva reciproca tolleranza. Il Contrasto
(Pólemos) non è “padre di tutte le cose”? Una parola moderna è ancora più
forte: “Il combattimento spirituale è altrettanto brutale della battaglia
d’uomini” (Arthur Rimbaud). Sulle questioni ultime, bisogna soffrire e far
soffrire con le parole. Manca il dramma, nel dialogo Papa-Scalfari. Ciascuno,
nel proprio dogma, si sente al sicuro. Dubito sia così, tra persone di elevata
intelligenza, nel loro interno, ma non c’è rumore, nel loro scambio, di spade
incrociate all’ultimo sangue. Entrambi gli interlocutori hanno in comune il
soffio di una spiritualità morta, perciò il combattimento che impegnano è
orfano della brutalità rimbaldiana. Poiché è fuori da qualsivoglia
dubbio che tra i due che si scambiano epistole lunghe, lunghissime non potrà
che realizzarsi, al massimo, una benevola, cortese, civile “reciproca tolleranza”, pratica
che le società dell’Occidente hanno potuto mettere in atto essendo state
benedette – e salvate di conseguenza, ma con quanto spargimento di sangue! - da
quei trambusti che sono stati la rivoluzione francese e l’Illuminismo, ed un
pensiero laicamente forte che ha sortito l’effetto di parlare tanto ed a lungo,
per l’appunto, di quel binomio dimenticato. Con tutto ciò che ne è derivato. Ha
scritto Maria Gabriella Gatti – neonatologa e psicoterapeuta – sul settimanale
Left (39) del 5 di ottobre ultimo – “Noli
me tangere” -: Se la scienza moderna avesse dato ascolto alla Chiesa che pretendeva di
derivare la verità dalle scritture, ancor oggi avremmo una visione
dell’universo con una forma a tabernacolo, le autopsie sui cadaveri o i parti
cesarei sarebbero empie profanazioni, i malati di mente verrebbero rinchiusi e
puniti in quanto peccatori, quando non bruciati in innumerevoli roghi se
isterici come le streghe. Verità immarcescibili su scenari storici di
non lontanissima memoria. E che ritroviamo intangibili oggigiorno – a mo’ di
feticcio – laddove i trambusti prima accennati non abbiano diffuso i loro
benefici effetti. Ebbene, l’incessante e voluminoso rapporto epistolare tra
quei volenterosi pensatori di quanto sposterà dalle rispettive posizioni di
principio gli infaticabili, moderni amanuensi? Mi pare di poter dire che tutto
si risolverà in un “tanto rumore per nulla”, di shakespeariana ispirazione. Intanto
i media ci avranno sguazzato a loro compiacimento. Ed i gonzi a stare lì, a
bocca aperta per le meraviglie offerte dal tempo. È pur vero che il vescovo di
Roma si è messo di buzzo buono a rimettere a posto lo stuolo numeroso che lo
circonda in curia; un lavoro che riguarda la “struttura”, per
l’appunto, ma che lascia del tutto inalterata quella che quegli uomini d’alto ingegno
e pensiero hanno ascritto alla “sovrastruttura”. E che la “struttura”
della chiesa di Roma avesse bisogno di una “messa in riga” è cosa notoria e che
avrebbe menato scandalo non affrontarla con il dovuto piglio. I problemi di “valore”
– o dei “valori” - sono ben altri. E Maria Gabriella Gatti ne propone
uno – uno dei tanti in verità - sull’ultimo numero della rivista citata: «Ogni
bambino non nato, ma condannato ingiustamente ad essere abortito, ha il volto
del Signore che, prima ancora di nascere, e poi appena nato ha sperimentato il
rifiuto del mondo». (…). Parafrasando il celebre Dai a Cesare ciò che è di
Cesare, si potrebbe dire lascia ai medici ciò che è dei medici e dai a Dio ciò
che è di Dio. Noi invece assistiamo, con papa Francesco, all’ennesima ingerenza
delle gerarchie clericali che “pontificano” sulla vita umana, sull’embriologia
e sulla neonatologia. Si confonde sistematicamente la realtà del bambino con
quella dell’embrione e del feto che dal punto di vista strettamente biologico e
