"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

giovedì 28 novembre 2013

Capitalismoedemocrazia. 42 “Capitalismo finanziario globale e democrazia: la stretta finale”.



Scrive Alfonso Gianni in “Capitalismo finanziario globale e democrazia: la stretta finale” – pubblicato sul  numero 29 della rivista “Alternative per il Socialismo” -: La incompatibilità dell’attuale capitalismo con la democrazia è (…) conclamata e spudoratamente dichiarata. Da qui non consegue affatto un’assenza di politica, o il semplice primato dell’economia e della tecnica sulla politica, come da qualche parte viene sostenuto, ma al contrario una ben precisa politica fondata sì sul primato dell’economia, o meglio della finanza da un lato e dall’impresa dall’altro, ma nei confronti del lavoro. Il neoliberismo non avrebbe retto al crollo verticale di credibilità che si è manifestato in particolare in quel lasso di tempo che va dall’autunno del 2008 a larga parte del 2009, quando la crisi mondiale è esplosa in tutta la sua drammaticità evidente, se, in particolare in Europa, non avesse preso corpo una teoria e una pratica compiute dell’austerity, proiettata nei tempi lunghi – si pensi solo ai venti anni che servirebbero all’Italia per rientrare sotto il 60% del rapporto deficit/Pil secondo il Fiscal Compact – e connessa con controriforme strutturali, quali la liquidazione degli istituti del welfare state e la totale liberalizzazione e precarizzazione del mercato del lavoro. Questo era necessario e vitale per il sistema capitalistico per contrastare la diminuzione del tasso di crescita e dei profitti e quindi aprire una nuova fase di accumulazione, che non poteva che derivare dalla cancellazione degli spazi economici pubblici – e con essi dei diritti al soddisfacimento gratuito dei bisogni dei cittadini – per aprirli all’intervento del capitale finanziario. (…).Fine della lunga, lunghissima citazione. Che ha il pregio di mettere a fuoco quegli aspetti della “crisi” che artatamente, scientemente  vengono sottaciuti se non nascosti alla pubblica opinione. Almeno la più avvertita. Ché il resto di quella pubblica opinione disdegna addentrarsi nei pensieri più complessi avendo pesantemente subito quella “scarnificazione” del pensiero che è stato il miracolo primo, il capolavoro, dell’attuale fase del capitalismo finanziario. Scrive infatti Alfonso Gianni che (…). …la vittoria più significativa della classe padronale, (…), sta nell’avere annichilito il suo avversario – (…) -, nell’avergli tolto la coscienza di sé, nell’avere rimesso in discussione la stessa natura di classe in sé, attraverso il fenomeno della precarizzazione, della cattura delle forme di partecipazione anche inconsapevoli al ciclo della formazione del valore, della tendenziale utilizzazione di ogni attività umana nella realizzazione del profitto, della totale mercificazione, come ad esempio l’intrattenimento che non ha più solo la funzione di legittimazione e di consenso del e al sistema, ma una direttamente economica e profittevole. E per rimanere sul terreno delle cose che avvengono nel bel paese l’Autore sostiene: Non è un caso che l’attacco al cuore della nostra Costituzione sia quello rivolto ai suoi Principi Fondamentali e alla Parte I, in particolare laddove si regolano i Rapporti Economici. Infatti la democrazia nella modernità esiste in quanto si riconosce non solo la distinzione ma la contrapposizione di diversi interessi e di almeno due soggetti – il capitale e il lavoro – e la necessità che la loro lotta non porti alla comune rovina della società civile. Se si nega in assunto questa dualità si erode il principio e la necessità della democrazia stessa. Per questa ragione la sua difesa non può prescindere dalla conoscenza e dalla critica a ciò che avviene nell’organizzazione materiale e produttiva. (…). Conoscenza e critica che non appartengono, più in misura diffusa, alla stragrande maggioranza della opinione pubblica che, seppur nuovamente e pesantemente proletarizzata, continua a comportarsi come quella categoria sociale individuata dall’uomo di Treviri e che egli definì “lumpenproletariat”, categoria e non più “classe” ridotta a vivere senza “la coscienza di sé”. Ho letto sul numero del settimanale “D” del 23 di novembre l’ultima corrispondenza di Federico Rampini che ha per titolo “La grande mela divisa tra ricchi e poveri”. Scrive  l’illustre opinionista: Proprio a fianco del prestigioso Stern Building, sempre sulla 109esima, ci sono le case popolari gestite dalla Hope Community, una ong non-profit che cerca di aiutare i più poveri. A pochi metri da chi abita in appartamenti del valore di molti milioni, ogni mercoledì, giovedì, venerdì e sabato la Common Pantry distribuisce frutta e verdura ai senzatetto e ai tanti "denutriti o malnutriti" di East Harlem. Creata nel 1980, la Common Pantry è arrivata a servire pasti gratuiti fino a 25mila persone. Le file alla Common Pantry (…), si stanno facendo di giorno in giorno più lunghe. Dal primo novembre, infatti, per una scelta dei repubblicani al Congresso, sono stati tagliati drasticamente i "food stamps" o buoni-pasto dell'assistenza pubblica federale. Molte famiglie che dipendevano da quei buoni-pasto per arrivare a fine mese, ora si accalcano alla distribuzione gratuita della Common Pantry. La domanda di alimenti alle code dei poveri è cresciuta del 20%. La scena della distribuzione di cibo, a pochi metri dai palazzi di lusso con piscine e fitness, è una sintesi di ciò che ha preparato la vittoria elettorale del nostro nuovo sindaco. (…). Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, New York sotto l'influenza di politici riformatori, volle costruire dei settlements, o insediamenti, che portassero a vivere gli studenti di buona famiglia e la nuova borghesia nelle vicinanze dei ghetti per immigrati. I settlements dovevano mescolare i ceti sociali, favorire la reciproca comprensione e integrazione. Oggi certe diseguaglianze estreme di New York ci riportano al primo Novecento, se non proprio ai tempi di Dickens. Uno dei programmi della Common Pantry oltre a sfamare i poveri di East Harlem vuole offrire igiene, alloggio, assistenza medica. Si chiama Project Dignity. È singolare che la dignità di una parte dei newyorchesi debba dipendere dalla carità di quell'altra città. La corrispondenza di Federico Rampini, come sempre ripulita dai “fronzoli” e pertanto diretta ed intellegibile per chiunque, come è avvenuto per altri momenti del Suo lavoro di acuto ed attento osservatore, apre su quegli scenari che, seppur anticipati in quella società multietnica, saranno a breve gli scenari che milioni e milioni di altri esseri umani vivranno direttamente sulla loro pelle.

martedì 26 novembre 2013

Cosecosì. 63 "Terra dei fuochi".



