"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 31 dicembre 2011

Cosecosì. 2 Boule de suif e Dallas.


Definisce il termine sego l’autorevolissimo dizionario Sabatini-Coletti: s.m. (non com. pl. -ghi) 1 Grasso di animale usato soprattutto nella fabbricazione di candele 2 albero del sego, pianta tropicale dai cui semi è ricavato il grasso per le candele - sec. XIII. Delle due l’una, la prima. Per capire cosa voglia dire l’illustre Umberto Eco nella rubrica La bustina di Minerva del settimanale L’Espresso con il pezzo che ha per titolo Sambuchi e palle di sego, che di seguito trascrivo in parte. Grasso animale, quindi. Nel caso, riferito ad una persona, che un tempo potevasi definire un’allegra signora, oppure una signora di vita, oppure un’allegra donnina, ovvero una mestierante del mestiere più antico del mondo. Una prostituta. Oggi diversamente definita. Il buon Eco si rifà ad una novella di un certo Guy de Maupassant, tanto per intenderci. La novella (1880) ha per titolo Boule de suif , che tradotto suona per l’appunto Palla di sego. Anche se al plurale, nella bustina del Nostro Palla di sego è sempre una, una onesta meretrice sfatta nel corpo nonché nello spirito dal mestiere esercitato. Palla di sego è  in fuga dalla città di Rouen conquistata dalle truppe prussiane, ed in questa fuga si accompagna con una combriccola di nove sedicenti onesti borghesi. Onesti. La carrozza è diretta alla volta di Dieppe. Compagni di viaggio della rubiconda prostituta sono tre coppie di coniugi che esercitano le attività liberali dei commercianti, dei ricchi borghesi e dei nobili, nonché un rivoluzionario e due sorelle in Dio. Tutti in fuga dinnanzi agli invasori per andare in un altrove ove poter continuare a curare i propri interessi. Non vi è dubbio che Palla di sego sia mal tollerata dagli onesti borghesi, ma le cose cambieranno a suo favore. Il Nostro, intendo dire l’illustre Umberto Eco, non si dilunga sul viaggio e su quant’altro lo riguardi, ma la carrozza procede con difficoltà a causa di una forte nevicata. I tempi previsti per il viaggio si dilatano oltre misura e solamente Palla di sego ha portato d’appresso da bere e da mangiare, mentre gli altri poco accorti sono colti dai morsi della fame. Molto liberalmente i buoni ed onesti borghesi, pur di mettere qualcosa sotto i denti per acquietare i morsi atroci della fame, accantonano il disprezzo non dissimulato per Palla di sego e sbafano senza ritegno le sue vivande. A questo punto è d’obbligo che lasci parlare il Nostro per il prosieguo della storia.

“(…). Non ci sono rapporti tra il longilineo ed elegante professor Monti e una palla di sego, ma ne vedo tra la sua vicenda e la novella omonima di Maupassant. (…). Già accettata a malapena dai compagni di viaggio (come già detto n.d.r.), solo perché aveva offerto a tutti le provviste che recava in un canestro, era diventata responsabile dell'arresto della carrozza da parte di un ufficiale prussiano, che minacciava di non lasciar ripartire nessuno se la ragazza non gli concedeva le sue grazie. Pur avendole già concesse a molti, la patriottica escort si rifiutava di elargirle all'odiato nemico. La carrozza così rimane ferma, e a poco a poco i viaggiatori rimproverano a Palla di Sego di nuocere a tutti per uno sciocco puntiglio, e tra varie insistenze e ricatti morali la spingono a cedere. A malincuore, e per il bene comune, essa accetta. Consumato il mercimonio la carrozza riparte, ma a quel punto i viaggiatori incominciano a guardare con disprezzo la sciagurata che si è prostituita, anche se l'aveva fatto per cavar loro le castagne dal fuoco. Mi pare stia succedendo la stessa cosa a Monti. Tutti (salvo la canea leghista) gli hanno chiesto di cavar le castagne dal fuoco anche rischiando l'impopolarità, per prendere quelle misure severe che altri non avevano saputo o voluto prendere. Ora che l'ha fatto, tutti incominciano a guardarlo male. Maupassant aveva capito molte cose.”

Questa è la storia di Palla di sego. Ma mi vien voglia di parlarvi di un’altra diligenza, quella del celeberrimo film di John Ford Ombre rosse. Anche in essa viaggiano buoni ed onesti borghesi e tanti scarti di quella società di pionieri; un medico dedito all’alcool, un rappresentante di liquori, un banchiere truffaldino in fuga, un gentiluomo del sud con il vizio per il gioco d'azzardo ed, immancabilmente, una prostituta, Dallas. C’è pure, su quella diligenza, Ringo Kid, un fuorilegge ricercato e braccato. A far da comprimari un rappresentante della legge, il conducente equivoco della diligenza ed una donna incinta moglie di un ufficiale dell'esercito. Ebbene, anche su quella diligenza l’essere più umano si rivelerà essere la meretrice Dallas, che aiuterà la signora borghese a mettere al mondo la sua creatura e che riuscirà al contempo a scrivere una straordinaria storia d’amore con il fuorilegge. Oggigiorno il corpo sgraziato di Palla di sego non sarebbe appetibile nel mercimonio della politica del bel paese. Oggigiorno è d’uso il tubino nero delle escort. Buon anno.

lunedì 26 dicembre 2011

Strettamentepersonale. 2 Il natale e l’orgia dei consumi.


24 di dicembre. Diario della vigilia. In casa di *********, in attesa dell’evento. Anzi dell’avvento secondo la catechesi. I più piccoli, ad una certa ora, scartano gli innumerevoli doni posati sotto lo scintillante albero artificiale. Scartano con la consueta frenesia dei piccoli: ne scartano tanti che, alla fine, alcuni pacchetti-dono rimangono intonsi lì, nelle loro buste e con i loro fiocchetti colorati, abbandonati al loro destino. I più piccoli si sono presto stancati di tanta esagerata abbondanza, nulla più li attrae. I grandi approntano una grande tavola per l’immancabile cenone. La tavolata è allegra, si chiacchiera del più e del meno con accordata attenzione. La compagnia è piacevole assai. Non mancano i riferimenti alla “crisi”, ma è d’obbligo non calcare i toni. È pur sempre il natale dei cristiani. Le pietanze meritano gli elogi della allegra, godereccia tavolata. La gente attorno è simpatica. Molto. La chiacchiera è rilassante. Nella serata tarda qualcuno accende il televisore. Immagino perché si debba attendere lo scoccare del minuto primo della mezzanotte. Entro in uno stato di contenuta agitazione. Mi capita sempre. Alla mezzanotte è di prassi stappare una qualsivoglia bottiglia e brindare, ed attorno al grande tavolo scambiarsi auguri e baci sulle guance. È la prassi consolidata. Anche se consolidata mi genera l’agitazione di cui sopra. La mezzanotte scocca. La chiacchiera ci ha distratti. Qualcuno stappa l’immancabile bottiglia. Ma avviene un miracolo. Un miracolo a natale. Si rimane al proprio posto continuando a chiacchierare come se nulla fosse. Nessuno scambio augurale, nessun bacio sfiorato sulle guance. Un miracolo, dicevo. Mi rilassa, mi reca sollievo. Accade per la prima volta. Forse la “crisi” ci cambierà, o forse ci ha cambiati di già senza che ce ne accorgessimo. Si sparecchia la tavola. Seduti sul divano si segue distrattamente la trasmissione del dopo la mezzanotte. Tutto come sempre: la solita melensaggine di una debosciata televisione pubblica. Che con il natale dei cristiani non c’entra nulla. Dicevo del miracolo di questa trascorsa ultima mezzanotte. Incredulo, traggo un sospiro di sollievo, mi sento leggero e come d’incanto quella certa agitazione svanisce. È la prima volta che mi accade. È che, la consuetudine degli auguri – per cosa poi? – mi ha lasciato sempre di un umore teso. Che sia l’avvento di un’era nuova in cui viene riconosciuta, finalmente, la libertà di non augurarsi ciò che le proprie convinzioni non accettano? Ho letto in questi giorni una corrispondenza di Giampaolo Visetti dalla Cina, corrispondenza pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica”. Scrive Visetti che in Cina fanno affari d’oro col natale. Sì, proprio loro, i cinesi, che col natale dei cristiani non hanno nulla da spartire. Affari d’oro, copiando tutto ciò che fa parte dell’orgia dei consumi dell’Occidente cristianizzato. Loro, i cinesi, nella grande maggioranza, con il bambino di Betlemme non hanno nulla da spartire. Suol dirsi, però, che “pecunia non olet”. Ho ripescato tra i miei ritagli una riflessione del teologo dell'Università san Raffaele di Milano Vito Mancuso che ha per titolo “Un’orgia di consumi che nasce anche dal marketing teologico”. È stata pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 24 di dicembre dell’anno 2010. Ve la propongo di seguito. Buona lettura e buone feste ancora. Quelle che rimangono da festeggiare. “È abbastanza frequente ascoltare dagli uomini di Chiesa una netta contrapposizione tra il Natale quale festa religiosa e il Natale quale festa della società, nel senso che il primo sarebbe semplice e povero, il secondo artificiale e consumistico, il primo all'insegna della sobrietà e della verità, il secondo all'insegna dell'opulenza e della falsità. C'è indubbiamente del vero in questa analisi, né ci sono dubbi che molti aspetti del Natale quale grande kermesse commerciale costituiscano una vera e propria profanazione dell'evento religioso: se l'autentico spirito natalizio è quello interpretato da Francesco d'Assisi con il suo presepe contadino che invita all'essenziale e al silenzio, appare evidente quanto contrastino con esso le nostre città e i nostri media con il loro ininterrotto e suadente invito al consumo, alle spese, al rumore, alle chiacchiere. Facendo peraltro un'ipotesi per assurdo, ho l'impressione che se si impedisse la Messa e la benedizione urbi et orbi del papa si avrebbe una sollevazione popolare meno intensa rispetto a un'ipotetica abolizione dello shopping di massa e delle luminarie di contorno, perché proprio in questa dimensione consumista risiede il senso effettivo del Natale dei nostri giorni. Chiedendomi il motivo di tale fenomeno mi è sorto però il dubbio se non sia proprio la teologia del Natale, così come tradizionalmente concepita e insegnata dalla Chiesa cattolica, all'origine di questa gigantesca evasione dalla realtà. Il Natale di Gesù infatti può essere interpretato all'insegna del miracoloso e dell'inaudito, oppure della normalità e dell'universalità. Può diventare la celebrazione di un singolo evento storico avvenuto una volta sola, mai avvenuto prima né mai più ripetibile in futuro; oppure la celebrazione di un singolo evento storico quale simbolo concreto di eventi accaduti innumerevoli volte e che ancora oggi avvengono innumerevoli volte. La teologia tradizionale ha seguito la prima via, caricando la nascita di Gesù di luminarie e festini colorati al fine di renderla una meraviglia mai vista e di farne un prodotto efficace per il mercato dell'anima. La cosmesi inizia presto, già nei vangeli canonici: mentre infatti per il più antico di essi Gesù nasce a Nazaret, oscuro paese mai citato nella Bibbia ebraica (vedi Marco 6,1), per il secondo e terzo vangelo nasce a Betlemme, la città di Davide indicata dalla profezia di Michea come luogo nativo del Messia. E mentre per San Paolo Gesù nasce da una donna del tutto normalmente, per Matteo e Luca si tratta di un concepimento verginale. Ma è soprattutto con i vangeli apocrifi e con la tradizione successiva che il processo di decorazione raggiunge il vertice, quando dal concepimento verginale si passa a una nascita verginale, nel senso che il bambino Gesù sarebbe uscito dall'utero della madre senza deflorarne l'imene (credenza ora dogma di fede del cattolicesimo che sostiene la verginità di Maria «ante partum, in partu, post partum»). Se a questo aggiungiamo che a partire dal IV secolo la data della nascita di Gesù viene appositamente collocata il 25 dicembre per «soppiantare la festa pagana del «Natalis solis invicti» (Dizionario di Liturgia delle Edizioni Paoline),  il processo di marketing teologico e liturgico appare in tutta la sua evidenza. Dal che consegue che quando i predicatori tuonano contro il consumismo dello shopping, vanno invitati a dare per primi essi stessi l'esempio, rendendo più autentica e più aderente alla verità la narrazione del Natale religioso.  Naturalmente il necessario processo di purificazione e di ritorno all'essenziale della dottrina cattolica sarà lungo e doloroso, ma solo così l'evento di un bambino che nasce potrà tornare a interpellare la coscienza contemporanea distogliendola dalle false luci della ribalta dei consumi e concentrandola sull'unica vera luce del mondo.”