scientifico, come è ampiamente accertato, hanno caratteristiche completamente
diverse. Se è corretto attribuire al neonato la vita umana non è affatto
legittimo pensare che quest’ultima sia presente nel feto né tanto meno
nell’embrione. (…). Rispetto ad interventi precedenti dei suoi predecessori su
temi analoghi Bergoglio compie un passo ulteriore sovrapponendo la figura del
Cristo al feto e all’embrione. Forse la didascalia più adatta a questa
sovrapposizione fra il sacro ed il profano, potrebbe essere “Noli me tangere”
del Vangelo di Giovanni, esortazione a non indagare su ciò che appartiene alla
sfera del sovrannaturale. (…). La Chiesa quindi si mobilita e reclama un ruolo
subalterno della biologia rispetto alla dottrina che stabilisce che lo zigote è
“persona” in virtù di un dogma in contrasto con le conoscenza della genetica e
dell’embriologia. Mentre papa Francesco accetta la medicina che allevia le
sofferenze del corpo, nega le conseguenze logiche che derivano da nuove
scoperte. Prima della 23/24 settimane il feto, se nasce, non ha nessuna
possibilità di vita in quanto le connessioni cerebrali fra organi sensoriali e
corteccia non sono formate. Nell’aborto pertanto non c’è nessuno scarto di una
vita umana ma solo l’interruzione di un processo puramente biologico: è
completamente assurdo equiparare il rifiuto del bambino, dell’anziano, del disabile
e del malato a quella dell’embrione come se tutti avessero la stessa
implicazione morale, psicologica e giuridica di quest’ultimo. (…). Papa
Francesco e il suo doppio: dietro Bergoglio rispunta inquietante l’ombra di
Ratzinger, l’uomo dell’intransigenza che dava ragione all’inquisizione contro
Galileo. (…). La biologia staccata dalla mente è materia inerte che, secondo la
dottrina, si illumina solo se ricettacolo della creatività divina. L’apertura
verso il nuovo non esiste: la Chiesa lenirà le ferite delle anime lacerate dal
peccato originale fino alla fine dei tempi. Assistenza e confessione: la
sofferenza deriverebbe dalla presenza metafisica del male e non da una malattia
mentale che è possibile curare ed eliminare. La storia sarebbe già scritta e il
destino umano, già segnato, è l’imitazione di Cristo. Sino a qual punto
la chiesa di Roma sarà disponibile a contenere oggigiorno la sua “egemonia
culturale” – categoria di gramsciana memoria - che travalica l’atto di fede
per divenire dominio culturale e di direzione intellettuale e morale e che, per
dirla tutta con le parole scritte nei Suoi diari dal carcere fascista, «sia
in grado di imporre ad altri gruppi, attraverso pratiche quotidiane e credenze
condivise, i propri punti di vista fino alla loro interiorizzazione, creando i
presupposti per un complesso sistema di controllo»? La “sovrastruttura”,
per l’appunto, del grande martire della tirannide fascista. Scrive ancora Maria
Gabriella Gatti: Il pericolo un tempo rappresentato dalla fisica e dalla cosmologia di
Copernico oggi è rappresentato dalla biologia e dalla psichiatria che ha
rivelato il segreto della nascita umana e dell’origine del pensiero. L’embriologia
e la neonatologia attuali costituiscono un pericolo mortale per la Chiesa
cattolica: queste discipline forniscono interpretazioni, laiche ed immanenti,
dell’origine del pensiero. Esse hanno confermato le ricerche dello psichiatra
Massimo Fagioli sull’importanza della trasformazione della nascita e
l’emergenza dell’attività psichica, senza la quale non c’è vita umana, dalla
realtà biologica che ormai sono presenti nella scena culturale e scientifica da
più di quarant’anni.
sabato 5 ottobre 2013
Lamemoriadeigiornipassati. 13 “L´Italia dei veleni”.