“Sono nipote di un uomo che, presentendo che la morte lo attendeva all’ospedale dove lo stavano portando, scese nell’orto e andò a dire addio agli alberi che aveva piantato e curato, piangendo e abbracciando ognuno di essi, come se di esseri amati si fosse trattato. Quell’uomo era un semplice pastore, un contadino analfabeta, non un intellettuale, non un artista, non una persona colta e sofisticata che decideva di lasciare questo mondo con un grande gesto che la posterità avrebbe ricordato. Si sarebbe detto che stava salutando ciò che fino a quel momento era stato di sua proprietà, ma di sua proprietà erano anche gli animali che gli davano da vivere e lui non andò da loro per salutarli. Si accomiatò dalla famiglia e dagli alberi come se per lui fosse stato tutto la sua famiglia. (…). Non saprò mai cosa mosse lo spirito di mio nonno in quell’ora estrema, cosa pensò e provò, quale chiamata urgente guidò i suoi passi insicuri fino agli alberi che lo aspettavano. Forse sapeva che gli alberi non possono muoversi, che sono legati alla terra dalle radici e che da queste non possono separarsi, se non per morire. (…). Difendere gli alberi è difendere la Terra. Mio nonno lo sapeva e non sapeva né leggere né scrivere. Un vecchio analfabeta mi ha dato la migliore delle lezioni. Qui ve la offro, se la riterrete giusta e umana. (…)”. Tratto da “Quel vecchio uomo che abbracciava gli alberi“, di José Saramago. Ricevo e posto di seguito la lirica pervenutami dall’amico Giovanni Torres La torre.

Terra dei fuochi.

I
Quale altro cielo tenterà l’aquilone
tra fumi pestiferi che sporcano ali d’uccelli
calura di morte che scioglie le cere di Icaro
in questo autunno quando migrano
nel giro consueto delle stagioni
sorvolando questa parte di inferno
nella terra un tempo felice?
Quali altre zolle
cercheranno le cicale e le formiche
e che amori le fanciulle
e quali prati per correre i bambini superstiti
e i padri nel vederli crescere
e i contadini per piantare e spiantare
e raccogliere i frutti del loro lavoro?
Quali future primavere
inviteranno farfalle ballerine
a posarsi su fiori avvelenati
e quale miele innamorerà ancora
la bocca della giovinezza
nella Terra dei fuochi?

II
Di quale mondo abbiamo memoria
e di quali paesaggi della Campania Felix
nel rimpianto della parola che fu di Plinio il Vecchio
per le terre coltivate dall’antica sapienza contadina
e  bellezza del paesaggio
che un tempo generoso aveva depositato
nell’anima nella carne e nelle pietre
di quel mondo oramai leggenda?
E perché altri uomini di fango
e malefici ingegni
hanno devastato avvelenandola
la memoria dei luoghi
il suolo l’aria le acque
il seno delle madri
il sorriso dei bambini?

III
Quali armonie resteranno
di canti suoni e dialetti
per dire la maledizione e lo sgomento degli antenati
di pagine di scrittura e regole grammaticali
di belle parole dei maestri della perduta infanzia?
e quali libri di scienze ed erbe medicinali
che hanno guarito passioni di conoscenza e ferite
fatiche di uomini e armenti
in questa terra ora impestata dagli untori?
e quali ritratti di santi
cercheranno ancora devozione
ai bordi degli specchi della vita
che presi dal cancro sfarinano
nell’argento che muore?

IV
Bastimenti di morte
scendevano da Nord a Sud
per inondare di fiele
le terre della Campania
con la complicità di tanti municipi
deputati senatori governatori e prefetti
tutori della Legge
in grande parte muti per viltà
indifferenti  al dolore delle madri
e alle pene delle piccole vittime
dei padri e delle famiglie martoriate
sordi al suono delle campane
ciechi all’inchiostro di giudici giornalisti sindaci
medici e scrittori.

V
Luna visionaria che continua il suo viaggio
nei cieli appestati della Terra dei fuochi
stanca e dolente per il lutto alle porte delle case
e i nomi che escono nei lamenti delle madri
coi ritratti nell’addio alla vita fresco di inchiostro
che lasciano senza promessa di tornare.
Luna del funesto chiarore
nella notte dei briganti della camorra
delle persiane chiuse nel fondo della notte
e malandrina
quando albeggia
alle balaustre di tanti municipi
ove sbiancano le belle bandiere
nella vergogna del silenzio
mentre garriscono a Casal di Principe
e altre ancora per miracolo che si ripete
nel petto dei superstiti
nei cortei e nei viaggi funebri d’ogni giorno.


giovedì 21 novembre 2013

Quellichelasinistra. 3 Tupamaros: la felicità al potere.