sabato 24 dicembre 2011

Cosecosì. 1 Tema: «Il Natale».


Tema: «Il Natale». Svolgimento: Tra qualche giorno è Natale. Oggi ho aiutato Nonno a fare il presepe. Nonno dice che siamo fortunati, perché quest’anno, a causa della crisi economica, il 50 per cento degli italiani faranno il presepe in una capanna, il 30 per cento in una grotta e solo il 20 per cento a casa loro. Ho notato che la capanna di Gesù Bambino ha solo tre pareti, proprio come casa nostra all’Aquila. Nonno mi ha detto che Gesù è nato 2000 anni fa. Se in duemila anni non hanno ancora ricostruito casa sua, figurati la nostra che è del 1948, ho pensato, ma a nonno non l’ho detto altrimenti gli veniva un coccolone. Nel presepe, sul tetto della Capanna ci sono due angeli che tendono uno striscione con una scritta in latino. Nonno dice che c’è scritto: «Non scendiamo dal tetto fino a quando non ci pagate la tredicesima». Poi abbiamo messo il bue e l’asinello. Li abbiamo messi in soggiorno, accanto al tavolo da pranzo, al posto della stufa elettrica, perché Nonno dice che la bolletta costava troppo. Quest’anno sarà un natale un po’ diverso, perché c’è la crisi. Nonno dice che c’è così tanta crisi che gli ex calciatori non hanno più i soldi per comprare le partite. Dice che infatti quest’anno i regali saranno più piccoli. il pacco più grande è quello che il Governo ha tirato ai sindacati. Pazienza, tanto io nemmeno avevo scritto la letterina a Babbo Natale. Ho dato retta a mio zio, che ha detto che quest’anno, per evitare il default, era meglio se la lettera a Babbo Natale la facevamo scrivere alla Bce. A dire il vero ho evitato di scrivere la letterina quando ho letto che Babbo Natale è in realtà il vescovo Nicola, nato nel 270 Dopo Cristo. E ancora lo facciamo sgobbare con tutti quei sacchi e pacchetti?! Povero Babbo Natale! Nonno dice che è ispirata a lui la riforma delle pensioni.

Lo svolgimento del tema è della bravissima Francesca Fornario che lo ha svolto sul quotidiano l’Unità col titolo La riforma delle pensioni e quel povero Babbo Natale. Io che ho fatto l’insegnante per tempo lunghissimo non ho perso l’abitudine, anzi il vizietto, di giudicare lo svolgimento dei temi. Del Suo tema in questa occasione. E devo dire che lo svolgimento è esauriente, ha centrato in pieno la traccia con argomentazioni validissime e con una forma corretta e gradevolissima. Come sempre per la riconosciuta bravura della Fornario. Esplicitato il mio giudizio, di un ottimo direi, sul tema, non mi resterebbe che congedarmi in attesa dell’evento. Anzi dell’avvento per come previsto dalla catechesi. Ma voglio approfittare della circostanza, ora che siete stati resi sereni dall’avvento imminente ed ora che siete divenuti tutti buoni, “naturalmente”, per come recita una pubblicità ascoltata alla radio. Per quel “naturalmente” ho già espresso il mio pensiero e le mie riserve. Se tutto ciò si è concretizzato in Voi, bontà e serenità, vi suggerisco di visitare il sito dei quattrogatti e di visionare, anzi di goderVi, ora che siete buoni e sereni, il video che i “ragazzi” di quel sito hanno realizzato e che troverete su http://video.corriere.it/manovra-salva-italia/f1b78696-2d47-11e1-8aef-f6cc58616bde (cliccare sopra per credere e vedere). Buone feste nonostante tutto.

giovedì 22 dicembre 2011

Strettamentepersonale. 1 Pensa una cosa di sinistra.


