"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 10 dicembre 2011

Capitalismoedemocrazia. 1 Il capitalismo tra le onde del debito.


Il capitalismo tra le onde del debito è il titolo di un’attenta analisi del professor Giorgio Ruffolo e di Stefano Sylos Labini pubblicata sull’ultimo numero del settimanale “Affari&Finanza”, analisi che di seguito trascrivo in parte. Affermano i due studiosi: “La globalizzazione comporta enormi diseguaglianze e promuove una gigantesca inflazione finanziaria”. È ciò che non sfugge neanche ai meno accorti, ai miopi e che siano al contempo poco addentro alle cose dell’economia e della finanza. Quella affermazione rappresenta un approdo, una presa di coscienza che pone problemi che nuovi non sono ma che il processo, reso inarrestabile ed incontrollabile della globalizzazione, ha reso drammatici e mostruosi. Ci si dimena in queste settimane, anzi or sono mesi, nel salvataggio di ciò che resta dell’euro; ma non sollevando lo sguardo e non assumendo una nuova consapevolezza dei problemi che l’azione deleteria del un capitalismo finanziario sfrenato e smodato produce, non si andrà da nessuna parte. Nel dibattito che si è acceso nel bel paese, a proposito della necessaria manovra finanziaria ultima, attualmente in discussione alle camere, non sono mancate le voci autorevolissime secondo le quali qualora essa, la manovra, non dovesse dar di conto ad un rinnovato impegno per una maggiore “equità” sociale e  ad una “redistribuzione” della ricchezza, ad una rivalutazione della qualità del lavoro, soprattutto giovanile, non solamente come strumento di acquisizione di denaro ma di realizzazione della umana persona, se essa non procederà a porre la questione fondamentale di come avviare uno sviluppo nuovo più che una crescita qualsivoglia, che sia solamente in funzione della ripresa dello spreco e dei consumi del superfluo reso necessario, pensando in tal modo anche al mondo del domani con i gravissimi problemi ambientali che incombono su di esso e per non dire dell’inumana condizione in cui versa una fetta molto grossa del genere umano, ascoltando quelle voci ci si rende conto in pieno come l’azione nefasta della globalizzazione, per come essa è venuta maturando in questo scorcio di millennio, non potrà essere contrastata ed invertita in alcuna forma e maniera. Necessita un “riequilibrio” globale delle risorse, della ricchezza e dei diritti: le antiche alchimie economicistiche non trovano più alcuna rispondenza con i problemi insorti e non hanno beneficio alcuno, se non un blando effetto “placebo” della durata brevissima che intercorre tra una “speculazione” dei mercati e l’altra.

“(…). La nuova fase del capitalismo finanziario, che si apre all’inizio degli anni ’80 con la liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha fatto affluire sulla scena economica mondiale, sia pure in modi tumultuosi, miliardi di contadini poveri, ma ha provocato un rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitalismo e democrazia. La globalizzazione comporta enormi diseguaglianze e promuove una gigantesca inflazione finanziaria. Infatti, a differenza di quanto accade nel mercato dei beni reali, in quello dei titoli non esiste un meccanismo compensativo che freni una domanda eccessiva con l’aumento dei prezzi. L’aumento del prezzo dei titoli ne aumenta la domanda per l’attesa di nuovi guadagni generando un meccanismo cumulativo sfrenato. I debiti si rinnovano sistematicamente, facendo del nuovo capitalismo finanziario, come è stato detto (Marc Bloch) uno strano sistema dove i debiti non si rinnovano mai. Le onde del debito si accavallano le une alle altre sospinte dalla fiducia nella crescita del sistema. Cresce la liquidità in proporzioni smisurate rispetto al prodotto reale (nel 2007, al momento della crisi, di dodici volte!). Ma quando si delinea uno scenario recessivo e viene a mancare la fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento, la liquidità si distrugge mentre i debiti restano, provocando ondate di fallimenti. Le onde del debito allora si infrangono sulla riva. E’ ciò che è puntualmente successo con la crisi che attraversiamo. La violentissima restrizione monetaria del settore privato ha portato al fallimento della Lehman, al crollo dei mercati, al prosciugamento del credito interbancario, alla drastica diminuzione dei prestiti a famiglie e imprese e quindi alla caduta della domanda aggregata, della produzione e dell’occupazione nei Paesi più avanzati. Dunque, la crisi ha colpito al cuore la teoria neoclassica secondo cui i mercati sono razionali e si autoregolano e ha reso evidenti i guasti prodotti dalle politiche di deregolamentazione in voga negli ultimi 30 anni. A quel punto non si poteva che ricorrere al deteStato. A differenza degli anni trenta quando vi furono massicci interventi statali nell’economia reale (protezionismo, nuove regole, nazionalizzazioni), la crisi attuale è stata fronteggiata con la sostituzione dell’indebitamento privato con quello pubblico e con l’espansione dell’offerta di moneta da parte delle Banche Centrali. L’intervento pubblico ha privilegiato il salvataggio delle banche ma è stato inesistente sul lato della crescita. Il mancato rilancio di un ciclo di crescita ha impedito che si riattivasse il credito bancario, essenziale per alimentare la domanda aggregata. Ora i governi sono puniti per i loro disavanzi di salvataggio dalle agenzie di rating, che non avevano mosso ciglio di fronte alle malversazioni della finanza; e sono costretti a ridurre le spese sociali addossando i costi sui ceti più deboli. In conclusione: gli interventi finora attuati sono stati insufficienti e dannosi. È necessario un nuovo compromesso storico tra il capitalismo e la democrazia del tipo di quello che contraddistinse, alla fine della seconda guerra mondiale, l’età dell’oro (Hobsbawn). Abbandonare il capitalismo finanziario sregolato per tornare a un capitalismo governato. Costruire un sistema di relazioni internazionali in cui il dollaro non sia più la moneta dominante. Contenere i movimenti di capitale di brevissimo termine con misure fiscali tipo Tobin Tax. Ridurre i divari nella distribuzione della ricchezza non solo perché diseguaglianze troppo marcate sono inaccettabili moralmente ma perché costituiscono un freno allo sviluppo. Uno sviluppo sostenibile si deve fondare su investimenti, crescita della produttività e dei salari reali. Per questo la politica dei redditi deve ritornare al centro della politica economica.”

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