Il 5 di ottobre dell’anno 2011
Franco Cordero pubblicava sul quotidiano la Repubblica una riflessione col
titolo “L´Italia dei veleni”. È
fresca di ieri – 4 di ottobre 2013 - la deliberazione della giunta per le
elezioni che ha chiesto al Senato della Repubblica la non validazione della
elezione dell’egoarca di Arcore. Tutto sembra volgere ad un epilogo auspicato.
Auspicato da chi? Da una buona fetta del popolo italiano che, refrattario alle
manovre illusionistiche, ha saputo “resistere resistere e resistere” nel
quasi ventennio di dominio dell’uomo di Arcore. Ci sarà l’epilogo auspicato?
L’uomo è dei più imprevedibili. E, come un abilissimo prestidigitatore, non è
detto che non tiri fuori il “coniglio” per l’occasione. Non ci
sorprenderebbe. Ma prima che vi lasci alla lettura di Franco Cordero mi preme
sottoporre alla vostra cortese attenzione quanto segue. Chiede l’intervistatore
sul quotidiano la Repubblica di oggi - "Questa
decisione non rafforza le larghe intese" di Alberto D'Argenio -: In
attesa del voto dell'aula si possono riaprire le fibrillazioni sull'esecutivo
Letta? - A fronte di questo atto politico violento, grave ed ignobile fa da
contraltare la testimonianza umana e politica di Berlusconi che anche in questi
giorni ha dimostrato grande sensibilità istituzionale garantendo il governo
anche se con decisione travagliata. Però così si espellono milioni di elettori
che hanno votato e si riconoscono in Berlusconi, fatto che inevitabilmente
susciterà una reazione. Penso che proprio perché la persecuzione è evidente, ci
sarà una naturale reazione da parte dell'elettorato che purtroppo per la
sinistra non avrà l'effetto di archiviare Berlusconi. Anzi, ci darà la spinta
ad andare avanti a combattere per la libertà, per salvare la democrazia e per
ottenere la riforma della giustizia-. La domanda è rivolta a quel genio
che da ministro della pubblica istruzione dichiarò d’avere il suo ministero
finanziato il tunnel che avrebbe collegato la Svizzera con il Gran Sasso, in
quel d’Abruzzo, onde consentire alle particelle subatomiche un confortevole, rapido
viaggio. Ricordate? Quel genio si riconferma. Intanto negando il principio di
realtà. E lamenta che quella giunta priverà di una rappresentanza politica “milioni
di elettori che hanno votato e si riconoscono in Berlusconi”. La
poveretta tace su di una incontrovertibile realtà giudiziaria per la quale
l’uomo ha frodato milioni di cittadini italiani ai quali dovrebbe rendere il
maltolto. Ma tutto ciò, per quel geniaccio, non esiste. Poiché il malaffare è
stato consumato sulla pelle di tutti gli italiani e se quei “milioni
di elettori che hanno votato e si riconoscono in Berlusconi” sono
pronti a rinunciare alla restituzione – virtuale – del maltolto per l’amore che
essi portano all’uomo di Arcore, come la si mette con il resto del popolo
italiano? Ma quell’”atto politico violento, grave ed ignobile” non è stato
compiuto da una assemblea prevista dalla Carta e costituzionalmente protetta?