Ho visto e rivisto Palombella rossa innumerevoli volte ché mi riesce, ora, financo difficile riferire di questa mia “ossessione” e di tutte le volte che ho voluto affrontarla. Poiché il film di Nanni Moretti è un’”ossessione”. Contorto alquanto, difficile da individuarne una linea di racconto, è un continuo rimando a quelle situazioni anteriori dell’inconscio che oggigiorno vengono denominate, con un termine divenuto diffusissimo, “flash-back”. Poiché in quell’”ossessione” si consuma la ricerca di quella identità che ha sempre contraddistinto coloro i quali si sono definiti essere di “sinistra”. O a “sinistra”. Ed il definirsi di/a “sinistra” la dice lunga sul film e sul personaggio che Nanni Moretti ha voluto impersonare e proporre sugli schermi. Poiché definirsi tali, di/a “sinistra”, rappresenta gioco-forza una scelta che mal si combina con la linearità di una vita, della vita, con la semplicità della stessa e delle cose che essa offre. Quelli che si dicono di/a “sinistra” hanno gusto ad apparire tenebrosi, così come quello straordinario personaggio del film; contorti all’interno di sé, facilmente spinti all’autolesionismo se non fisico mentale almeno, per la qual cosa Michele Apicella, il protagonista del film, deputato di quello che fu il partito comunista, appassionato della pallanuoto che pratica, attraversa una crisi identitaria, crisi che lo spinge a mettere in discussione la scelta politica fatta ed anche il suo stesso stile di vita, poiché avendo subito un trauma a seguito di un incidente, non ha piena contezza del suo essere. E l’”ossessione” lo perseguita durante una importantissima trasferta in quel di Acireale, con quegli improvvisi “flash-back” che gli restituiscono, a brandelli, squarci della sua vita. E non può non riemerge dal suo inconscio turbato il Michele bambino, costretto dalla mamma a tuffarsi nella piscina, tuffo non voluto e che a distanza di anni rivive con il terrore vissuto allora, nonostante sia divenuto giocatore di pallanuoto. Il film si dipana come una matassa della quale si sia perduto il capo, l’inizio del filo, che ne consentirebbe un agevole utilizzo. E mentre tutto attorno la partita s’infiamma Michele si rivede ventenne, al tempo delle grandi scelte, comunista convinto, propagandista porta a porta del glorioso quotidiano di quel partito. Michele gioca, ma gioca male, e nel corso dei cambi interroga, ai bordi della piscina, le persone presenti, tra le quali un giovane cattolico assillato dalla sua condizione politica che cerca di conciliare con la scelta religiosa, giovane contorto (ciao Michele, sono Simone, sono cattolico, siamo tutti cattolici e ti vogliamo conoscere tutti. Tu la pensi come noi, siamo molto simili! Tu come ti definiresti? - Mi ricordo... ateo e materialista - Michele, io sono contento che tu esisti. Tu sei contento che io esista? - NO! NO!) al pari di Michele che lo respinge costantemente, ed una giornalista, che lo intervista con frasi fatte che lo indispettiscono assai ( - Lei la deve cambiare questa espressione! Trend negativo... Io non l'ho mai detto! Io non l'ho mai pensato! Io non parlo così! - Chi parla male, pensa male e vive male. Bisogna trovare le parole giuste: le parole sono importanti!). Assalito dai suoi tormenti interiori Michele non si avvede che la partita sta per essere vinta dagli avversari, e quando la squadra tenta  una difficile rimonta affida a Michele l'ultimo tiro, quello decisivo, una "palombella", uno di quei tiri insidiosi, lenti, a parabola, con il quale tenta di sorprendere il portiere lontano dai pali. Il tiro fallisce. Il film chiude con Michele bambino che scoppia in un irrefrenabile riso guardando, nel corso di una manifestazione politica di/a “sinistra”, un artificiale, simbolico sole rosso spuntare sulla sommità di una collina. Il “sol dell’avvenir”. Ancor oggi i miei figli, divenuti adulti - uno ora padre dei miei tre meravigliosi nipotini - benevolmente mi rimproverano di aver loro fatto “sorbire” quel contorsionismo mentale che pervade incessantemente il film di Nanni Moretti. Erano allora giovani, adolescenti. E ne ridono ancor oggi. Perché ne ho parlato? Forse per il fatto che di quel contorsionismo ne sono stati “infettati” per sempre quelli di/a “sinistra”. Noi, quelli che stanno a “sinistra”. Pensa una cosa di sinistra è il titolo di una interessante intervista che Barbara Spinelli ha ottenuto dal collega Federico Rampini in occasione della pubblicazione di un suo volume, per i tipi Mondadori – (2011) pagg. 228 € 18,00 - Alla mia sinistra, inteso il titolo non come una indicazione spaziale propria della prossemica, ma come adesione ad un’idea o, come un tempo soleva dirsi, ad una ideologia. A “sinistra” per l’appunto, intervista che è stata pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” e che di seguito trascrivo in parte.

“(…). Siamo abituati a parlare di recessione, dopo il collasso del 2007-2008, ma non tutti la vivono così. Per un´enorme parte della terra (i Bric, cioè Brasile, Russia, India, Cina) la crisi non è Grande Contrazione. È nuovo inizio, promesso a milioni di reietti. È una formidabile «redistribuzione della speranza», (…). Si accompagna a svolte geopolitiche di cui appena ci rendiamo conto: non si contraggono solo i nostri consumi, il nostro welfare. Si raggrinza l´America del Nord, come l´Europa dopo le guerre del ´900. Sono passati appena dieci anni, da quando Washington si autoproclamò nuova Roma imperiale: la malinconia cattura ora anche lei, come catturò l´Europa. Gli spiriti animali del capitalismo, euforici, hanno traslocato in Brasile, Cina, India. Lì la Storia ricomincia. C´è un interrogativo cruciale (…): «Poteva andare altrimenti?» Erano fatali, in Occidente, il naufragio delle speranze e della politica, il predominio di anonimi poteri finanziari cui per decenni è stata concessa la sregolatezza, la frode degli impuniti, il baratro infine che ha risucchiato il nostro capitalismo? Non era affatto ineluttabile, tutto poteva andare diversamente se avessero prevalso la legge, l´etica pubblica. Chi ha visto il terribile film di Charles Ferguson sulla crisi, Inside Job, sa di che parliamo. Non era fatale che la sinistra s´insabbiasse nel mimetismo, cedesse al caos del mercato: soprattutto l´osannata sinistra riformista di Clinton, Blair, che facilitò l´egemonia della destra e la sua letale deregolamentazione. (…). Quel che è osceno, nel potere della ricchezza, è l´uso che se ne fa: la disuguaglianza patologica che ha prodotto, l´arroganza imperiale, l´assenza di limiti, dunque di morale. La crisi ha rivelato una corruzione mentale profonda delle élite, e il declino della morale occidentale è l´evento del secolo. Il 29 gennaio 2002, poco dopo l´11 settembre, Paul Krugman scrisse un memorabile articolo sul New York Times (The great divide): non era stato l´11 settembre a «cambiare ogni cosa». Il punto di svolta che smascherò il nostro marciume, (…), fu lo scandalo Enron, la gloriosa società legata a Bush e Dick Cheney, travolta il 2 dicembre 2001 dal falso in bilancio. Tutto poteva andare diversamente: da quest´analisi autocritica urge partire. La storia non si fa con i se ma la coscienza storica sì. L´Europa sarebbe diversa, se fosse stato attuato il piano Delors su comuni investimenti, finanziati da euro-obbligazioni. Se l´euro non fosse restato senza Stato. Se qualcuno avesse voluto davvero «cambiare il gioco». (…). Se le cose potevano andare diversamente ieri, tanto più oggi. La scoperta della prospettiva (di un pianeta non più dominato dall´occidente) aiuta a escogitare modi di vivere diversi, adatti alla Grande Contrazione. Modi (…) basati sulla sottrazione, non sull´addizione del superfluo. Sono vie percorribili e non tristi, contrariamente a quel che si disse quando Berlinguer o Carter parlarono (nel ´77 e ´79) di austerità. Proprio i paesi emergenti inventano oggi crescite ecologicamente vigili. Il Brasile escogita l´automobile di biofibre, o il bioetanolo ricavato da canna da zucchero. Per scoprire nuove idee basta guardare dove la speranza rinasce. Basta inforcare gli occhiali cosmopoliti. (…) …l´egemonia culturale, dopo la crisi petrolifera del ´73, è la destra anti-Stato a conquistarla. E il fallimento non sembra intaccarla. È la vera sfida che la sinistra ha di fronte. Ma come nell´800 e ´900, la socialdemocrazia è forse la soluzione. È socialdemocratico il Brasile di Lula. È socialdemocratico il modello tedesco, austero custode dello Stato sociale anche quando governano i democristiani: unica alternativa alla Cina (…).”

mercoledì 21 dicembre 2011

Capitalismoedemocrazia. 2 Quando la moneta muore.


“(…). «Nel 1913, ad un anno dallo scoppio della prima guerra mondiale, il marco tedesco, lo scellino britannico, il franco francese e la lira italiana avevano pressappoco lo stesso valore. Alla fine del 1923 sarebbe stato possibile cambiare uno scellino o un franco o una lira con una cifra pari a 1.000.000.000.000 di marchi tedeschi, ma in pratica nessuno ne voleva. Il marco infatti era morto, dopo essere arrivato a valere un milione di milionesimo di se stesso, e avere impiegato quasi dieci anni per morire…. Un mese dopo l´altro, un anno dopo l´altro, i discorsi, le lettere, i giornali, i documenti ufficiali di quel periodo dicono semplicemente che non era immaginabile che un tale disastro potesse continuare. Invece, non solo la tremenda congiuntura perdurava, ma, anzi, le cose andavano di male in peggio. Nel 1921 non era pensabile che il 1922 potesse essere peggiore, e invece lo fu. A causa del freddo l´Università di Vienna fu chiusa durante il periodo invernale, le tariffe ferroviarie furono aumentate del 30%. E mentre le notti dei ricchi diventavano sempre più frenetiche, avvocati e generali in pensione lavoravano come spaccapietre sulle rive del Danubio... Furono prese misure pubbliche contro i profittatori. Il Primo ministro della Baviera presentò una legge che perseguiva l´ingordigia come reato, definendo l´ingordo come "una persona che abitualmente si dedica al piacere della tavola a tal punto da suscitare malcontento, date le dolorose condizioni in cui vive la popolazione". Pene erano sancite anche per i ristoranti e per gli stranieri, condannabili all´espulsione… I prezzi in continuo aumento stimolarono la richiesta di denaro. Le banche non potendo far fronte alla domanda dovettero razionare il pagamento degli assegni così questi rimanevano congelati mentre il loro potere d´acquisto diminuiva. Nessuno quindi li accettava più. Il panico si diffuse alle classi lavoratrici allorché queste si resero conto che non era materialmente possibile che i salari venissero pagati… Fu passata una legge in forza della quale i singoli stati, gli enti locali e le industrie, previa licenza, potevano emettere una moneta simbolica o "Notgeld" qualora la Reichsbank non potesse fornire denaro sufficiente per soddisfare le retribuzioni. Ben presto la marea del denaro d´emergenza assunse proporzioni enormi e contribuì ad aumentare il livello dell´alluvione di carta che stava inghiottendo la Germania».”