“Quellichelasinistra”. Quelli che non erano “di”. Quelli che non stavano “a”. “Quellichelasinistra” che stavano con i “tupamaros”. “Quellichelasinistra” l’avevano nel cuore. Ha scritto Riccardo Staglianò su “il Venerdì di Repubblica” dell’8 di novembre nel Suo straordinario reportage che ha per titolo “La felicità al potere. Intervista a José Mujica”: …la scuola dei Tupamaros sembra non aver partorito leader rancorosi. Eleuterio Fernández Huidobro, altro internato di Punta Carretas e oggi ministro della Difesa, della forza del presidente fornisce un riassunto assoluto: «Pepe pensa come Aristotele ma parla come Juan Pueblo»; il nostro Mario Rossi. Se Mario Rossi parlasse come Pasolini. (…). Perché romantico resta, eccome. (…). Afferma il Presidente: «Erano i tempi del socialismo scientifico, dell'ambizione di capire quale fosse il disco fisso dell'animale uomo. Che resta, essenzialmente, un animale utopico, nel senso che ha sempre bisogno di qualcosa in cui credere, perché se non ci si innamora di qualcosa non ha senso alzarsi tutte le mattine e continuare a lottare». Quando “quellichelasinistra” avevano un sogno grande così. Che sta tutto nella Sua storia che Riccardo Staglianò brevemente tratteggia: Dai primi anni Sessanta fa parte dei Tupamaros, un movimento di lotta armata che si muove sull'onda della rivoluzione cubana. Lo arrestano quattro volte. Gli mettono sei pallottole in corpo. Organizza la più massiccia evasione della storia, così almeno la raccontano i sudamericani, facendo uscire 106 persone grazie a un rocambolesco scavo di tunnel. Quando lo riacciuffano seppelliscono vivi lui e gli altri otto principali leader del movimento. Al primo passo falso dei compañeros fuori, uccideranno uno dei «nove ostaggi» dentro. Dopo tre anni gli consentono di ricevere libri. Lui chiede testi di matematica e Chacra, una rivista di agraria. Reni e vescica però non reggono. I medici prescrivono due litri d'acqua al giorno, i secondini gliene concedono una tazza. Sua madre gli porta un vaso da notte rosa, ultima spiaggia dell'emergenza liquidi. Beve la sua pipì. Quando nell'85 finisce la dittatura militare e li liberano lo brandisce come un talismano, pieno di margheritine. Dai diamanti non nasce niente. I “tupamaros” chi? Avevo scritto in un mio post precedente – “Quelli che erano di sendero luminoso” -: E dei “Tupamaros”? Cosa ne è stato dei “Tupamaros”? E di Monsignor Camara? E di Monsignor Romero? E di Leonardo Boff? La Storia, la Storia grande, non ha concessioni da fare agli umiliati ed ai perdenti di sempre. “…el pueblo unido jamas serà vencido…”. Sarà vero? Ne dubito assai. È che divento sempre più vecchio e quindi sempre più disilluso. E come per un incanto, dalle nebbie fitte della Storia, è come il tornare in vita di quelle schiere d’esseri umani che hanno nel loro piccolo mondo tentato di cambiare il corso della Storia del mondo più vasto. E si materializzano i “tupamaros”, non vinti ma vincitori, nella straordinaria figura di José Pepe Mujica, che la stampa del pianeta, avvertita, è come se lo restituisse non alla memoria ma alla vita. Come se avesse viaggiato nell’aldilà e si fosse materializzato ai tempi scuri che ci è toccato di vivere. Scrive del “Presidente” Riccardo Staglianò: Lui, José «Pepe» Mujica, è felicissimo anche rinunciando al 90 per cento del suo stipendio presidenziale. (…). Nel '95 è il primo ex tupamaro a essere eletto in Parlamento. Poi diventa senatore. Poi ministro dell’Agricoltura. Infine, nel novembre 2009, presidente con il 52 per cento dei voti (slogan: «Un governo onesto. Un Paese di prima classe»). È cambiato tutto, tranne l'uomo. E la casa, di una cinquantina di metri quadrati, in cui vive con la moglie e che preferisce alla residenza presidenziale. È nel soggiorno, davanti a un tavolinetto su cui è quasi impossibile prendere appunti tanto è angusto e stracolmo di carte e libri, che si svolge l'intervista. (…). Dei novemila euro cui avrebbe diritto come appannaggio mensile, Mujica ne prende 900 e dà il resto in programmi di microcredito. (…). «Perché lo fa?». (…). «La mia idea di vita è la sobrietà. Concetto ben diverso da austerità, termine che avete prostituito in Europa, tagliando tutto e lasciando la gente senza lavoro. Io consumo il necessario ma non accetto lo spreco. Perché quando compro qualcosa non la compro con i soldi, ma con il tempo della mia vita che è servito per guadagnarli. E il tempo della vita è un bene nei confronti del quale bisogna essere avari. Bisogna conservarlo per le cose che ci piacciono e ci motivano. Questo tempo per se stessi io lo chiamo libertà. E se vuoi essere libero devi essere sobrio nei consumi. L'alternativa è farti schiavizzare dal lavoro per permetterti consumi cospicui, che però ti tolgono il tempo per vivere». (…). «Lo spreco è funzionale all’accumulazione capitalista», che (…) «ha bisogno che compriamo di continuo, ci indebitiamo fino alla morte». (…). Annota Staglianò: …quando parla di ridurre la diseguaglianza economica, tendi a crederci. Perché non lo dice, lo fa. Potrebbe stare nel castello, preferisce questa camera e cucina e dare il resto a chi non ha neanche quello. (…). «Se si dimezzassero i 2000 miliardi di dollari per spese militari si cancellerebbe la fame dal mondo. I mezzi ci sono, li spendiamo male». (…). «Si parla da 20 anni di Tobin Tax, sulle transazioni finanziarie? Per Wall Street cambierebbe poco, tantissimo invece per il welfare in crisi ovunque: perché non si fa?». (…). Anche papa Francesco ha conosciuto: «Un gran personaggio. Condividiamo la sobrietà. Se lo lasciano fare potrebbe riportare la Chiesa a una vocazione più popolare». (…). È convinto che …la differenza tra destra e sinistra è proprio che quest'ultima dovrebbe avere «come priorità la fratellanza, ridurre le differenze economiche, e quindi sociali» (…). Sarà mica socialista? «La sinistra, (…), la dividerei in tre fette: i nostalgici, che dicono le stesse cose di 50 anni fa, quelli totalmente in linea col mercato e infine quelli, come me, che ne riconoscono l'indispensabilità, ma lo criticano per migliorarlo. Perché io so bene che il capitalismo serve a produrre ricchezza, quindi tasse, buone per i servizi di cui anche i poveri si avvantaggiano. E so anche, come non capivo invece qualche decennio fa, che non ha senso sacrificare una generazione promettendo la felicità per quella successiva. A quest'idea rivoluzionaria, che ha avuto il sopravvento a Cuba e altrove, preferisco una via più gradualista che non perda di vista che la partita si deve vincere adesso, in questa vita». (…). Ed il cambio di strategia sembra proprio al passo col tempo. Non punta alla dittatura del proletariato. (…). «Uno è molto più felice se è il capo di se stesso. E abbiamo centinaia di esempi, come Envidrio, una vetreria gestita dagli ex dipendenti che va benissimo. Serve un cambiamento culturale per far questo, ma dà risultati duraturi. Non com'è successo nell'ex Unione sovietica, passata dallo statalismo agli oligarchi». (…). …lui scommette su un umanesimo nuovo. Che ha qualcosa della «decrescita felice» («Sì, ho letto Latouche, ma mi influenzano di più i classici: i problemi dell'uomo sono da sempre gli stessi») (…). Perché «la politica è l'arte di organizzare il futuro, senza subirlo come se fosse il terremoto». (…). …dice che «la vita è breve, ci scappa dalle mani, e nessun bene materiale vale altrettanto: capire questo è fondamentale» e all'ascoltatore avvertito scorre davanti il film della vita di questo Mandela sudamericano che, come il sudafricano, non ha sviluppato sentimenti di vendetta durante la sua tremenda prigionia. Un Uomo così straordinario, un uomo di 78 anni, quale messaggio può dare agli uomini disorientati di questo millennio? Ha scritto Nadia Urbinati sul quotidiano la Repubblica del 7 di novembre – “I doveri della sinistra” -: Come si può pensare di fare a meno della Sinistra in una società nella quale il tasso di disoccupazione ha superato il 12 per cento, la soglia di povertà è sempre più alta, e il senso di impotenza dei giovani e meno giovani ha effetti deprimenti sull`intera società? (…). …le sorti possono cambiare (…). Possono cambiare se sappiamo spiegare di chi sono le responsabilità di questa crisi devastante: sono della Destra non della Sinistra, del giacobinismo liberistico che ha conquistato il palazzo d`Inverno prima a Londra e a Washington per poi mettere al bando in pochi anni la social-democrazia del vecchio Continente e dimostrare che al benessere diffuso si arrivava meglio e prima scatenando il capitale invece di responsabilizzarlo e regolarlo. Si tratta ora di deviare da questo percorso: la sfida non è facile, ma non utopistica (…). Certo, ci vuole coraggio. Il coraggio di quest’Uomo di 78 anni. Il coraggio e le grandi “utopie” di quelli che furono i  “tupamaros” che ancor oggi stanno tra di noi. Per indicarci chi sono “quellichelasinistra”. Che non sono “di”, che non stanno “a”.

martedì 19 novembre 2013

Eventi. 13 Leggere “Le isole vagabonde”.