Cosa ne pensa di tutto ciò il supremo garante della Costituzione? Che dall’alto
dell’irto colle non abbia avuto notizie di simili nefandezze? Ed ancor più,
cosa ne pensa quell’inquilino della non tanto sottaciuta minaccia di quel genio
– “fatto
che inevitabilmente susciterà una reazione”- ? Non si configura
un’istigazione a delinquere? Contro chi? Ha scritto Marco Vitale su “il Fatto
Quotidiano” di oggi – “Il pessimo finale
è solo all’inizio”-: Nel 1994 in una intervista che mi fece un
eccellente giornalista di Brescia Oggi (Sbaraini) dissi che l’entrata esplicita
in politica di Silvio Berlusconi, che avevo conosciuto con Montanelli al
Giornale (dissi esplicita perché lui, coperto, è sempre stato in politica, sin
da quando sovvenzionava la mafia) rappresentava un pericolo a lungo termine per
la democrazia italiana. (…). Vittima di paure angoscianti, sconvolto da grandi
incertezze, egoista sino allo spasimo, privo di ogni senso di responsabilità,
privo di rispetto non solo per lo Stato, ma per chiunque, quest’uomo che ha
fatto danni incalcolabili al nostro Paese, i cui effetti negativi, come ho
sempre detto, dureranno almeno cento anni, è la negazione della leadership. È
un capo banda non un leader. (…). Noi di Berlusconi, (…), possiamo dire: sono
certo che siamo tutti peggiorati perché l’abbiamo conosciuto e che con il suo
esempio ci ha fatto vedere la vita come una cosa meschina e vile. Ci si
chiede: cosa c’è da esultare a seguito della rinnovata “fiducia” al governo
delle “larghe intese”? Non è un esultare da sprovveduti? Poiché le
cose di oggi le si conosceva da lunghissimo tempo. Ed il “caimano” è sempre lì, in
agguato. Afferma quel genio come l’uomo di Arcore “in questi giorni ha dimostrato
grande sensibilità istituzionale garantendo il governo”. Ho già scritto
in un post precedente che saremo costretti a dirgli “grazie”. Dopo essere
stati collettivamente derubati. Le fumisterie del politichese – “maggioranza
numerica”, “maggioranza politica” – non ci salveranno dal baratro. La “mossa”
dell’uomo di Arcore è stata fatta per non perdere l’aggancio per un possibile, insperato
salvataggio; i rivoltosi si guardano bene, infatti, di dare un seguito alla
nuova “maggioranza politica” che escluda l’imbarazzante – per chi ha
resistito in tutti questi anni - “maggioranza numerica”. È tutto un
recitare le parti di un prevedibilissimo copione. Come prevedibilissime sono le
cose note e meno note che lo scritto di Franco Cordero squadernava il 5 di
ottobre dell’anno 2011. Lo si legga.
La XVI legislatura è caso
esemplare nel laboratorio politico. Aprile 2008: miserabilmente abortito
l´ultimo governo centrosinistro (dove sedeva, inverosimile guardasigilli, un
nomade berlusconoide), B. stravince; non s´erano mai viste maggioranze simili;
cappello in mano, gli sconfitti rendono ossequio al trionfante. Dal loro campo
volano ammissioni contrite: che incarni l´anima italiana; e schieri un
ragguardevole establishment, particolarmente sul côté rosa. Donde
un´autocritica: al diavolo l´antiberlusconismo, roba maniacale; «non porta da
nessuna parte»; «tra vent´anni perderemmo ancora». Rivisitata, quest´analisi
masochista suona sbalorditiva. L´asse gira storto nella famiglia politica se i
perdenti dissertano così. I fatti erano più grossi d´una casa. L´uomo al
potere, presunto reinventore del liberalismo (il veleno sta nell´aggettivo
“moderno”), è un pirata in colletto bianco, voracissimo malaffarista, dedito al
monopolio parassitario, egemone nel medium televisivo, col quale disintegra gli
organi pensanti disseminando un immorale culto del successo aperto a chiunque,
purché sia abbastanza furbo e svelto (i poveri diavoli lo godono in forme
ipnotiche). Figura, discorsi, gesti, segnalano mente corta e asfissiante
volgarità: le sue doti, molto cospicue nel codice malavitoso, appartengono al
genere fraudolento, senza escludere atti brutali quando possa permetterseli;
organicamente negato alla conduzione della Res publica, non sa da che parte
cominci il mestiere; è un maniscalco in lavori d´orafo; e tale appariva nella