Quando la moneta muore sguardo sul tempo che fu è un interessantissimo articolo di Mario Pirani pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”. Da esso, ho voluto estrarre il brano sopra trascritto che l’illustre opinionista ha ritrovato, per come ha scritto nello stesso articolo:  “spulciando tra la bibliografia in proposito mi è venuto tra le mani un vecchio libro che ho letto come un thriller, Quando la moneta muore – Le conseguenze sociali dell´iperinflazione nella Repubblica di Weimar, dello studioso inglese Adam Ferguson (Il Mulino 1979, riedito da Neri Pozza nel 2010)”. Sappiamo bene come venne risolta la “crisi” nella Repubblica di Weimar divorata dalla inflazione e dalle asperrime tensioni sociali. Venne risolta con l’avvento al potere dell’imbianchino di Braunau am Inn, con la disastrosa seconda guerra mondiale che, forzando le spese per un imponente riarmamento in Europa ed altrove, acconsentì al capitalismo di allora di ripianare le sue perdite e di riconquistare una posizione preminente nello scenario socio-politico di quegli anni ruggenti. Oggi, marginalizzato quasi il capitalismo industriale, è il capitalismo finanziario a dettare le regole e ad imporre le scelte conseguenti ai governi di tutto il mondo. Ha scritto il professor Giorgio Ruffolo nel tanto citato Suo articolo Sono dolori se la ricchezza è un fantasma, pubblicato di recente sul quotidiano l’Unità: …il capitalismo finanziario, generando un’inflazione finanziaria, introduce nell’economia un potente fattore di instabilità e di iniquità. La crisi che attraversiamo nasce da qui. Ed è destinata a rinnovarsi come si stanno rinnovando i fenomeni di perturbazione della ricchezza reale e di introduzione di ricchezza fittizia, cui dà luogo l’accumulazione di moneta. Questo è il primo fattore di instabilità e di iniquità che il capitalismo finanziario ha introdotto nel rapporto fondamentale tra i due protagonisti della modernità, il capitalismo e lo Stato nazionale. Il secondo, altrettanto fondamentale, è la scomparsa dello Stato come regolatore del processo di globalizzazione.”
Instabilità ed iniquità: gli ingredienti ci stanno tutti, per una nuova Repubblica di Weimar su scala continentale, così come fu allora con la salita al potere dell’imbianchino di Braunau am Inn, sorretto ed incoraggiato dal capitalismo industriale di allora. La posta in gioco è altissima: sono altrettanto alte la consapevolezza e la vigilanza delle genti d’Europa? La moneta unica dell’Europa aveva, tra i suoi traguardi non dichiarati, quello si scongiurare nuovi preoccupanti scenari che la Storia ci spiattella impietosamente per rinnovare la nostra corta, cortissima memoria.

martedì 20 dicembre 2011

Dell’essere. 3 Dell’alienazione.

 Si legge nell’autorevole  dizionario Sabatini-Coletti alla voce alienazione: - (…). psich. Malattia mentale Sin. follia, pazzia. Asservimento dell'uomo a bisogni indotti dalla società dei consumi e non spontanei, con conseguente abbrutimento spirituale. sec. XIV -. Ha origini antiche la voce in questione. L’etimo è rintracciabile nell'aggettivo latino alienus che di sicuro si rifà al pronome indefinito alius che nella lingua di Omero faceva allos, ovvero altro, ovvero l’altro che è in ciascuno di noi, quando le condizioni di vita ne favoriscono l’emergere. Aveva il Moro di Treviri un detto che gli stava molto a cuore: - Homo sum, humani nihil a me alienum puto – ovvero, - Sono un uomo, non ritengo a me estraneo nulla di umano -. Prima che facesse Suo il concetto della alienazione, da quel grande pensatore del suo tempo che gli fu maestro, Hegel. Nella visione sociologica ed economicistica che Marx aveva dell’uomo, succube dell’alienazione non è l’autocoscienza di Hegel, entità astratta, categoria dello spirito, ma l’uomo nella sua condizione di cittadino e di prestatore d’opera, di fornitore di braccia. È l’uomo la vittima dell’alienazione nello svolgersi della vita quotidiana. Scrive in proposito Marx nella Sua opera fondamentale Il Capitale (1867).: - Non è l’operaio che adopera i mezzi di produzione ma sono i mezzi di produzione che adoperano l’operaio; invece di venire da lui consumati come elementi materiali della sua attività produttiva, essi consumano lui come fermento del loro processo vitale; e il processo vitale del capitale consiste solo nel movimento di valore che valorizza se stesso -.  Ovvero, lo sfruttamento che ne fa il capitale privato aliena l’uomo da sé, lo rende altro,  l’altro che è sconosciuto, poiché la finalità del processo di produzione non è più l’uomo ma il capitale stesso; per il capitale l’uomo non è il fine ma il mezzo reso materiale. Aggiungeva pure, nella analisi condotta in Critica della filosofia hegeliana del diritto (1843) che la società, superato il feudalesimo e divenuta capitalista separa dall’uomo il suo essere oggettivo quasi fosse un essere soltanto esteriore o materiale; e così non assume il contenuto dell’uomo come la vera realtà di esso.. L’alienazione diviene il risultato della condizione storica dell’uomo nelle società capitaliste. Breve diviene il passo per il quale Marx individua anche un’alienazione religiosa, per effetto della quale si crea un mondo al rovescio, nel quale mondo al posto dell’uomo reale, in carne ed ossa,  vi è un’immagine sua idealizzata. Scrive: - La religione è la teoria generale di questo mondo rovesciato, il suo compendio enciclopedico, la sua logica in forma popolare, il suo point d’honnuer spiritualistico,  il suo entusiasmo, la sua sanzione morale, il suo solenne completamento, il fondamento universale della consolazione e della giustificazione di esso -. È quella l’idea che passa, per la quale la religione diviene l’oppio dei popoli. Alienazione religiosa che il Nostro tratteggia bene ne La questione ebraica, alienazione che induce nella condizione esistenziale dell’uomo a condurre una doppia vita, una vita in cielo e una in terra, la vita nella comunità politica nella quale egli si considera natura sociale e la vita nella società civile nella quale egli agisce da uomo privato, considera gli altri uomini come mezzi, degrada se stesso fino a ridursi in strumento e diventa il trastullo di forze a lui estranee. E sì che si era allora nel capitalismo industriale, il capitalismo che creava beni reali e durevoli, che reinvestiva nelle attività avviate il surplus capitalistico al fine d’ampliare le attività medesime. Oggigiorno ben altra cosa è divenuto il capitalismo nella sua versione finanziaria, un capitalismo fine a sé stesso, senza responsabilità sociale, che opera esclusivamente per il proprio affermarsi a tutto svantaggio delle società umane interessate. - E se oggi l'alienazione fosse più radicale di quella segnalata da Marx? -, si chiede il professor Umberto Galimberti nella Sua ultima corrispondenza pubblicata sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica”, che di seguito trascrivo nella quasi sua interezza.

“Quando l'uomo è ridotto alla sua funzione, allora è costretto a presentarsi con quella maschera (Charakter Maske, dice Marx) in cui sono scolpiti i tratti del suo impiego o, come scrive Heidegger, del suo essere im-piegato (Be-stellt), cioè piegato alle esigenze dell'apparato. (…). Dipendiamo dalle relazioni perché da queste dipende la nostra identità. L'identità non è un dato naturale, ma culturale, che si costruisce a partire dal riconoscimento che otteniamo dagli altri. Questo vale sia per il bambino che trascurato o addirittura continuamente biasimato si costruisce un identità negativa, a differenza del bambino che approvato e riconosciuto costruisce un'identità positiva, sia per l'adulto la cui identità risulta rafforzata o indebolita a partire dalle approvazioni o dalle disapprovazioni che riceve. Detto questo, che cosa oggi nell'età della tecnica e dell'economia globalizzata viene di noi approvato o disapprovato? La nostra rispondenza ai valori della tecnica che sono l'efficienza e la funzionalità, e ai valori del mercato che sono la produttività e la capacità di creare profitto. In questo modo la nostra identità si declina, quando addirittura non si appiattisce, su quei valori che non rispecchiano il nostro io e tanto meno le nostre aspirazioni profonde, ma unicamente quella maschera sociale, come già a suo tempo segnalava Marx, che ogni giorno dobbiamo indossare per rispondere a quegli indicatori che ci impongono la tecnica e il mercato. Questi infatti sono divenuti i generatori simbolici di tutti i valori, per cui oggi capiamo unicamente che cosa è utile, efficace, produttivo, ma nulla sappiamo di cosa è buono, giusto, vero, bello, sacro. Ne è una prova l'arte che diventa arte solo se entra nel mercato. Siccome tecnica e mercato non sono più semplici aspetti delle relazioni sociali, ma hanno impresso il loro sigillo ad ogni relazione sociale, oggi non incontriamo più uomini, ma ruoli, per cui la nostra identità non è più segnalata dal nostro nome, ma dal biglietto da visita in cui è indicata la nostra funzione. E quando Iddio dovesse mandare il suo messaggero a chiamare le anime perse nel mondo, questi, al suo ritorno, non potrebbe che dire, come recita un mito gnostico: - Io le ho chiamate, ma nessuna ha risposto, perché tutte hanno perso il loro nome -. Se la relazione sociale è essenziale per la costruzione della nostra identità, qualora lasciamo riassorbire per intero la nostra identità dal nostro ruolo, allora la relazione sociale diventa una relazione di ruoli, dove il nostro io non è più rintracciabile non solo dagli altri, ma neppure da noi stessi. È questa l'alienazione a cui ci ha portato l'età della tecnica e dell'economia globalizzata. Un'alienazione ben più radicale di quella che Marx aveva opportunamente segnalato, ma circoscritto alla condizione del proletariato.”

lunedì 19 dicembre 2011

Storiedallitalia. 2 Ma che razza di parole.