Avviene sempre, allorquando si intraprenda una lettura nuova, che ricordi e sensazioni tornino ad affollare la mente e lo spirito del lettore. E così è accaduto sin dal primo approccio con la nuova fatica letteraria del professor Giuseppe Sicari – “Le isole vagabonde”, Pungitopo Editore (2013), pagg. 133, € 12 -. Poiché la fortuna di un libro, la sua stessa sopravvivenza e la ragione del suo esistere sono legate a sottili, quasi invisibili fili che, come iridescenti ragnatele, ne incapsulano l’apparire - preceduto spesso da attesa ansiosa – ed il suo successivo percorso. Così è stato per “Le isole vagabonde” come per le precedenti pubblicazioni di Giuseppe Sicari. E tra i ricordi e le sensazioni suscitati sin dai primi approcci mi è tornato alla mente quanto il grande Umberto Eco fa dire al Suo Guglielmo da Baskerville in quell’opera somma che è “Il nome della rosa”: Il bene di un libro sta nell'essere letto. Un libro è fatto di segni che parlano di altri segni, i quali a loro volta parlano delle cose. Senza un occhio che lo legga, un libro reca segni che non producono concetti, e quindi è muto. Ed è bene che “Le isole vagabonde” venga letto. Ed i “segni” che il libro di Sicari contiene sono tanti, tantissimi, ché appare quasi difficile districarsene alla prima lettura. Poi tutto si appiana. E le prime sensazioni che la scrittura di Sicari suscita portano a pensare alle vicende dell’ebreo Prospero Mussumeci, ventiseienne ebreo e medico, come grande metafora delle cose della vita degli umani. Come se dietro i “segni” storici ed inequivocabili che l’opera di Sicari contiene e propone si volesse alludere ad un qualcosa di più grande, di più universale, di trascendentale quasi, come un qualcosa che l’Autore per celia volesse tenere in serbo per sé e non disvelare, affidando alla fortuna futura del libro l’eventualità che quei “segni” superiori venissero alfine rivelati. E preso così, sin dal primo approccio con l’opera nuova, dalla ricerca di quei “segni” nascosti, per comprenderne a pieno il messaggio che sta tra trama ed ordito, mi è venuto da pensare al londinese John Donne (1572 – 1631) – che è stato un poeta e religioso inglese - che nel Suo sermone “Nessun uomo è un'isola” ebbe a dire: Nessun uomo è un'Isola, intero in se stesso. Ogni uomo è un pezzo del Continente, una parte della Terra. Se una Zolla viene portata via dall'onda del Mare, la Terra ne è diminuita, come se un Promontorio fosse stato al suo posto, o una Magione amica o la tua stessa Casa. L’arcano dei “segni” nascosti è rivelato alla pagina 30 dell’opera di Sicari. E l’opera di disvelare l’illustre Autore  l’affida a Rosario Paternò – detto “Sarino” -, il suo “bordonaro” che, etimologicamente parlando, è il “buddunaru” che deriva dalla lingua primigenia della città dello Stretto, da quel quartiere della città di Messina situato nella vallata del torrente Bordonaro, per l’appunto, oggigiorno invisibile agli occhi dei visitatori poiché convenientemente ricoperto da un manto stradale. E "burdunaru" è sinonimo di "mulattiere", di "conduttore di animali da soma", di colui insomma che, ben ripagato, conduce e cura, mantiene e custodisce i cosiddetti “bardotti", ovvero gli ibridi concepiti dall'incrocio di un'asina con un cavallo che, all’epoca dei fatti narrati da Sicari, solevano essere le cavalcature utilizzate per lunghi viaggi. E Sicari a “Sarino” il “bordonaro”, all’indirizzo del medico ebreo Mussumeci, che conduce per monti e valli, fa dire: Nun si facissi ‘ncantari, dotturi! Chiddi su’ isuli fatati, oj ccà, dumani ddà, camminanu e camminanu e nun si fermanu mai. Sunnu isuli vagabunni. E l’angoscia dei “segni” da rinvenire s’allenta alle parole del mulattiere. Isole come isole, “isole vagabonde” e non già metafore esistenziali. E la fantasia corre sfrenata nel corso della lettura. E la magia della lettura rende immagini, suoni, profumi e quant’altro la meravigliosa terra di Sicilia serba nella sua storia, nei suoi ruderi oramai cadenti, nelle parole  dei suoi abitanti che, nell’opera di Sicari, diventano come un canto corale, e che sembrano esplodere quasi – almeno per chi non abbia a frequentarne i luoghi con assiduità – come rivelazioni nuove di uno spirito greve e leggero al contempo. E come un susseguirsi di colori ed immagini irreali in un caleidoscopio così nell’opera nuova le “voci siciliane” s’inseguono e si perdono negli spazi che l’agile fantasia dell’Autore magistralmente rende anche all’inconsapevole lettore. Ed ecco apparire la “burnia”, ascoltare i “bazzarioti” incontrati per le strade del tempo, scambiarsi “salamilicchi e cicirimoddi”, “allicchettarsi” secondo le convenienze, maledire gli inconvenienti del lungo viaggio nella più tipica delle espressioni del luogo “ahi, ahi chi malanova mi vinni!”. Per non dire poi delle parole proprie di quella civiltà contadina che, nell’anno 1470, anno della storia narrata, facevano da collante nella vita quotidiana. Ed ecco restituiti a nuova vita dall’Autore “’u bummulu”, ed “’u tabuto”, e la “putìa”, ed i “guaddarusi”,  e li “vastasi”, e la “simenza” ché, per quella straordinaria civiltà legata alla terra, non stanno per i comuni semi ma per le minutissime uova dei bachi da seta. Una ricerca storico-lessicale che fa dell’opera nuova di Giuseppe Sicari una straordinaria antologia da leggere con inusitato trasporto. E che dire ancora, ché sembra di risentirne il magico suono, dei “ciancianedde”; e dei “babbasuni” che nella storia d’ogni tempo hanno rappresentato l’anima buona e più sprovveduta di una larga fetta del genere umano? Ché sembra ancora di sentire “banniare” per valli e contrade quelli che al tempo della storia avevano compito di pubblicizzare e reclamizzare. E l’occhio attento ed esperto dell’Autore, al pari del più abile degli investigatori, scandaglia vita, costumi e costumanze di un mondo che la magia della scrittura ci rende a piene mani. Bozzetti di vita ché pare di risentire, risa e canti, nenie e ballate che ancor oggi, per la magia del leggere, sembrano percorrere contrade e borghi dei luoghi toccati dal viaggiare dell’ebreo Mussumeci, medico. Bozzetti di vita che l’abile Autore cesella con l’arte matura d’un orafo. Bozzetti di credenze o di credulità di civiltà contadina laddove l’ebreo medico incontra la “dutturissa”, al secolo “donna Rosa ‘a Jalatisa”, alle prese con parassiti intestinali di una bambina del tempo: “Luti cannaruti, senza manu e senza pedi, lassati li budeddi di ‘sta criatura e tutti abbasciu vinni jiti e nun turnati”. È la rivisitazione di un’antropologia contadina che rende, alla novella opera di Sicari, un carattere “documentaristico-narrativo” d’inestimabile valore. È un esplodere di figure e di situazioni imprevedibili e nuove che rendono al meglio la vitalità, se non la carnalità, dei luoghi e delle figure umane che ne riempiono gli spazi. Figure che sopravvivono al tempo e che sembrano ancor oggi abitare i luoghi della storia che ci è magistralmente raccontata. “Peppi Marmanicu”, “Cicciu Menzapicicia”, “Turi Cartafausa” e “Micu Sucafrittuli”, per i quali personaggi il Nostro, amorevolmente, si spinge a rivelarne le caratteristiche fisiche e d’umanità, laddove scrive che “Marmanicu vuol dire strambo, svitato, pazzerellone, Menzapicicia allude al suo pene di piccole dimensioni, Cartafausa è detto così perché è un piccolo imbroglione, mentre l’epiteto di Micu allude alla predilezione per i ciccioli fritti di maiale”. Straordinarie figure che il medico viaggiatore Prospero Mussumeci incontra nella taverna di “’gnura Cuncetta”, l’ostessa, “un fimminuni barbuto, muscoloso e alto otto palmi abbondanti”, nel piccolo borgo del Capo d’Orlando, ove giunge dopo aver “firriato la Lecca e la Merca”, ovvero i paesotti di Naso e di Ficarra, luogo il Capo d’Orlando ove gli vengono elogiati i sopraffini piatti della taverna: Corpu di l’ariu! Mi vi pigghia un sintomu maligno e ‘na malanova! Haiu lu piscistoccu supra lu focu e puru lu sucu pri li maccarruni! N’auta vota! Dutturi, vi piaci lu piscistoccu alla gghiotta? E li maccarruni di casa? Lu sentiti lu ciaru? Ché sembra proprio di sentirne l’olezzo che sa d’unto quanto basta per renderlo indimenticabile. Ché l’opera nuova di Giuseppe Sicari è anche rivisitazione di percorsi, di memorie e di ricordi laddove registra, forte della memoria del dottor Mussumeci, che “il castello e il territorio del Capo d’Orlando fanno parte della baronia di Naso che ho visitato il mese passato. Il profilo dell’estremità rilevata del promontorio ricorda, soprattutto per chi arriva dal mare, la ben più maestosa rocca di Cefalù. Per questo gli invasori arabi avevano chiamato questo luogo  Gafludi as Sugrà, la piccola Cefalù. L’attuale denominazione, invece, è legata alla leggendaria figura di un paladino del re di Francia, Rolando, detto anche Orlando”. E poi San Marco e San Filadelfio. Un viaggiare che è un’avventura di storia, di luoghi, di odori e di sapori, di luci e colori. Ed i personaggi a turno s’affacciano su di un palcoscenico che è maestoso e che è la terra di Sicilia. È che in quel girovagare, verso un luogo che fosse soprattutto di pace, l’ultima stazione segnata è quella di Alicata. Un luogo ove i “segni” – seppur nascosti o non visti - della storia narrata si ricompongono tutti e consentono all’Autore di sostenere, a proposito del girovagare del Prospero Mussumeci, medico ed ebreo, che “forse, (…), ha finalmente trovato un passaggio per le ‘sue’ isole e vi si è diretto senza perdere altro tempo. Non lo biasimo, dunque, anzi! Sì, perché l’importante è questo: arrivare prima o poi all’isola che abbiamo cercato per tutta la vita, si chiami Dindima o Pasqua,Tahiti o Sant’Elena. Spesso, poi, non si trova agli antipodi, ma a poche bracciate dal luogo dove stiamo e da dove l’abbiamo sempre agognata”. I “segni”, nella storia, ci stavano tutti.  