XIV legislatura, governando talmente male da cadere. Cosa sia l´establishment,
poi, lo dicono immagini e cronache, una corte dei miracoli uscita da
infallibili selezioni in basso. L´aprile 2008, dunque, presenta un´Italia in
pericolosa spirale involutiva: quel regime piratesco infirma le radici morali
(vedi etica calvinista e spirito del capitalismo): sotto tale aspetto la
fortuna berlusconiana è pessimo affare; regrediamo nello sviluppo economico ma
sull´onda d´una congiuntura favorevole, finché duri, pochi se ne accorgono; e
se ha mano libera, in cinque anni l´occupante riconfigura lo Stato quale
monarchia caraibica, applaudito dai cantori della «moderna democrazia
liberale». Quante volte l´ha detto, che trasciniamo strutture obsolete, nel cui
labirinto non può decidere: potendo, governerebbe come guida le aziende, a
colpi fulminei (sbracato conflitto d´interessi e pudibondo silenzio nel coro);
cova riforme radicali; il modello è la Protezione civile, organo d´un
management risoluto, tra «uomini del fare». Gli guasta i piani la crisi
americana nata dai mutui subprime, poi planetaria. Dapprima nega l´evento,
incolpando gufi del malaugurio, ma i fatti hanno logiche testarde, insensibili
all´imbonimento: i pazienti percepiscono sulla pelle quanto male vadano le
cose; milioni d´italiani impoveriti aprono gli occhi; l´incombente povertà
dissipa i fumi della sbornia. Qui emergono irrimediabili difetti. L´incantatore
pifferaio zufola refrains monotoni, via via meno credibili. Dove non abbia
tornaconti, sta immobile confidando nelle stelle, furiosamente attivo invece sul
fronte giudiziario: l´unico che gl´importi; aveva sfondi criminali
l´irresistibile ascesa, dissimulati da mani esperte, ma qualcosa affiora; e in
otto anni perverte l´arnese legislativo rabberciandosi espedienti d´immunità
penale. Lavorio da stregone apprendista, perché norme costituzionali ostano a
tali scempi, però iberna i processi, disfarsi dei quali diventa il clou
dell´agenda governativa. Il tutto nell´occhio pubblico, acuito dal malessere:
aggravano l´effetto nuove accuse; le cercava inscenando serate postribolari
penalmente valutabili. (…).
venerdì 4 ottobre 2013
Quellichelasinistra. 2 Lo scandalo della diseguaglianza.
“Quellichelasinistra”. Ché
non si sentono di “stare a sinistra”, come per l’occupazione di una casamatta.
Per una guerra che non si conduce più. Ché non si sentono “di sinistra”, così
indistintamente. Di “quellichelasinistra” Marco Revelli – su la Repubblica dell’8
di agosto, “Bisogna sentire lo scandalo
della diseguaglianza” – ha detto a Simonetta Fiori: «Cosa vuol dire essere di
sinistra? È un impulso prepolitico, una radice antropologica che viene prima di
una scelta di campo consapevole. Davanti alle disparità di classe o di censo o
di condizione sociale, c’è chi si compiace, traendone la certificazione del
proprio essere superiore. E c’è chi si scandalizza, come capitò a Norberto
Bobbio quando scoprì da bambino la miseria dei contadini che morivano di fame.
Lo “scandalo della diseguaglianza”, lo chiamò proprio così. Un’indignazione
naturale, che non è comune a tutti». (…). Verrebbe da dire, “antropologicamente
diversi”. Come qualcuno ha definito i magistrati del bel paese. E “quellichelasinistra”
si sono ritrovati per un quasi ventennio a sentire sulla propria pelle
quella diversità, una solitudine da ingenerare malessere. Oggigiorno si può ben
dire d’avere resistito alla montante barbarie, politica, sociale, etica. In
quel quasi ventennio avvertivano quella diversità ma ne coglievano l’afflato
umano. Afflato alto e consapevole. E mentre scrivo non posso non pensare ai
disperati morti nel mare di Lampedusa. Ove si misura, come afferma Simonetta
Fiori nel porre la domanda successiva, “lo scandalo della diseguaglianza”. Lei
quando cominciò ad avvertirlo? «Da bambino, quando facevo le scuole elementari
a Cuneo. Negli anni Cinquanta la frattura sociale era molto visibile, e nella
mia classe convivevano ceti molto diversi. Una mattina venne chiamata la madre
di due miei compagni, a quel tempo alloggiati in una caserma abbandonata.