- (…). Caserta è in subbuglio (…) per una frase che una professoressa di scuola media avrebbe rivolto a un’alunna, che protestava perché il suo test di geografia – uguale a quello di altri compagni – era stato valutato diversamente: 7 invece che 9. L’insegnante – circostanza avvalorata dalle testimonianze scritte dei compagni della bambina – le avrebbe detto: - Ma è perché tu sei diversa, sei nera -. Un’indagine del provveditorato è stata immediatamente avviata, aspettiamo i risultati. Se la frase è stata detta, è stata pronunciata da una persona chiaramente disturbata. È una storia laterale, ma quali danni può produrre? (…). Le parole seminano odio, che poi germoglia. Spargono benzina, a poco a poco, in modo che il giorno in cui un cerino cadrà – per sbaglio o con dolo – tutto prenderà fuoco. Qualcuno pensa che queste considerazioni siano anche troppo ovvie, come ovvio è il fatto che razza è un termine biologicamente privo di significato. Ma bisognerà replicarle sapendo di ripetersi, come antidoto, ogni volta che il veleno della discriminazione s’inietta in un corpo sociale ancora miseramente debole -. Così ha scritto Silvia Truzzi su “il Fatto Quotidiano” con una riflessione dalla quale ho preso a prestito il titolo di questo post. Torino, Firenze, in tutti gli altri “altrove” di questo mondo. Scriveva il grande Albert Einstein: - Gran brutta malattia il razzismo. Più che altro una strana malattia: colpisce i bianchi, ma fa fuori i neri -. Straordinaria intuizione! Da grande genio. Neri, ebrei, omosessuali, poveri, emarginati: quel legno storto che è l’uomo trova sempre il modo di esprimere al meglio la sua stupidità, il suo malanimo che non si riesce a tenere debitamente a freno. È che le parole sono sempre come pietre, come scrisse quel grande indimenticabile che ha nome Carlo Levi nella opera Sua vincitrice del “premio Viareggio” nell’oramai lontanissimo anno 1955. Ho ritrovato tra i miei preziosi ritagli uno scritto di Pino Petruzzelli che è regista, attore, scrittore, del quale mi piace ricordare una Sua opera letteraria che ha per titolo Non chiamarmi zingaro edito da Chiarelettere - € 10, 71 -. Il libro del Petruzzelli è dell’anno 2008 così come, dello stesso anno, è il ritaglio che di seguito trascrivo, pubblicato, allora, sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica”, il 7 di giugno. Scrive Predrag Matvejevic, che è scrittore ed accademico bosniaco: - L'uomo non nasce mendicante, ma lo diventa. E non lo diventa soltanto di propria volontà. L'accattonaggio è l'ammonimento agli uomini veri e alle fedi sincere: a quelli chiamati a dare a ciascuno il pane, a coloro che non dovrebbero dimenticare la carità -. Chissà che all’approssimarsi del natale cristiano le parole di Predrag Matvejevic riescano a smuovere i cuori e ad intenerirli un po’. Solo un po’. Ma non solo per il natale che, secondo una pubblicità ascoltata in radio in questi giorni, ci rende naturalmente buoni. Un’assurdità, una bestemmia anzi. Della bontà, che derivi dalla nostra natura, ho da dubitare tanto, tantissimo.

“Da sempre i rom e i sinti sono stati quello che noi avevamo bisogno di vedere in loro. Ora l'incubo ora il sogno, mai esseri umani con le nostre stesse, mille sfaccettature. Nell'immaginario collettivo o suonano il violino o sono delinquenti. In tutti e due i casi, nel bene o nel male, falsità. Proiezioni distorte di nostri bisogni che sfociano nel razzismo. Si obietterà: se lo meritano, gli zingari rubano. È vero, alcuni rom e sinti rubano, come alcuni siciliani sono mafiosi, come alcuni veneti tirano pietre dai cavalcavia, come alcuni professionisti frodano il fisco, ma il fatto che alcuni vadano fuori dalle regole non ne sancisce una generale e aprioristica negazione dei diritti. Molti italiani di etnia Rom e Sinta, perché la maggior parte di quelli che vivono nel nostro territorio sono italiani a tutti gli effetti, vivono mescolati con noi senza che nessuno se ne accorga. In Italia ci sono pittori, professori universitari, neurologi, campioni sportivi, impiegati rom e sinti, per non parlare di quello che accade nel resto d'Europa. In Bulgaria il maggior cardiochirurgo del Paese è rom. Quanti di quelli che amano la musica sanno che il primo grande jazzista europeo Django Reinhardt era zingaro? Quanti di quelli che amano il cinema sanno che Yul Brynner era zingaro? Così come Michael Caine e Bob Hoskins. Persino Charlie Chaplin e Rita Hayworth avevano una parte di sangue zingaro nelle vene. Quanti tifosi che la domenica affollano gli stadi sanno che diversi loro beniamini, anche in odore di Pallone d'Oro, sono zingari? Per noi i rom e i sinti sono solo quelli che chiedono l'elemosina. Ci battiamo per l'abolizione degli zoo, ma mettiamo in piedi campi zingari nei posti peggiori dove ghettizziamo e umiliamo degli esseri umani. Si impedisce a rom e sinti di viaggiare e nello stesso tempo di fermarsi. Eppure ci aspettiamo gratitudine. Vorremmo andare in mezzo a loro e vederli piegati in quattro per ringraziarci. Osservando i luoghi che destiniamo loro nelle città possiamo vedere rappresentato, senza veli o mistificazioni, l'interesse che questo secolo nutre verso quei dimenticati della Terra che prendono a esistere ai nostri occhi solo in campagna elettorale. Gli ultimi sono un ottimo argomento di discussione, un nuovo campo di battaglia. Alla fine delle ostilità, poi, i vincitori andranno a fare festa, i vinti si leccheranno le ferite e il campo di battaglia devastato sarà ripianato e pressato a dovere con un bel rullo, per essere pronto, quando sarà il momento, per nuove battaglie. Noi crediamo di conoscerli, ma in realtà non sappiamo niente di ciò che sono costretti a subire: dagli sgomberi ai rifiuti per le donne a partorire negli ospedali. Questa è la loro quotidianità.”

domenica 18 dicembre 2011

Storiedallitalia. 1 E però…


- E però quando c’era lui i treni… -. – E però quando c’era lui si dormiva con le chiavi alla porta… -. – E però quando c’era lui il rispetto… -. Il lui in questione è il precedente cavaliere d’Italia. L’altro, quello in camicia nera. Quello della guerra e prima ancora quello del confino per tutti quelli che, a differenza di quelli che non dicevano nulla e si coltivavano i fatti propri, continuavano a dire che non era affatto vero che tout va très bien madame la marquise, per come si è cantato dagli anni trenta in poi del secolo ventesimo. Affermava il martire Piero Gobetti, martire voluto da quel cavaliere in nero ed uose bianche per le grandi occasioni ed adunate: - La lotta politica in regime mussoliniano non è facile, non è facile resistergli perché egli non resta fermo a nessuna posizione, a nessuna distinzione precisa ma è pronto a tutti i trasformismi -. Poiché il trasformismo è la regola prima che domina e perverte la vita pubblica del bel paese. A quella regola non ci si sottrae mai; è il passepartout per risolvere tutti i problemi e gli affanni della vita associata, per entrare in tutti gli avamposti possibili della politica e del trafficume nazionale. Ne conosceva l’intima sostanza un maestro del giornalismo di questo paese, quell’Indro Montanelli che nel Suo indimenticabile Soltanto un giornalista ebbe a scrivere: - (…). Questo Paese è quello che è – ignorante, superficiale, capace di qualche effimero furore, ma non di veri e propri sentimenti e risentimenti morali - perché così l’ha fatto la scuola ed è la politica che ha fatto la scuola così. (…) -. Ho letto sul quotidiano l’Unità un pezzo singolare ed in pari tempo notevole di Enzo Costa che ha per titolo Il ritornello del «Quando c’era lui... », che di seguito trascrivo nella sua interezza. Questo è il paese ove trionfa sempre il dire ed il non dire, che nella forma più in voga diviene l’intramontabile, ambiguo e però… Pensiamoci sopra.