domenica 17 novembre 2013

Cronachebarbare. 27 “Il paese di chi la spara più grossa”.



Rimaniamo sull’indecente tema “la politica vola basso”. Un tema che non ha mai attirato e trovato l’attenzione dei più. Donde, nessuna presa di posizione tale da invertire l’invereconda prassi. Decaduto, in apparenza, il tema della “decadenza” del signor B. ne è subentrato prontamente un altro con protagonisti diversi ma con la stessa spocchia di chi sa di detenere il potere. Il tema corrente di questi giorni è legato all’ambascia “dimissioni sì”/“dimissioni no” di un molto caritatevole ministro della giustizia. Nessuno che le possa rimproverare il suo vezzo caritatevole. Le si rimprovera l’inopportunità di certe sue iniziative che hanno travalicato e mortificato il ruolo pubblico ed istituzionale per ricondurre il tutto ad una questione non umanitaria ma familistica. In questo disarmante ed allarmante scenario ogni qualsivoglia atto della politica nel bel paese diviene un “volare basso” che non arreca benessere e serenità alla comunità tutta, bensì ad una parte ben individuata di essa. E questo “volare basso” investe tutti gli aspetti della vita politica ed istituzionale. Lo ha ben specificato Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” di oggi con un editoriale che ha per titolo “Il paese di chi la spara più grossa”: (…). …la politica italiana è ormai un incessante atto di fede. Prendiamo il ministro Cancellieri che spiega le continue telefonate ad Antonino Ligresti nei giorni in cui altri tre Ligresti finivano in galera “per consigli su problemi di salute miei e dei miei familiari”. Come dubitare, del resto, delle parole di un Guardasigilli? E che dire dell’ultima strepitosa profezia di Enrico Letta-Palle d’acciaio: “La ripresa dell’Italia è a portata di mano, anche se ancora i segnali non sono visibili”. Più che un premier sembra uno studioso di scienze occulte. Gli italiani, naturalmente, neanche più ascoltano questa fantasmagorica alluvione di giuramenti ingannevoli, promesse immaginarie e previsioni avventate. E per i superstiti spettatori dei talk show televisivi, spesso l’unico divertimento consiste nel vedere chi la spara più grossa. Quando politici e politicanti scopriranno che tutto questo parlarsi addosso tra le macerie non serve a niente sarà sempre tardi. (…). Un dubbio persiste: che veramente gli italiani non ascoltino più “questa fantasmagorica alluvione di giuramenti ingannevoli, promesse immaginarie e previsioni avventate”? Veniamo da un ventennio di proclami e di false promesse ed a leggere le vicende degli ultimi anni della politica del bel paese non si può certo dire che i millantatori siano stati puniti per aver venduto fumo. E del resto, anche chi avrebbe dovuto combattere senza tregua illusionisti e millantatori di professione alla fine si è accordato con essi per una conduzione condivisa della cosa pubblica. Giustificandosi dietro lo schermo della necessità. Della eccezionalità. Per la qual cosa chi avrebbe dovuto contrastare i venditori di fumo si sono invece impegnati ad acquisirne le più segrete strategie. Ed è da dire – visti i risultati - che i discepoli non fanno sfigurare i maestri. Un significativo ed esaustivo campionario nello sport divenuto nazionale a “chi la spara più grossa” lo ha proposto Marco Palombi, sempre su “il Fatto Quotidiano”, del giorno 16 di novembre col titolo “Conti a posto”: le balle d’acciaio”. Balle raccontate ad ogni pie’ sospinto dal premier in carica. Di seguito si propone, nella sua interezza, l’interessante campionario.

Il debutto. “Dal tour europeo sono tornato con qualche elemento fiducia in più: ho detto che l’Italia non vuole sbracare, vuole mantenere gli impegni, ma non possiamo più accettare che l’Europa sia solo tagli, tasse e austerità”. (5 maggio)
L’ottimismo. “Sono fiducioso che l’Ue coglierà gli sforzi che l’Italia sta facendo per rimanere virtuosa”. (17 maggio)
Serietà. “L’Italia è un Paese serio e un Paese serio prende degli impegni e li mantiene, a cominciare da quelli sulle politiche per la crescita. Ma senza fare nuovi debiti e senza scaricare sui nostri figli le scelte sbagliate”. (18 giugno)
Ciclismo. “Nei prossimi 18 mesi avremo tre fasi: la prima, quella attuale, è la più difficile ed è il gran premio della montagna. La seconda, a fine anno, sarà il falso piano e, infine, nel 2014 avremo la discesa”. (25 giugno)
Pie illusioni/1. “Parte una nuova fase: i sacrifici fatti al momento giusto, perché avevamo fatto troppi debiti in passato, e le scelte dei governi precedenti confermate da noi hanno consentito di uscire dalla procedura di deficit eccessivo e di avere un premio importante: maggiore flessibilità sul bilancio 2014 che ci consentirà di fare investimenti produttivi”. (3 luglio)
Pie illusioni/2. “L’Europa premia chi si impegna: è un bel messaggio per i cittadini europei e per l’Italia che si è impegnata e oggi ha il suo premio”. (3 luglio)
Visioni. “I sacrifici sono uno strumento per ottenere un fine e oggi c’è la percezione che i primi segnali positivi si vedono”. (2 agosto)
Futuro. “I sacrifici li abbiamo fatti e li stiamo facendo non perché ci sia qualcuno a imporceli, ma perché siamo un Paese adulto che vuole ricominciare a costruire il futuro dei propri figli. Dobbiamo avere maggiore fiducia in noi stessi”. (17 agosto)
Ordine. “Siamo orgogliosi che l’Italia sia un Paese con i conti in ordine”. (21 agosto)
Bacchettate.“Negli altri G20 ci avevano dato i compiti a casa, perché eravamo stati malandrini: oggi invece possiamo ragionare sulle cose positive da fare per il futuro e non ci prendiamo le bacchettate sulle dita come in passato”. (6 settembre)
Autonomia. “La legge di Stabilità la scriveremo noi, non Bruxelles, perché siamo usciti dalla procedura di deficit eccessivo”. (14 settembre)
Previsioni. “Oggi il mondo e l’Europa non ci trattano più da osservati speciali. Oggi è finita l’epoca del rigore fine a se stesso e della sola austerità”. (14 settembre)
Premonizioni. “Se l’Europa è solo tasse, austerità, recessione e nessuna luce in fondo al tunnel la legge di Stabilità non servirà a nulla: quando si chiede di fare sacrifici, poi bisogna anche indicare dov’è la terra promessa”. (24 settembre)
Trionfo/1. “Per la prima volta da anni facciamo una legge di Stabilità in cui i conti quadrano senza aumentare tasse e senza fare tagli al sociale e alla sanità”. (15 ottobre)
Trionfo/2. “Siamo fuori dall’emergenza, ora vanno applicate le riforme: questo budget sarà il primo in cui il debito scenderà, così come il deficit, la spesa pubblica, le tasse”. (17 ottobre)
Atto di fede. “La ripresa dell’Italia è a portata di mano, anche se ancora i segnali non sono visibili”. (13 novembre)