Davanti a tutta la scolaresca fu severamente rimproverata perché i suoi bambini
non si lavavano. Io provai un grande disagio. Non dissi nulla a casa».
E anche oggi, in una realtà
nazionale radicalmente mutata, lo scandalo si ripete. «Quello nato dopo la
morte del Novecento è un mondo infinitamente più diseguale. Ed è un mondo che
non offre alternative a se stesso. Sono queste le grandi sconfitte storiche
della sinistra, ossia di una forza politica e culturale che possiede nel Dna il
valore dell’eguaglianza e la capacità di immaginare un’alternativa allo stato
di cose presente». I morti di Lampedusa stanno lì a dimostrare
l’insensatezza di questo mondo globalizzato, reso sempre più disuguale,
disumano. E “quellichelasinistra” sono stati lì – nel quasi ventennio - a
pensare, resistendo, ad un mondo che si sarebbe dovuto cambiare. E nel quasi
ventennio non hanno lasciato spazio alle illusioni mediatiche, ai facili
proclami, alle insensatezze di chi legiferava contro il resto dell’umanità
povera, indifesa, l’umanità dei migranti che sono sempre esistiti, come
migranti lo sono stati i poveri ed i diseredati di questo disastrato paese. Poiché
“quellichelasinistra”
sentivano dentro pensieri e parole che erano diversi dai pensieri e dalle
parole del quasi ventennio dominante. E sentivano che i pensieri giusti e le
parole giuste provenivano da altre parti e si ritrovavano confortati nei pensieri
e nelle parole dei loro maestri. Scriveva il professor Umberto Galimberti nel
Suo “Eleonora e Babacar” pubblicato
sul settimanale “D” del 2 di ottobre dell’anno 2010: Scrive Barbara Spinelli in “Ricordati
che eri straniero”: - Grazie allo straniero siamo portati a chiederci chi
siamo, che cosa vogliamo, da dove veniamo. E per effetto di questa domanda
siamo portati a trasformarci -. L'arretratezza di un paese, la sua ignoranza,
le sue infondate paure, si misurano anche nella modalità con cui quel paese è
disposto ad accogliere lo straniero. Noi lo accogliamo solo se serve a
raccogliere pomodori con una retribuzione misera e per giunta in nero, oppure
se è in grado di svolgere tutti quei lavori che gli italiani rifiutano. La
misura dell'accoglienza è quindi il profitto e le condizioni di accoglienza non
si distanziano di molto dalle condizioni di schiavitù. Siamo ancora molto
lontani da quella misura che gli antichi Greci avevano assunto come criterio di
accoglienza e che Isocrate così riassume: "Atene ha fatto sì che il nome
di Elleni designi non più una stirpe, ma un modo di pensare. [...] Per cui
siano chiamati Elleni non quelli che hanno in comune con noi il sangue, ma
quelli che hanno in comune con noi una paideia", che è poi la capacità di
apprendere che non si eredita con il sangue, ma si impara crescendo insieme. Là
dove si assume il sangue o il mito della razza per trovare un'identità e in
quel mito rinchiudersi come in un fortino ben protetto, vuol dire che non c'è
più alcuna traccia culturale in cui reperire la propria identità. E tutto
questo in un paese come l'Italia che, più di tanti altri, ha visto
un'interrotta mescolanza di razze, a partire dall'impero romano popolato da
genti dalle più lontane provenienze, e poi nell'alto medioevo con l'invasione
di popolazioni di origine teutonica e asiatica, quindi gli arabi che in Italia
meridionale hanno portato arte e cultura, i normanni, e di seguito gli
spagnoli, i francesi, gli austriaci. Davvero se c'è un popolo senza identità di
stirpe e di razza è proprio l'Italia, la cui identità è data, più che dal
sangue, dall'arte, dalla musica e dalla cultura oggi in via di estinzione. (…).
