- (…). Che cosa si può aggiungere alla felicità di un uomo in salute, privo di debiti e con la coscienza a posto? In una tale situazione ogni ulteriore fortuna può appropriatamente essere definita superflua, e se egli si esalta per tale superflua aggiunta, ciò deve essere l’effetto della più frivola leggerezza. (…) -. Così scriveva, nella Sua Teoria dei sentimenti morali, il grande Adam Smith, che visse nelle verdi contrade di Edimburgo dal 1723 al 17 di luglio dell’anno 1790 e che si può ben considerare il fondatore di quella che oggi passa per l’economia politica. Anche quel grande ebbe a cuore di definire la condizione di “felicità” propria degli umani. E sì che il Suo pensare è ben distante, temporalmente almeno, dal pensare di uno tra i nostri più prestigiosi contemporanei intellettuali, il professor Umberto Galimberti, che, in una Sua preziosissima riflessione, pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” che di seguito trascrivo in parte, si chiede: “È compatibile la felicità con la nostra condizione mortale?”. Due secoli e passa dividono il pensiero di Adam Smith dal pensiero del Nostro. Al primo, molto concretamente, sembravano bastevoli, per il raggiungimento della condizione della “felicità”, quelle conquiste materiali e quelle condizioni etiche e morali che lo facessero sentire con “la coscienza a posto”. Oggigiorno ben sappiamo e constatiamo come quelle semplicistiche intuizioni non siano bastevoli al raggiungimento della tanto agognata “felicità”. È che, nella condizione degli umani, il non raggiungimento di quella condizione di “felicità” diviene la condizione prima affinché si abbiano a realizzare le condizioni migliori per la umanizzazione, ovvero, per dirla con le parole somme del Poeta, le condizioni per le quali " …fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" - Inferno canto XXVI, 116/120 -. Di seguito, lasciamoci trasportare nelle finissime intuizioni del professor Galimberti. Di una risposta si abbisogna per divenire comunque “felici”.
“In La gaia scienza Nietzsche dice che, rispetto ai vivi, i morti hanno un privilegio: - Quello di non morire più -. (…) …è per esorcizzare la morte che le religioni hanno annunciato una vita ultraterrena, dove l'insensatezza della vita terrena, che è tale perché ha in vista la morte, potesse trovare un rimedio e alla fine anche un senso. Questo annuncio ha consentito di superare la dimensione tragica propria degli antichi Greci, che, evitando di lasciarsi ingannare da promesse ultraterrene, chiamavano gli uomini mortali. Erano ben consapevoli che l'uomo per vivere ha bisogno di costruirsi un senso, ma non ignoravano che la morte è comunque l'implosione di ogni senso. In La nascita della tragedia Nietzsche racconta che, rivolto a re Mida che gli chiedeva quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo, il saggio Sileno, dopo aver annunciato questa tragica realtà, concludeva: - Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto -. Un'umanità che fosse consapevole della dimensione tragica che gli antichi Greci avevano così bene segnalato, si sarebbe probabilmente estinta. La cosa fu evitata grazie alle religioni, in particolare a quelle monoteiste, che, promettendo un'altra vita dopo la morte, leggevano la morte non come una fine, ma semplicemente come un passaggio. Questo diede una carica di ottimismo a quanti aderirono alle religioni monoteiste, che in vista dell'aldilà trovarono la forza per reperire un senso anche per l'aldiquà. In questa promessa di immortalità Nietzsche scorge il colpo di genio del cristianesimo, che in questo modo ha debellato la morte, infondendo fede e speranza a tutto l'Occidente, che il cristianesimo è riuscito a persuadere. Tutto l'Occidente, ma non gli antichi Greci. Di fronte a Paolo, che nell'Areopago di Atene annunciava la resurrezione dalla morte, gli Ateniesi reagirono così: - Quando intesero parlare di resurrezione dei morti, alcuni ci risero, altri dissero: Questa storia ce la viene a raccontare un'altra volta -. (Atti degli Apostoli, 17, 32). Eppure dobbiamo essere grati alle religioni, e al cristianesimo in particolare, perché, vera o illusoria che sia la promessa dell'immortalità, hanno diffuso un ottimismo nel futuro che ha contaminato la scienza nella sua fiducia nel progresso, la politica nel miglioramento delle condizioni umane, la ricerca che non dismette il bisogno di conoscere che non troverebbe ragione in una visione tragica dell'esistenza. Ma Nietzsche ci ha avvertito che Dio è morto, perché non fa più mondo, perché il mondo accade come se Dio non fosse, perché se togliessi la parola Dio dal mondo contemporaneo, a differenza di quanto accadeva per esempio nel Medioevo, non avrei difficoltà a capire come funziona il mondo d'oggi. E allora, con Dio muore anche l'ottimismo infuso dalla sua promessa di immortalità, e torna la dimensione tragica che le religioni avevano cercato di superare o per lo meno di attutire. In ogni caso (…), la disperazione è figlia della speranza, e la speranza è una figura della religione.”
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