“E però il governo è lento.
E però quando c’era il nostro governo eravamo velocissimi, a varare leggi, decreti, lodi ed encomi, tutti quanti puntualmente ad berluscam.
E però quando c’era Lui i legittimi impedimenti arrivavano in orario, signora mia!
E però ora che c’è Monti ci sarà meno lavoro, per la Consulta.
E però ora che c’è Monti, crollano i mercati delle barzellette scadenti.
E però ora Monti ha dato un’accelerata sospetta.
E però dicevate che il problema era Berlusconi, eppure, ora che Lui non c’è più, lo spread sale lo stesso.
E però, nel caso ci fosse ancora, a che punto è lo spread ce lo direbbe Margherita Hack, trovandosi più vicino alle stelle che alla terra.
E però il fatto che di Lui ora rammentiamo solo i disastri economici (ridimensionandoli pure), rimuovendo quelli culturali, sociali ed etici, significa che Lui ha vinto (la partita della manipolazione).
E però dateci tempo, e poi rimuoviamo anche i Suoi disastri economici.
E però ad appoggiare Monti la sinistra si snatura e rompe con la Cgil.
E però se non l’avesse appoggiato avremmo detto che non c’è più la sinistra responsabile di una volta.
E però le conveniva insistere per votare, e conveniva anche a noi, così l’avremmo attaccata meglio.
E però ora l’Europa non ci ride più dietro, ma, come spazzacamino e calamaio, la parola cucù cadrà tristemente in disuso.
E però ora Frattini non si vedrà, esattamente come prima.
E però si aprirà una grave crisi diplomatica con dittatori, despoti, raìs e zar di tutte le galassie.
E però Rotondi, per mancanza di cose da fare, bivaccherà in tutti i talkshow, esattamente come prima.
E però La Russa darà in escandescenze in tv, ma senza più la possibilità che faccia seguire una dichiarazione di guerra.
E però la Santanché capeggerà rivolte popolari contro il governo dei poteri forti da un privé del Billionaire.
E però noi de il Giornale siamo contro i poteri forti dell’Italia, e per il poverello di Arcore.
E però molti di noi che additano i poteri forti rimpiangono un potente fortissimo, e fardato.
E però noi della Lega non lo vogliamo, il governo dei banchieri, ci bastava il sottogoverno di Credieuronord.
E però noi della Lega, per gli editorialisti terzisti, come forza di governo dimostravamo affidabilità.
E però noi della Lega eravamo così istituzionalmente affidabili da gestire il ministero dell’Interno, che adesso che siamo all’opposizione è il ministero della Guerra di un Paese occupante la Padania.
E però noi della Lega siamo così istituzionalmente affidabili che appena è caduto Berlusconi ci siamo affidati al Parlamento: del Nord.
E però noi della Lega ora ci siamo dati a parole xenofobe, ma non più su carta intestata del governo.”

venerdì 16 dicembre 2011

Dell’essere. 2 Della felicità, due.


- (…). Che cosa si può aggiungere alla felicità di un uomo in salute, privo di debiti e con la coscienza a posto? In una tale situazione ogni ulteriore fortuna può appropriatamente essere definita superflua, e se egli si esalta per tale superflua aggiunta, ciò deve essere l’effetto della più frivola leggerezza. (…) -.  Così scriveva, nella Sua Teoria dei sentimenti morali, il grande Adam Smith, che visse nelle verdi contrade di Edimburgo dal 1723 al 17 di luglio dell’anno 1790 e che si può ben considerare il fondatore di quella che oggi passa per l’economia politica. Anche quel grande ebbe a cuore di definire la condizione di “felicità” propria degli umani. E sì che il Suo pensare è ben distante, temporalmente almeno, dal pensare di uno tra i nostri più prestigiosi contemporanei intellettuali, il professor Umberto Galimberti, che, in una Sua preziosissima riflessione, pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” che di seguito trascrivo in parte, si chiede: “È compatibile la felicità con la nostra condizione mortale?”. Due secoli e passa dividono il pensiero di Adam Smith dal pensiero del Nostro. Al primo, molto concretamente, sembravano bastevoli, per il raggiungimento della condizione della “felicità”, quelle conquiste materiali e quelle condizioni etiche e morali che lo facessero sentire con  “la coscienza a posto”. Oggigiorno ben sappiamo e constatiamo come quelle semplicistiche intuizioni non siano bastevoli al raggiungimento della tanto agognata “felicità”. È che, nella condizione degli umani, il non raggiungimento di quella condizione di “felicità” diviene la condizione prima affinché si abbiano a realizzare le condizioni migliori per la umanizzazione, ovvero, per dirla con le parole somme del Poeta, le condizioni per le quali " …fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" -  Inferno canto XXVI, 116/120 -. Di seguito, lasciamoci trasportare nelle finissime intuizioni del professor Galimberti. Di una risposta si abbisogna per divenire comunque “felici”.


“In La gaia scienza Nietzsche dice che, rispetto ai vivi, i morti hanno un privilegio: - Quello di non morire più -. (…) …è per esorcizzare la morte che le religioni hanno annunciato una vita ultraterrena, dove l'insensatezza della vita terrena, che è tale perché ha in vista la morte, potesse trovare un rimedio e alla fine anche un senso. Questo annuncio ha consentito di superare la dimensione tragica propria degli antichi Greci, che, evitando di lasciarsi ingannare da promesse ultraterrene, chiamavano gli uomini mortali. Erano ben consapevoli che l'uomo per vivere ha bisogno di costruirsi un senso, ma non ignoravano che la morte è comunque l'implosione di ogni senso. In La nascita della tragedia Nietzsche racconta che, rivolto a re Mida che gli chiedeva quale fosse la cosa migliore e più desiderabile per l'uomo, il saggio Sileno, dopo aver annunciato questa tragica realtà, concludeva: - Stirpe miserabile ed effimera, figlio del caso e della pena, perché mi costringi a dirti ciò che per te è vantaggiosissimo non sentire? Il meglio per te è assolutamente irraggiungibile: non essere nato, non essere, essere niente. Ma la cosa in secondo luogo migliore per te è morire presto -. Un'umanità che fosse consapevole della dimensione tragica che gli antichi Greci avevano così bene segnalato, si sarebbe probabilmente estinta. La cosa fu evitata grazie alle religioni, in particolare a quelle monoteiste, che, promettendo un'altra vita dopo la morte, leggevano la morte non come una fine, ma semplicemente come un passaggio. Questo diede una carica di ottimismo a quanti aderirono alle religioni monoteiste, che in vista dell'aldilà trovarono la forza per reperire un senso anche per l'aldiquà. In questa promessa di immortalità Nietzsche scorge il colpo di genio del cristianesimo, che in questo modo ha debellato la morte, infondendo fede e speranza a tutto l'Occidente, che il cristianesimo è riuscito a persuadere. Tutto l'Occidente, ma non gli antichi Greci. Di fronte a Paolo, che nell'Areopago di Atene annunciava la resurrezione dalla morte, gli Ateniesi reagirono così: - Quando intesero parlare di resurrezione dei morti, alcuni ci risero, altri dissero: Questa storia ce la viene a raccontare un'altra volta -. (Atti degli Apostoli, 17, 32). Eppure dobbiamo essere grati alle religioni, e al cristianesimo in particolare, perché, vera o illusoria che sia la promessa dell'immortalità, hanno diffuso un ottimismo nel futuro che ha contaminato la scienza nella sua fiducia nel progresso, la politica nel miglioramento delle condizioni umane, la ricerca che non dismette il bisogno di conoscere che non troverebbe ragione in una visione tragica dell'esistenza. Ma Nietzsche ci ha avvertito che Dio è morto, perché non fa più mondo, perché il mondo accade come se Dio non fosse, perché se togliessi la parola Dio dal mondo contemporaneo, a differenza di quanto accadeva per esempio nel Medioevo, non avrei difficoltà a capire come funziona il mondo d'oggi. E allora, con Dio muore anche l'ottimismo infuso dalla sua promessa di immortalità, e torna la dimensione tragica che le religioni avevano cercato di superare o per lo meno di attutire. In ogni caso (…), la disperazione è figlia della speranza, e la speranza è una figura della religione.”

mercoledì 14 dicembre 2011

Dell’essere. 1 Della felicità.