Commentava Antonio Padellaro su “il Fatto Quotidiano” del 6 di novembre – “Sistema Anna Maria” – sempre sul caso soltanto sopito del “ministro umanitario”: Che spettacolo! (…). …l’unica verità politica di questa messinscena viene attribuita al costernato premier nipote che, inorridito dalla prospettiva di un rimpasto, avrebbe pigolato: “Se salta lei, salta tutto”. Proprio vero, poiché la tanto umana Anna Maria nelle telefonate con casa Ligresti rappresenta in realtà un solido e collaudato sistema di relazioni, al vertice del quale c’è il Quirinale con sponde a destra e a sinistra, nell’alta burocrazia ministeriale e nella finanza che conta. E un sistema non si dimette certo. (…). Così vanno le cose. E non c’è da ben sperare.

mercoledì 13 novembre 2013

Capitalismoedemocrazia. 41 “La crisi ti fa ricco”.



Mi appresto a “saccheggiare” il mio epistolario. Lo faccio con la speranza che il mio corrispondente non l’abbia a male. Ne conosco le qualità Sue umane, l’apertura Sua mentale e le capacità Sue intellettuali innegabili. Ma il “saccheggio” mi duole parimenti. È un epistolario che non ha il sapore delle antiche missive. Non è vergato su candidi fogli con la calligrafia richiesta. È ridotto ai fogli elettronici che imperversano oggigiorno. Freddi. Definisce “epistolario” il Sabatini-Coletti  come “raccolta stampata di lettere, soprattutto di personaggi celebri - sec. XVI”. Il mio epistolario non ha lettere stampate su carta preziosa ed i corrispondenti non sono da ascriversi ai “personaggi celebri”. Ciò non toglie che si possa avere un epistolario ancor oggi. Sarebbe il caso che lo si definisse “e-mailario”. Ha scritto in data 9 di novembre il carissimo mio corrispondente: Caro Aldo (…) sto maturando un'idea più pragmatica e meno ideologica della politica. Pur non rinnegando niente del mio passato (una cosa c'è di buono al mondo ed è la volontà buona), è ormai da tempo che rivedo in modo critico le mie vecchie convinzioni. (…). Alla base di tutto c'è la convinzione che il mondo è cambiato e che guardare la realtà con le lenti del passato si finisce col non comprenderne i connotati. Bisognerebbe cambiar lenti conservando naturalmente la montatura. (…). Non avevo ancor letto il dossier di Federico Fubini “La crisi ti fa ricco” pubblicato sul quotidiano la Repubblica del giorno 11 di novembre. E prima dell’illuminante lettura avevo risposto così il 10 di novembre: Carissimo (…), è fuor di dubbio che stiamo invecchiando (diversamente detto nel testo originale). Io, tu e tutti quanti quelli della nostra stagione. È un fatto incontrovertibile, è un processo lungo ed inarrestabile. È per questo motivo che il titolo che hai voluto dare alla precedente tua e-mail (dell’8 di novembre) mi è sembrato un tantino azzardato: "controcorrente". Rispetto a cosa? Per andare dove? Era grande cosa esserlo ai tempi della nostra giovinezza; oggigiorno mi appare quasi patetico. Poiché i tempi che siamo chiamati a vivere sono anche, e non soltanto, il frutto di quel non essere stati "controcorrente" al tempo che ci obbligava d'esserlo. Oggi, sarebbe certo buona cosa avere "un'idea più pragmatica e meno ideologica della politica". Ma, ad una lettura più attenta del presente, mi viene da dire che spogliare la politica delle ideologie è quella "scarnificazione del pensiero" della  quale vado dicendo da un po' di tempo – (…) -, denunciandone la pericolosità latente, che avvantaggia i "nemici" di sempre. E la visione "ideologica" sarebbe un bene che tornasse ad essere bussola di orientamento e di impegno. Per tornare ad essere "controcorrente"?  Chissà, forse. Poiché, a fronte di un fallimento epocale e storico di questa fase del capitalismo finanziario, tornare a "guardare la realtà con le lenti del passato" ci farebbe scorgere i reali "connotati" dell'oggi. Poiché aver cambiato le "lenti conservando naturalmente la montatura" ci ha condotti alle immagini distorte che tutti noi oggi confusamente intravvediamo. E la "montatura" è quella "struttura" e quella relativa "sovrastruttura" (te ne ricorderai di certo) che i pochi si arrogano il diritto di "costruire" per tutti. (…). Così mi premuravo di scrivere all’amico carissimo. E poi la lettura illuminante. Scrive Federico Fubini: Impossibile dimenticare il 2012, per chiunque lo abbia vissuto in Italia. L’anno in cui moltissimi iniziarono a sospettare che forse, per questa volta, non ci sarebbe stato un lieto fine. (…). Vent’anni dopo, nel 2012, sul Paese ha iniziato a stendersi l’ombra del dubbio che stavolta la durezza della crisi finanziaria, poi della recessione economica, sarebbe stata definitiva. Avrebbe lasciato il segno: gli stili di vita non sarebbero tornati ai tempi migliori così presto e ciò che si credeva possibile nella vita, non lo sarebbe stato più. Per intere generazioni, cambiava la portata delle aspirazioni. Ma davvero è andata così? La contabilità dei numeri, che di solito si presume fredda, racconta una sua storia con un colpo di scena finale. Basta fare qualche conto per capire che l’Italia del 2012 è una forbice sghemba. (…). È qui che entra in azione quella che ho definito una “lotta di classe all’incontrario”: di quelli che stanno in alto contro quelli che stanno sempre più giù nella scala sociale. Una