E dall’estinzione di quella cultura ne è derivata una perdita secca
d’umanità, relegando in un angolo oscuro le parole che dovrebbero suonare
sempre altissime, “libertà, “fratellanza”, “eguaglianza”. I morti di
ieri e di ieri l’altro e del tempo che sembra andato sono i morti assassinati
in nome dello “scandalo della diseguaglianza”. Continua Simonetta Fiori nell’intervista
a Marco Revelli: Però ogni volta che ha promesso (la sinistra n.d.r.) un
mondo più felice ha prodotto grande infelicità. «La catastrofe del socialismo
reale è parte della scomparsa della sinistra, che ne è stata paralizzata. Ma
una sinistra che rinuncia a proporre un altrove cessa di essere sinistra. È
nata proprio per quello. (…).».
La sinistra come il Candide di
Voltaire, che gioisce del mondo in cui vive ritenendolo il migliore possibile.
«(…). La sinistra ha rinunciato a immaginare un’alternativa proprio nel momento
in cui il mondo in cui aveva deciso di identificarsi stava entrando in crisi.
Mi riferisco all’ultima reincarnazione del capitalismo — il “finanzcapitalismo”
secondo la felice definizione di Luciano Gallino — cioè un’economia già
provata, che per tenersi in piedi ha bisogno del doping della finanza. Bene,
quando la casa cominciava a manifestare le prime crepe, la sinistra s’è seduta
alla tavola apparecchiata, contenta di esserci: finalmente siamo come gli
altri».
Finalmente siamo uomini di mondo:
le scarpe di buona fattura, le belle case, gli agi borghesi un tempo
contestati... «Una sorta di apocalisse culturale, sia sul piano delle filosofie
— la fine della ricerca di senso — sia su quello sociale. Più che combattere il
privilegio, l’impressione è che si sia cercato di entrare nella sua cerchia. (…)».
Dalla sua ricostruzione, però, i
padri sembrano migliori dei figli. «Gli eredi delle sinistre novecentesche non
sono stati all’altezza del compito. È un universo popolato di figure fragili. O
perché continuano a proporre categorie che sono morte con il Novecento, con
effetti patetici. O perché (…) - più che interpretare e governare i processi
storici — hanno scelto di galleggiare su un senso comune condiviso».
Vuole dire che la sinistra è
rimasta senza eredi? «C’è una sinistra radicale che muore volontariamente
intestata, ossia senza testamento, (…). E la sinistra più istituzionale ha
seguito altre rotte. La mia generazione - in questo senso - ha completamente
fallito. Rappresentiamo nella politica un enorme buco nero. E il fallimento
s’acuisce nei confronti delle nuove generazioni, che hanno tutte le ragioni per
metterci sotto processo. Abbiamo monopolizzato l’idea della trasgressione senza
riuscire a costruire un mondo vivibile e alternativo».
Sta parlando della generazione
sessantottina. «Sì, le nostre idee non sono state utilizzate dai poveri del
mondo, ma dai supermercati. Vogliamo tutto, lo vogliamo subito. (…)».
(…). E ora, a sinistra, da cosa
si riparte? «Intanto bisogna uscire dall’involucro. Rompere la bolla in cui si
è cacciata la politica. Una costellazione di oligarchie, in cui si diventa
oligarchi alla velocità della luce. Nel momento in cui vieni eletto in
Parlamento diventi altro da te. Ho visto persone cambiare, nello sguardo, nel
linguaggio, nel modo di vestire. L’ho visto in tutti, quasi senza eccezioni. Se
vuole ripartire, la sinistra deve spezzare quell’involucro». Ha
lasciato scritto Giorgio Gaber: “Qualcuno era comunista perché credeva di
poter essere vivo e felice solo se lo erano anche gli altri. Qualcuno era
comunista perché aveva bisogno di una spinta verso qualcosa di nuovo. Perché
sentiva la necessità di una morale diversa. Perché forse era solo una forza, un
volo, un sogno era solo uno slancio, un desiderio di cambiare le cose, di
cambiare la vita. Sì, qualcuno era comunista perché, con accanto questo
slancio, ognuno era come… più di sé stesso. Era come… due persone in una”. Sono,
per l’appunto, “quellichelasinistra”.
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