- Sono felice ogni ora di ogni giorno della mia vita, perché mi sento amato – è l’affermazione del protagonista del film-capolavoro The elephant man (1980) del grande David Lynch, un film in bianco e nero che ho rivisto in  questi giorni. Lui, l’essere felice del film, è un “mostro” vivente, la cui figura si ispira ad un essere realmente esistito nell’Inghilterra vittoriana e che rispondeva al secolo al nome di John Merrick - John Hurt nel film -, nato nell’anno 1862 tra le brume ed i fumi – presenti minacciosi in tantissime sequenze - dovuti ad un avanzato processo di industrializzazione selvaggia di quel paese e deceduto nel 1890, un “mostro” divenuto tale a causa del morbo chiamato “neurofibromatosi” che gli ha dato una scatola cranica sproporzionata e ricoperta di ripugnanti protuberanze, il corpo interamente ricoperto di escrescenze tumorali, un arto, il braccio destro, più lungo dell'altro, una articolazione della voce che emette suoni come un grugnito, e con tantissimi altre patologie che gli impediscono di dormire sdraiato  a rischio del soffocamento. Per il grande regista la realtà diviene a volte una triste, vuota  rappresentazione, la vita non è come si mostra ed appare, e sotto la sfavillante superficie della esistenza la realtà nasconde sempre ben altro. Nel film l’utilizzo del bianco e nero, con lunghe sequenze dominate da toni decisamente crepuscolari, rimanda a pensare a quegli incubi degli umani che creano i “mostri” anche nella più ordinaria delle esistenze, intendendo così come il male si alterni di continuo al bene in un gioco perverso di luce ed ombra, di veglia e sogno, di realtà cosciente e di inconscio. Nel film è mostrato come l'orrore e la mostruosità possano stendere un velo sulla realtà di un essere, nascondendocene a volte la natura gentile e delicata. È che, seguendo la trama del film, mi è tornata alla mente una recentissima lettura che ha per titolo “È compatibile la vita umana con la felicità?” del professor Umberto Galimberti, pubblicata sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” che di seguito trascrivo in parte. Poiché, nonostante tutto, almeno nel film John Merrick si dice “felice”, pur vivendo sotto la tirannica custodia di un insensibile uomo, ovvero lui il “mostro”, che lo utilizza per esporlo come fenomeno da baraccone senza alcuna salvaguardia della dignità umana e percuotendolo ogni qualvolta non esegue gli ordini  impartitigli. Eppure John Merrick si dice “felice”. E qui mi fermo nella trama complessa del film. Cosa lo rende “felice”? L’essere “amato”. Gli basta ed avanza. Confesso che la “cosa” mi pare inverosimile. Ma l’arte è l’arte. Può, nonostante la sua mostruosità, John Merrick considerarsi un essere “felice”? è legittimo porsi la domanda? In quanti, pur non avendo la mostruosità sua, sarebbero disponibili a dichiararsi “felici”? E quanti si dichiarano di non esserlo pur possedendo la bellezza del corpo, abiti eleganti e possedimenti ricchi e vasti? C’è sempre qualcuno che rimanda d’essere “felice” in una vita a venire. Non è toccato dalla mancata felicità di questo mondo. “Gode” delle infelicità come viatico per le felicità future. Pericoloso ed impervio assai addentrarsi per questi sempre tortuosi sentieri della mente.

“Scrive Seneca a Lucilio: - Devi imparare a vivere finché hai vita -. Le (…) considerazioni, secondo le quali l'uomo è infelice perché non vive la vita nel suo gratuito accadere, ma la traguarda a partire dalla morte che dalla vita lo congeda, trovano il loro riscontro in queste parole di Nietzsche: - Osserva il gregge che ti pascola innanzi: esso non sa cosa sia ieri, cosa oggi, salta intorno, mangia, riposa, digerisce, torna a saltare, e così dall'alba al tramonto, e di giorno in giorno, legato brevemente con il suo piacere e dolore, attaccato cioè al piolo dell'istante, e perciò né triste, né tediato. Il veder ciò fa male all'uomo, poiché al confronto dell'animale egli si vanta della sua umanità e tuttavia guarda con invidia alla felicità di quello giacché questo soltanto egli vuole, vivere come l'animale, né tediato, né fra dolori, e lo vuole però invano, perché non lo vuole come l'animale -. In questo ‘come’ sta la differenza e l'inevitabile sguardo che incontra il dolore dell'esistenza, mai paga del presente perché proiettata in un futuro in cui l'uomo incontra la sua essenza, che è poi quella di oltrepassare di continuo le situazioni e le condizioni date. A questo bisogno insopprimibile di oltrepassamento è stato dato il nome di trascendenza, che, per chi crede, proietta in un altro mondo. Chi invece pensa che in questa terra tutto si conclude, ciò nonostante non rinuncia a proiettare nel futuro idee di progresso, benessere e più equa giustizia, in un mondo che, a differenza dell'animale, non è quello dato ma quello che quotidianamente l'uomo costruisce. Ma la morte lo attende e, a differenza dell'animale, l'uomo lo sa. Questa consapevolezza non gli impedisce di continuare a costruire mondi, ma non gli evita neppure la tristezza di doversi congedare da questi mondi che altri abiteranno, divenendo, se un sentimento ancora li percorre, custodi della sua memoria. Qui la felicità cede la sua pienezza, e, nel farsi incerta e inquieta, diventa malinconica.”

lunedì 12 dicembre 2011

Lavitadeglialtri. 1 La donna dietro l'annuncio.



Se per caso vi chiedessi notizie su di un film di qualche anno addietro che ha per titolo Brassed off , sapreste darmene? Brassed of cosa, chi? Il “chi” in questione è il nome del regista di quel celebre film, Mark Herman; vi dice qualcosa? Il film risale all’anno 1996 e venne distribuito nel bel paese con un titolo che forse non ci azzecca niente con la lingua della perfida Albione: “Grazie, signora Thatcher”. Risolto il mistero. Solo che, il titolo della distribuzione nel bel paese non rende a pieno il significato letterale che è semplicemente, per gli inglesi, "cacciati via", "licenziati". "Cacciati via", "licenziati" chi? Indovinate un po’. Ma gli operai della miniera vivaiddio! Mica si mandano via i manager, i cosiddetti, un tempo, “capitani d’industria”. I primi a pagare sono sempre e solamente loro, gli operai, un tempo i cosiddetti proletari. Oggigiorno risulta disdicevole usare il termine. Ma il senso del film è ben rappresentato dalla storia che vi si racconta. Ho rivisto il film proprio in questi giorni; una strana coincidenza. Poiché negli stessi giorni avevo letto la solita settimanale corrispondenza di Claudia De Lillo, in arte Elasti, sul supplemento “D” del quotidiano “la Repubblica” che ha per titolo “La donna dietro l'annuncio”, che di seguito trascrivo in parte. Occhio alle date; il film arriva in Italia nell’anno 1996, due anni appena dopo una certa “discesa in campo”. Ma la storia del film si colloca alla fine degli anni ottanta del secolo ventesimo. Nella storia è per l’appunto il 1989. La storia si dipana nella regione dello Yorkshire tra le ciminiere di quelle miniere di carbone alle quali i protagonisti affidavano il loro destino, la loro vita. Ma esse, le miniere intendo dire, anche se ancora in produzione, sono destinate nella storia del film ad essere smantellate. Nei titoli di coda del film si legge che in quel tempo centinaia e centinaia di miniere furono smantellate e con esse furono "cacciati via" ben 250.000 minatori. È che il “reaganismo” d’oltreatlantico aveva gettato le basi del liberismo che avrebbe trovato nella signora Thatcher una formidabile interprete ed una instancabile realizzatrice di quelle teorie. Straordinari i personaggi e gli interpreti: Danny, il maestro di musica che dirige la banda, interpretato magnificamente da Pete Postlethwaite, che era stato anche nel film “Nel nome del padre”; Phil, il figlio, la cui vita è devastata dagli usurai; Andy, interpretato da Ewan McGregor, quello di “Trainspotting”; e poi, figure forti di quel proletariato, Harry, Jim, Ernie, che hanno sempre condiviso lotte, gioie e dolori, ma che di fronte al nuovo corso della storia e della economia si arrendono, sciolgono la banda musicale, coscienti che con il corso nuovo degli eventi sono destinati a sfumare i sogni di solidarietà, equità e giustizia sociale. Fino a quando la giovanissima Gloria, interpretata da Tara Fitzgerald, con un gesto di altruismo, restituisce a quegli uomini duri la voglia di combattere. Avevo già visto il film, ma anche in questa occasione il suo finale mi ha restituito una stretta in gola. Ed è stato nel corso della visione del film che mi sono ricordato del ritaglio con lo scritto della De Lillo. L’onda lunga di quel tempo, di quel liberismo senza freni, sommerge ancora oggi la vita di milioni e milioni di donne e uomini, vita fatta di precarietà, iniquità ed abissali dislivelli sociali.