lotta condotta con la parola d’ordine: le “classi sociali non esistono più”. Una bugia colossale, che oggi ci viene squadernata con il dilagante disagio sociale che ha investito il corpo grasso e molle di quello che è stato il cosiddetto “ceto medio”. Impoverito. Senza più alcuna chance di “ascesa sociale”. Scrive Federico Fubini, notista economico e punta di diamante del quotidiano la Repubblica: È un’Italia a doppia direzione in cui quasi nessuno resta fermo in mezzo, dov’era prima del grande crollo. Chi sta sempre meglio deve il suo cambio di condizione alla crisi tanto quanto chi sta sempre peggio. Ecco la contabilità del 2012. Numero delle imprese fallite nel 2012: 12.463, ossia 34 al giorno. Variazione nel numero di persone che, ufficialmente, sono rimaste senza un posto di lavoro: più 507 mila, oltre mezzo milione (senza considerare le centinaia di migliaia in cassa integrazione). Andamento del prodotto interno lordo: meno 2,4%, il peggior crollo del fatturato nel dopoguerra dopo quello indotto nel 2009 dal fallimento di Lehman Brothers. E il numero dei ricchi? Be’, quello è un’altra storia. Una vicenda uguale e contraria. I ricchi aumentano nel 2012. Per la precisione, 127 mila italiani in più il cui patrimonio stimato supera il milione di dollari americani. L’equivalente di una città di medie dimensioni. I milionari in dollari d’Italia erano un milione e 412 mila alla fine del 2011 e sono saliti a un milione e 529 mila alla fine del 2012. In sostanza, mentre l’economia metteva la retromarcia, le imprese morivano a migliaia al mese e le persone restavano senza lavoro, mentre gran parte degli italiani vivevano la fine dell’idea che ci sarebbe sempre stato un lieto fine, uno stellone nazionale, per alcuni le cose andavano un diversamente. I milionari d’Italia (in dollari) sono aumentati del 9,5%. Nel 2012 horribilis. E qui ci soccorre l’analisi precisa e la competenza di Federico Fubini. Nel mare magnum della comunicazione non sempre si ha la percezione esatta dei fatti e degli avvenimenti. Tanto di più in un settore, quello economico-finanziario, nel quale l’aridità delle cifre non invoglia i più all’attenzione ed all’impegno per capirne qualcosa di più. E non sempre i media si pongono al servizio dell’uomo della strada. Riesce nell’impresa ardua Federico Fubini, per l’appunto: (…). …deve esserci qualcos’altro che getta luce sull’andamento a forbice dell’economia italiana. Un indizio lo fornisce per esempio il Ftse Mib, il listino principale di Milano, che nel 2012 è salito in una percentuale curiosamente simile alla variazione nel numero di milionari d’Italia: se questi ultimi sono cresciuti del 9,5%, la Borsa di Piazza Affari è salita dell’8,5%. Una seconda traccia viene poi dagli andamenti delle obbligazioni, in particolare dei titoli di Stato italiani. Nel primo giorno del 2012 un Btp a dieci anni rendeva il 7,068%, nell’ultimo giorno di quello stesso anno invece solo il 4,49. Poiché i prezzi dei bond si muovono in direzione inversa rispetto ai loro rendimenti — salgono quando questi ultimi scendono (ovvero, più salgono di costo meno rendono, meno premiano, per via del rischio d’investimento e/o d’insolvenza n.d.r.) si ricava che le quotazioni della famiglia dei Btp sono cresciute nel 2012 di circa il 10% sull’insieme delle scadenze dai tre mesi ai dieci anni. Di nuovo, un’impennata sorprendentemente simile a quella nel numero dei milionari. Se due indizi fanno quasi una prova, ecco dunque la spiegazione più probabile dell’aumento degli italiani ricchi mentre tanti altri si avvicinavano alla povertà: moltissimi di quei 120 mila milionari in più, sono diventati tali perché è salito il valore del loro patrimonio investito in azioni o obbligazioni. È un fenomeno impossibile da cogliere se si guarda alle dichiarazioni dei redditi, perché i profitti da capitale sono tassati alla fonte in banca e non rientrano nelle denuncie e nei prelievi Irpef. E ovviamente non tutti i ricchi in Italia investono tutto il loro patrimonio in società quotate a Milano o in titoli del Tesoro. Ma molto sì, e quell’andamento al rialzo in Italia è pur sempre indicativo di ciò che è accaduto anche in altri mercati finanziari d’Europa o negli Stati Uniti. In sostanza: le imprese italiane nel 2012 fallivano o licenziavano, ma chi aveva patrimoni liquidi e li investiva stava sempre meglio. È uno dei paradossi della crisi. (…). Sono state le grandi banche centrali, con le loro enormi ondate di liquidità, che hanno fatto salire tutte le barche sui mercati finanziari. Le loro azioni hanno fatto crescere la Borsa e i prezzi dei bond e, chi aveva patrimoni, ne ha beneficiato. È uno dei grandi paradossi di questa crisi. (…). Ora tocca alle democrazie occidentali, non ai banchieri centrali, gestire le conseguenze di quest’ultimo morso della crisi. È la considerazione conclusiva di Federico Fubini. Sarebbe necessario a questo punto il ritorno della “politica”, ma di quella buona. Poiché solo il ritorno della “politica buona” e con un preciso orientamento sociale potrebbe fornirci le giuste lenti per una visione realistica degli avvenimenti del nostro tempo. È che aver cambiato le lenti “conservando naturalmente la montatura” ha avuto come risultato ultimo il disastro di oggi.

