Mi è ripassato per le mani un ritaglio dal quotidiano l’Unità del 27 di gennaio 2012 che riporta una intervista di Bruno Gravagnuolo al professor Giorgio Ruffolo, intervista che ha per titolo «Marx aveva capito tutto. Vince l'avidità economica», che di seguito trascrivo in parte. C’è un gran parlare dei danni sociali che la crisi innesca travolgendo la vita di milioni di uomini e donne, giovani soprattutto ma anche meno giovani ancora desiderosi di misurarsi con il lavoro e le professioni. Ed in questo spaccato del tempo emergono le tragiche notizie di cronaca di esseri umani che, travolti da quell’onda distruttiva, si determinano a sopprimere la propria vita. Poiché il messaggio oramai ben chiaro che viene dalla crisi è che i più deboli, i perdenti, siano lasciati soli ad affrontare una lotta impari con gli esiti finali in verità già scontati. È su quest’aspetto che andrebbe appuntata l’attenzione dei responsabili della cosa pubblica: la crisi mette in pericolo l’equilibrio psico-fisico delle generazioni più giovani, con gravissime ricadute anche sugli scenari futuri del bel paese quando, e lo si spera al più presto, da questa crisi bisognerà pur venirne fuori. Ma bruciare sogni e speranze vuol dire fare sprofondare una intera giovane generazione nella più assoluta crisi identitaria che si possa immaginare e che non potrà non avere ripercussioni oltremodo negative per quello sforzo di ripresa che si spera si avvicini nel più breve tempo possibile. Se «vince l'avidità economica» duro sarà per gli uomini e le donne di questo tempo ritrovare quella fiducia nella democrazia e nelle sue istituzioni che è necessario porre come obiettivo primo da salvaguardare. Nuovi, inattesi scenari si aprono invece per le giovani generazioni, che non sono dei più apprezzabili e promettenti. Ne scriveva sul Guardian nell’anno 2010 il filosofo Slavoj Zizek, e non si era ancora precipitati nell’occhio più profondo della crisi: “(…). Dopo decenni di speranza sostenuta dallo Stato sociale, durante i quali i tagli finanziari venivano spacciati per temporanei, e compensati dalla promessa che le cose sarebbero presto tornate alla normalità, stiamo entrando in una nuova epoca nella quale la crisi – o, meglio, una specie di stato economico d’emergenza, con il relativo bisogno di misure d’austerità d’ogni tipo (tagli dei sussidi, riduzione dei servizi sanitari e scolastici, maggiore precarietà dei posti di lavoro) – si è fatta permanente. La crisi sta diventando uno stile di vita”. È questa la condizione che dovrebbe destare la preoccupazione maggiore e che induce alla paura per il tempo a venire. Altri scenari al momento non sono previsti.
«Ci vogliono riforme profonde, rivoluzionarie, per tirarsi fuori da questa crisi. Che ha un nome ben preciso: crisi del capitalismo manageriale monetario». (…).
Ruffolo, tutti parlano di crisi del capitalismo, dall’Economist a Tremonti, passando per una selva di economisti. Però le politiche sono sempre quelle: rigore e correttivi finanziari. Dunque solo geremie moralistiche? «Attenzione, c’è una crisi di legittimazione e di consenso sociale. Sicché anche l’aspetto etico conta, come un tempo nelle dispute tra gli avversari cristiani del capitalismo avido e i suoi apologeti settecenteschi. Il punto è che l’avidità economica fine a se stessa ha preso oggi il sopravvento. Ma senza mostrare i benefici della prosperità, come nel capitalismo industriale di un tempo, e nel capitalismo manageriale successivo....».
Un’inversione mezzi -fini. È questo che è accaduto? «Esatto. Prima la finanza convogliava i risparmi verso gli investimenti. Con l’avvento del terzo capitalismo, quello monetario, la finanza si rivolge a sé stessa, cresce e scommette su di sé. E il circuito risparmi-investimenti si capovolge in impieghi speculativi. Un circolo vizioso, che penalizza la produzione, crea impoverimento e genera fenomeni simili alla grande depressione del 1929. Con una fondamentale differenza...».
Quale? «Allora la crisi fu causata dalla sfasatura tra sovrapproduzione e sottoconsumo. Con crollo dei titoli azionari, aumento dei prezzi e inflazione. Oggi, ad accendere la miccia è stata l’inflazione finanziaria. Cioè l’aumento della liquidità totale, comprensiva di moneta e titoli. Nel 2007 tale ammontare di liquidità eccedeva di ben 12 volte il Pnl mondiale! Non sono aumentati i prezzi dei beni, bensì i prezzi dei titoli, sopravvalutati all’eccesso. Fino allo scoppio finale della bolla negli Usa».
Si è inventata e venduta ricchezza per accorgersi che non c’era? «Già. In passato l’aumento dei prezzi frenava la domanda, ristabilendo un possibile equilibrio tra massa di prodotti e prezzi. L’inflazione era una spia. Con la finanza globale tutto è molto più pericoloso. Perché quando il prezzo dei titoli cresce, pompato dalle agenzie di rating e dalle banche, la gente acquista in massa titoli sul nulla. Titoli sorretti da credito al consumo e mutui, dunque da debiti. Che vengono rinnovati e crescono. Fino all’impossibilità di onorarli e al crollo, annunciato da vendite al ribasso che travolgono tutti: risparmiatori, imprese e proprietari di case ipotecate. Altro che distruzione creatrice!».
Colpa del capitalismo liberista giunto all’acme finanziario, o anche di welfare states troppo indebitati? «La colpa è stata delle disuguaglianze, alimentate da un capitalismo che per ricostruire i suoi margini di profitto s’è liberato di lacci e lacciuoli. Ristrutturandosi, e comprimendo salari e occupazione. E così, dopo gli anni 70, invece di redistribuire senza sprechi e rilanciare gli investimenti, si è scelta la strada dell’indebitamento pubblico e privato. Per ricostruire la domanda e sostenerla. La conseguenza è stata il debito sovrano incontrollato. E il ruolo egemone della finanza mondiale nel valutarlo e gestirlo».
Un certo Marx lo aveva detto: a un certo punto il capitalismo si indebita, invoca la finanza e vi si mescola. E scarica tutto sulle spalle dello stato... «Marx aveva capito quasi tutto. Incluso il passaggio dal capitalismo industriale e manageriale, a quello finanziario, con le sue logiche autodistruttive. Aggiungerei un certo Braudel, che parla di autunno del capitalismo nella fase finanziaria». (…).