“(…). - Doriana, mi racconti la tua storia?  -. Dice sì. Ci incontriamo all'ora di pranzo. La vedo mentre esce dal suo ufficio, la segreteria di una facoltà universitaria, circondata da studenti. - Grazie. È stata gentilissima, come al solito -, dicono. Lei si schermisce, ride, saluta e viene via con me, lieve, i capelli neri e dritti, gli occhi grandi, il passo sicuro di chi sa la strada. Ha 46 anni, un marito disoccupato, una figlia adolescente, un contratto a tempo indeterminato da 1.300 euro mensili, in cui deve far entrare tutto. - Mio marito ha perso il lavoro sei anni fa: hanno liquidato l'azienda in cui era assunto. Aveva 44 anni. I primi tempi ha lavorato qua e là, da precario. Da tre anni invece è fermo, nonostante i corsi per la ricollocazione professionale e la ricerca quotidiana di un impiego -. Il marito di Doriana la mattina si alza con lei, la accompagna in ufficio, poi torna a casa e su internet cerca lavoro, prepara il pranzo per sé e la figlia, fa il casalingo. - Quando ha imparato a usare la lavatrice era tutto contento. Lasciamo stare come stende...-. Ogni tanto Doriana si arrabbia, perché il pavimento è sporco (Sei a casa tutto il giorno, possibile che non ti accorga che il pavimento fa schifo?), perché la rabbia e il rancore montano, anche se li reprimi, perché lui dice accusatorio: - Il vero problema ce l'ho io -. - Lo so. È umiliante per un uomo chiedere i soldi alla moglie, è sfinente non lavorare. Però lui è proiettato sulla sua situazione, io su tutto il resto. Io cerco di risolvere i problemi quotidiani: faccio quadrare i conti per affitto, luce, gas, telefono, ricariche dei cellulari (mai più di 5 euro). L'auto no, quella non possiamo permettercela. Sono io che vado a caccia di offerte, che a pranzo, quando sono tirata, mangio i taralli della macchinetta dell'ufficio e uso i buoni pasto per la spesa -. - Vorrei avere più soldi per smettere di pensare ai soldi -, dice Doriana, solare, dignitosa, coriacea. Nessuno, tra i colleghi, immagina che Doriana sia costretta a fare i conti, sempre. - Quando provo a spiegare la mia situazione, mi accorgo che la gente pensa ‘se il marito è disoccupato da sei anni significa che non si è dato abbastanza da fare'. Questo mi ferisce perché, se non ci sei dentro, è impossibile capire. Allora preferisco far finta di niente, ridere e scherzare come nulla fosse -. Sua figlia ha 17 anni, fa il liceo linguistico e si chiama Virginia. - Lei conosce i nostri problemi, sa che ci sono dei limiti alle sue richieste, è consapevole, matura e non si vergogna di parlarne con i suoi amici. A scuola non è l'unica -. Si accende un lampo di orgoglio materno, si intuiscono complicità, protezione, tenerezza. - Ieri mi ha chiesto 10 euro per una gita di classe e 7 euro per il teatro. Per un genitore è avvilente dire: Non si può. Quando Virginia ha annunciato che voleva cercarsi un lavoretto, - ho temuto che facesse qualche stupidaggine, che entrasse in giri strani -. - Finché posso, ci penso io a te -, le ha risposto Doriana che per paura, orgoglio e amore, si è messa alla ricerca di un secondo lavoro, il sabato e la domenica, via Facebook.”

sabato 10 dicembre 2011

Capitalismoedemocrazia. 1 Il capitalismo tra le onde del debito.


Il capitalismo tra le onde del debito è il titolo di un’attenta analisi del professor Giorgio Ruffolo e di Stefano Sylos Labini pubblicata sull’ultimo numero del settimanale “Affari&Finanza”, analisi che di seguito trascrivo in parte. Affermano i due studiosi: “La globalizzazione comporta enormi diseguaglianze e promuove una gigantesca inflazione finanziaria”. È ciò che non sfugge neanche ai meno accorti, ai miopi e che siano al contempo poco addentro alle cose dell’economia e della finanza. Quella affermazione rappresenta un approdo, una presa di coscienza che pone problemi che nuovi non sono ma che il processo, reso inarrestabile ed incontrollabile della globalizzazione, ha reso drammatici e mostruosi. Ci si dimena in queste settimane, anzi or sono mesi, nel salvataggio di ciò che resta dell’euro; ma non sollevando lo sguardo e non assumendo una nuova consapevolezza dei problemi che l’azione deleteria del un capitalismo finanziario sfrenato e smodato produce, non si andrà da nessuna parte. Nel dibattito che si è acceso nel bel paese, a proposito della necessaria manovra finanziaria ultima, attualmente in discussione alle camere, non sono mancate le voci autorevolissime secondo le quali qualora essa, la manovra, non dovesse dar di conto ad un rinnovato impegno per una maggiore “equità” sociale e  ad una “redistribuzione” della ricchezza, ad una rivalutazione della qualità del lavoro, soprattutto giovanile, non solamente come strumento di acquisizione di denaro ma di realizzazione della umana persona, se essa non procederà a porre la questione fondamentale di come avviare uno sviluppo nuovo più che una crescita qualsivoglia, che sia solamente in funzione della ripresa dello spreco e dei consumi del superfluo reso necessario, pensando in tal modo anche al mondo del domani con i gravissimi problemi ambientali che incombono su di esso e per non dire dell’inumana condizione in cui versa una fetta molto grossa del genere umano, ascoltando quelle voci ci si rende conto in pieno come l’azione nefasta della globalizzazione, per come essa è venuta maturando in questo scorcio di millennio, non potrà essere contrastata ed invertita in alcuna forma e maniera. Necessita un “riequilibrio” globale delle risorse, della ricchezza e dei diritti: le antiche alchimie economicistiche non trovano più alcuna rispondenza con i problemi insorti e non hanno beneficio alcuno, se non un blando effetto “placebo” della durata brevissima che intercorre tra una “speculazione” dei mercati e l’altra.

“(…). La nuova fase del capitalismo finanziario, che si apre all’inizio degli anni ’80 con la liberalizzazione dei movimenti di capitale, ha fatto affluire sulla scena economica mondiale, sia pure in modi tumultuosi, miliardi di contadini poveri, ma ha provocato un rovesciamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro e tra capitalismo e democrazia. La globalizzazione comporta enormi diseguaglianze e promuove una gigantesca inflazione finanziaria. Infatti, a differenza di quanto accade nel mercato dei beni reali, in quello dei titoli non esiste un meccanismo compensativo che freni una domanda eccessiva con l’aumento dei prezzi. L’aumento del prezzo dei titoli ne aumenta la domanda per l’attesa di nuovi guadagni generando un meccanismo cumulativo sfrenato. I debiti si rinnovano sistematicamente, facendo del nuovo capitalismo finanziario, come è stato detto (Marc Bloch) uno strano sistema dove i debiti non si rinnovano mai. Le onde del debito si accavallano le une alle altre sospinte dalla fiducia nella crescita del sistema. Cresce la liquidità in proporzioni smisurate rispetto al prodotto reale (nel 2007, al momento della crisi, di dodici volte!). Ma quando si delinea uno scenario recessivo e viene a mancare la fiducia nella capacità di rispettare gli impegni di pagamento, la liquidità si distrugge mentre i debiti restano, provocando ondate di fallimenti. Le onde del debito allora si infrangono sulla riva. E’ ciò che è puntualmente successo con la crisi che attraversiamo. La violentissima restrizione monetaria del settore privato ha portato al fallimento della Lehman, al crollo dei mercati, al prosciugamento del credito interbancario, alla drastica diminuzione dei prestiti a famiglie e imprese e quindi alla caduta della domanda aggregata, della produzione e dell’occupazione nei Paesi più avanzati. Dunque, la crisi ha colpito al cuore la teoria neoclassica secondo cui i mercati sono razionali e si autoregolano e ha reso evidenti i guasti prodotti dalle politiche di deregolamentazione in voga negli ultimi 30 anni. A quel punto non si poteva che ricorrere al deteStato. A differenza degli anni trenta quando vi furono massicci interventi statali nell’economia reale (protezionismo, nuove regole, nazionalizzazioni), la crisi attuale è stata fronteggiata con la sostituzione dell’indebitamento privato con quello pubblico e con l’espansione dell’offerta di moneta da parte delle Banche Centrali. L’intervento pubblico ha privilegiato il salvataggio delle banche ma è stato inesistente sul lato della crescita. Il mancato rilancio di un ciclo di crescita ha impedito che si riattivasse il credito bancario, essenziale per alimentare la domanda aggregata. Ora i governi sono puniti per i loro disavanzi di salvataggio dalle agenzie di rating, che non avevano mosso ciglio di fronte alle malversazioni della finanza; e sono costretti a ridurre le spese sociali addossando i costi sui ceti più deboli. In conclusione: gli interventi finora attuati sono stati insufficienti e dannosi. È necessario un nuovo compromesso storico tra il capitalismo e la democrazia del tipo di quello che contraddistinse, alla fine della seconda guerra mondiale, l’età dell’oro (Hobsbawn). Abbandonare il capitalismo finanziario sregolato per tornare a un capitalismo governato. Costruire un sistema di relazioni internazionali in cui il dollaro non sia più la moneta dominante. Contenere i movimenti di capitale di brevissimo termine con misure fiscali tipo Tobin Tax. Ridurre i divari nella distribuzione della ricchezza non solo perché diseguaglianze troppo marcate sono inaccettabili moralmente ma perché costituiscono un freno allo sviluppo. Uno sviluppo sostenibile si deve fondare su investimenti, crescita della produttività e dei salari reali. Per questo la politica dei redditi deve ritornare al centro della politica economica.”