domenica 10 novembre 2013

Capitalismoedemocrazia. 40 Destini globali.



Vola bassa la politica nel bel paese. La sua inanità ha qualcosa di speciale, di unico, della quale è difficile assai definirne i contorni. Nella inanità della politica del bel paese ci sono tutta l’inconsistenza e l’inutilità che si possano concepire. Basterebbe dare uno sguardo al calendario politico del bel paese. Continua la manfrina della “decadenza”. Bon, che come ben s’intende, il francesismo ha il significato di “bello”. Un bello spettacolo, tanto per intenderci. E poi ci sono le “primarie”. Bon, che, per rimanere al francesismo in uso, non è proprio un bel vedere. E quando è toccata dai problemi forti ed alti, la politica del bel paese annaspa. Farfuglia. Emana borborigmi - dal greco βορβορυγμός – tipici delle cavità gastriche in difficoltà. Il confronto tra le parti avviene sempre ai più bassi dei livelli. E se c’è da alzare lo sguardo, per esempio all’Europa, è tutto un proliferare di insensatezze e di banali parole d’ordine che non riescono a costruire una opinione politica e pubblica condivisa. Ha scritto sul quotidiano La Repubblica del 6 di novembre Barbara Spinelli, una delle mie Muse – “Europa, l’ufficio delle lettere smarrite” -: Populismo è un’ingiuriosa parola acchiappatutto che non spiega nulla. Come spesso nella nostra storia, è sotterfugio autoassolutorio di chiuse oligarchie: lo spiega Marco D’Eramo in uno dei migliori saggi usciti in Europa sul populismo come  spauracchio (…). Serve a confondere l’effetto (la rabbia dei popoli, il suo uso) con la causa (l’Europa malfatta, malmessa). Letta fa la stessa confusione, (…). La questione di fondo è (…) un’altra. La questione di fondo è che il mondo va avanti secondo un percorso che solamente le grandi dimensioni, le grandi aggregazioni – politiche ed economiche -, potranno influenzarne la direzione. Questa lapalissiana verità non entra mai a far parte dei voli raso-terra della politica del bel paese. Scrive ancora Barbara Spinelli: Non il nome interessa sapere, ma perché in Europa cresca un’umanità così infelice, disgustata. Chiamarla populista o reazionaria è fermarsi alle soglie del perché. La domanda sulle radici del grido è elusa. E la risposta è inservibile, se proteste e proposte tra loro tanto dissimili vengono espulse come grumo compatto che intasa chissà quale progresso. Bollare un intrico di sdegni e rifiuti vuol dire ignorare che l’Europa di oggi distilla veleni cronici. Non basta dirla per farla, alla maniera performativa dei governi attuali. Vuol dire nascondere quel che pure è evidente: nazionalismo e conservazione sono vizi che affliggono i vertici stessi e le élite degli Stati dell’Unione. E nel maggio del prossimo anno anche l’Italia sarà chiamata a parlare d’Europa, con un voto. Come se ne parlerà? Se ne sta di già parlando? Dichiara Martin Shulz – quello indicato al ruolo di Kapò da quel buontempone del signor B. e che è attualmente presidente del Parlamento Europeo e candidato dei socialisti d’Europa alla guida della Commissione dell’Unione Europea -: Non riduciamo il dibattito a una battaglia tra pro e anti europeisti. Offriamo la scelta tra un’Europa di centrodestra e un’Europa di centrosinistra. È questo il parlare giusto, con una fuoriuscita dal mucchio secondo idealità e visioni contrastanti se non opposte. Sta avvenendo tutto ciò in Italia? Siamo precipitati ai livelli più bassi della prassi politica: poiché ci sentiamo fuori dalle ideologie? Continua Barbara Spinelli: L’Europa così com’è non è minacciata dalla rabbia (…) dei propri cittadini. È minacciata da governi restii a delegare sovranità nazionali non solo finte ma usurpate, visto che sovrani in democrazia sono i popoli. La crisi del 2007-2008 la tormenta smisuratamente a causa di tali storture. Un’austerità che accentua povertà e disuguaglianze, un Patto di stabilità (Fiscal Compact) che nessun Parlamento ha potuto discutere: l’Europa che si vuol ripulire dai populismi è questa. (…). Le menzogne «servono a trasferire la colpa delle debolezze nazionali dalle spalle dei cleptocrati a quelle del popolo che lavora duramente». È un’alleanza che non ha più opposizione da quando la sinistra classica ha adottato, negli anni ’90, i dogmi neoliberisti. Gran parte della popolazione è rimasta così senza rappresentanza: smarrita, dismessa, punita da manovre recessive che paiono esercitazioni militari. È questa parte (una maggioranza, se contiamo anche gli astensionisti) che protesta contro l’Europa: a volte sognando un irreale ritorno alle monete e alle sovranità nazionali; a volte chiedendo invece un’altra Europa, che non dimentichi il grido dei poveri come seppe fare tra il dopoguerra e la fine degli anni ’70. (…). Se nulla si muove l’Europa sarà non più riparo, ma luogo che ti espone, ti denuda. Tenuto in piedi da élite di consanguinei – che campano di favori personali fatti e ricevuti senza che dubbio li sfiori (è il caso Cancellieri); che annunciano una ripresa smentita dai fatti (…). Poiché, nella ristrutturazione delle economie planetarie le dimensioni avranno il loro peso politico ancorché economico. Il movimento tellurico che si intuisce ma non si vede ancora delle economie nei prossimi anni trova attenzioni e significative risposte laddove tutto ciò ha un valore ed un significato. Ma non nel bel paese. Riporta in una corrispondenza Federico Rampini – “Obama accusa la Cancelliera e la difesa è il mini-dollaro” – sul settimanale Affari&Finanza del 4 di novembre -: La Germania trascina a picco l'intera eurozona. Non solo soffoca la ripresa altrui imponendo politiche di austerity che accentuano la crisi, ma si sottrae alle proprie responsabilità puntando su un modello di crescita trainato dall'export, incompatibile con le necessità dei suoi vicini. (…). Gli argomenti, sono quelli che Barack Obama ha usato fin dall'epoca del G-20 di Pittsburgh, nell'autunno del 2009. Si tratta di una "dottrina Obama" che peraltro è ampiamente condivisa da tutti gli economisti keynesiani. In sostanza, se il mondo soffre di squilibri tra nazioni che consumano troppo (America) e nazioni che risparmiano troppo (Germania, Cina, Giappone), l'aggiustamento va fatto da ambo le parti. Alcuni devono aumentare la propria propensione al risparmio. Altri devono consumare di più, e così facendo finiranno per importare di più. Non si può immaginare che l'aggiustamento avvenga da un lato solo, per il semplice motivo che gli squilibri sono simmetrici e interconnessi. Se tutti gli Stati volessero avere un eccesso di risparmio e una bilancia commerciale in attivo (…), la Terra dovrebbe riuscire ad avere un saldo in surplus con qualche altro pianeta. Il fatto che la Germania dia lezioni di buona gestione agli altri, ma si rifiuti di aumentare i consumi e l'import, non è soltanto un controsenso economico. È anche una strategia distruttiva verso gli anelli deboli dell'eurozona. (…). …quell'accusa del Tesoro americano è legittima, è giusta, è sacrosanta. Farebbero bene a impadronirsene Enrico Letta e François Hollande. In effetti quel documento del Tesoro americano risponde a un'esigenza ben più pressante per l'Italia e la Francia, che non per gli Stati Uniti. La politica avrebbe bisogno d’alzare lo sguardo. Le è forse impossibile, presa com’è da quel solipsismo che nelle sue forme più deteriori diviene un individualismo esasperato di singole persone o di intere caste. Come per la politica del bel paese, per l’appunto. È su questi scenari e su questi temi forti che la politica dovrebbe provare a misurarsi. Il resto è un blablabla inutile e fastidioso. Poiché anche dall’altra parte del mondo si osserva il divenire degli scenari prossimi venturi. Scrive Giampaolo Visetti sullo stesso numero del settimanale Affari&Finanza – “Pechino al bivio duello al plenum tra stato e mercato” -: Negli ultimi 15 anni, l’economia cinese non è mai cresciuta tanto lentamente. Viaggia tra il più 7,5 e il più 7,8%, rispetto alle due cifre di quattro anni fa. La crescita è quasi dimezzata e gli analisti prevedono la stagnazione attorno al 2020. Senza il traino di Pechino, la Cina e il resto del mondo si troverebbero ad affrontare problemi inediti, per il capitalismo hitech. La necessità di allontanare tale spettro è la ragione che assegna una missione storica al prossimo Comitato centrale del partito comunista, dal 9 al 12 novembre. (…). I 200 membri del plenum sono davanti ad un bivio: spingere la Cina sempre più verso l’economia privata, per allontanarla dalla dipendenza dalle esportazioni, oppure riportarla verso il monopolio di Stato, per affrancarla dai consumi interni. La prima via, quella riformista, è promossa dal presidente Xi Jinping e dal premier Li Keqiang, spaventati dalla prospettiva di una stagnazione che possa minare la stabilità del Paese. La seconda è sostenuta da ampi settori della sinistra del partito, che teorizza il neo-maoismo come risposta alla crisi del capitalismo finanziario dell’Occidente. Dietro ai nuovi leader si schierano le piccole e medie imprese private, stanche di apparati burocratici corrotti che favoriscono la posizione dominante dei colossi pubblici. I nostalgici di un sistema maoista sono appoggiati invece dalle famiglie che dominano le grandi imprese, le banche, le assicurazioni e le materie prime, formalmente di Stato, ma nella sostanza casseforti dei pochi clan che hanno governato la nazione negli ultimi quarant’anni. (…). La seconda potenza mondiale è chiamata a scegliere anche il suo profilo produttivo. E noi a fare i vasi di terracotta. E la politica dove sta? Che fa?