Da “Il mondo
che rivuole le frontiere” di Federico Rampini, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 27 di giugno dell’anno 2016: La competizione globale - dice
Barack Obama - dà a molti lavoratori la sensazione che li abbiamo abbandonati.
Provoca diseguaglianze ancora maggiori. I privilegiati accumulano straordinarie
ricchezze e potere. L'angoscia è reale. Quando la gente è spaventata, ci sono
politici che sfruttano queste frustrazioni". Pronunciate poche ore dopo il
risultato del referendum inglese, queste parole del presidente degli Stati
Uniti abbracciano fenomeni comuni a tutto l'Occidente. Da Brexit a Donald Trump, forti correnti dell'opinione
pubblica appoggiano i politici che promettono un ritorno all'indietro, verso
un'Età dell'Oro pre-globalizzazione. È un vasto rigetto delle frontiere aperte,
dei mercati comuni, dei trattati di libero scambio, oltre che dell'immigrazione.
Viene rimesso in discussione tutto ciò che sotto il termine di globalizzazione
ha segnato l'ordine economico mondiale nell'ultimo quarto di secolo. Una storia
che ha origini in due trattati. Il primo è l'Atto che crea nel 1992 il grande
Mercato unico europeo. Il secondo è il Nafta (North American Free Trade
Agreement) negoziato nel '92 e ratificato nel 1994 tra Stati Uniti, Canada e
Messico. Parte da quei due cantieri la costruzione di un sistema che in seguito
si estenderà fino ad abbracciare Cina e altre nazioni emergenti. Ma dall'inizio
Mercato unico e Nafta avevano in embrione i problemi destinati a esplodere
oggi. Le riforme di mercato degli anni 90 arrivano al termine di un'offensiva
neoliberista travolgente: gli anni Ottanta con Ronald Reagan e Margaret
Thatcher hanno delegittimato l'economia mista, il capitalismo di Stato, la
pianificazione, la concertazione sindacale. Il crollo del Muro di Berlino ha
sancito il fallimento dei sistemi comunisti. L'implosione dell'Urss e dei suoi
satelliti è l'altra faccia di una storia di successo: di qua dal Muro,
l'America e l'Europa occidentale hanno conosciuto decenni di sviluppo e
diffusione del benessere, che hanno coinciso con i primi smantellamenti di
barriere doganali. Dal 1947 al 1995 il Gatt e la Cee sono stati i primi
esperimenti di libero scambio. Con gli anni Novanta la parola d'ordine diventa:
andare più avanti, molto più avanti. Reagan-Thatcher sposano le teorie di
Milton Friedman, premio Nobel dell'economia, capo della "scuola di Chicago".
Qualsiasi laccio che freni il mercato va abolito perché impedisce il dinamismo
e la creazione di ricchezza. Senza più barriere e protezionismi ciascun paese
può specializzarsi nelle cose che fa meglio e sfruttare i "vantaggi
comparativi". Fin da allora si levano alcune voci critiche. Jacques
Delors, socialista e cattolico, è il presidente della Commissione europea che
gode dell'appoggio di François Mitterrand. Delors vede la necessità che il
Mercato unico sia accompagnato da una "carta sociale" dei diritti: per
evitare che la competizione fra paesi di livello diverso si trasformi in una
"rincorsa al ribasso" verso il minimo comune denominatore. Nel
Mercato unico c'è qualcosa dell'idea di Delors. Tant'è che i conservatori
inglesi allora denunciano un'Europa "socialista" che impone rigidità
al mercato del lavoro. È di quegli anni un progresso nelle tutele dei
consumatori, terreno sul quale l'Europa parte tardi ma sorpassa rapidamente gli
Stati Uniti. Il Mercato unico è più di un'area di libero scambio. Elimina barriere
occulte all'esportazione di beni e anche di servizi; abolisce ostacoli alla
circolazione di tutti i fattori di produzione: dà libertà ai movimenti di
capitali e all'emigrazione di manodopera. Coordina politiche fiscali,
industriali, agricole. Crea regole standard in quasi tutti i settori. Apre il
mercato dei lavori pubblici. Vieta gli aiuti di Stato.
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 28 giugno 2017
domenica 25 giugno 2017
Quodlibet. 5 “Il referendum per una politica che abdica”.
Da “La
politica che abdica” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano la Repubblica
del 25 di giugno dell’anno 2016: Cosa si muove nel sentimento profondo del
popolo? Come se la vita fosse senza dubbi, e la vita pubblica senza sfumature,
il referendum sembra costruito apposta per questi tempi radicali,
radicalizzando i due corni dell'opinione pubblica nelle loro forme estreme,
dove c'è spazio soltanto per essere totalmente a favore o definitivamente
contro. Sembra il massimo dell'espressione democratica, la parola al popolo,
come la scelta tra Gesù e Barabba. E invece è l'espressione basica e universale
della democrazia che cerca se stessa, quando i rappresentanti non sono in grado
di elaborare una proposta politica convincente, si spogliano della loro
responsabilità e delegano la scelta ai cittadini, saltando i parlamenti e i
governi per raggiungere una vox populi dove fatalmente si mescola la ragione e
l'istinto, l'emozione e la frustrazione, l'individuale e il collettivo. In
questo senso, il pronunciamento popolare è il più ricco di contenuto e di
ingredienti soggettivi. In un senso più generale, è un'altra prova di
abdicazione della politica organizzata nella sua forma storica tradizionale,
che oggi rinuncia ad assumersi i suoi rischi e ricorre al popolo per rincorrere
in realtà il populismo che la sta mangiando a morsi e bocconi. (…). Ma che
importa, se è vero quel che diceva Nietzsche: "La decadenza è scegliere
istintivamente ciò che è nocivo, lasciarsi sedurre da motivazioni non
finalizzate". Ci sono momenti in cui l'istinto di dare una forma politica
visibile alla decadenza in cui viviamo prevale su tutto, anche sulle
convenienze. (…). Vale dunque la pena di cercare i caratteri generali di un
fenomeno che (…) sta covando come una febbre sotto la pelle di tutta l'Europa.
(…). L'europeismo non è più un sentimento politico, in nessuno dei nostri
Paesi. L'antieuropeismo è invece un risentimento robusto e potente, distribuito
a piene mani dovunque. La radicalizzazione delle scelte senza mediazioni, come
quella del referendum (in Inghilterra n.d.r.), realizza un processo alchemico
strepitoso e inedito nel dopoguerra, trasformando immediatamente e
definitivamente il risentimento in politica, quella politica in vincolo, quel
vincolo in destino generale. Tutto ciò che un processo storico lento, prudente
e tuttavia visionario ha costruito in decenni, si spezza così in una sola giornata,
probabilmente per sempre. Minoritario sugli scranni del parlamento, il
populismo anti-sistema e anti-istituzionale ha dunque portato a termine la sua
vittoria nelle piazze, sommando le frustrazioni individuali, le separazioni e
le solitudini, lo smarrimento delle comunità reali nella ricerca artificiale di
una comunità di sicurezza e di rassicurazione che non è più territoriale e
nazionale (nonostante lo slogan "Brexit") ma è spirituale e politica,
una sorta di secessione dalla forma istituzionale organizzata che i popoli
europei si erano costruiti nel lungo dopoguerra di pace, per crescere insieme
cercando un futuro comune. Il risentimento ha le sue ragioni, tutte visibili a
occhio nudo. L'impotenza della politica prima di tutto, schiacciata dalla sproporzione
tra problemi sovranazionali (la crisi, l'immigrazione, il terrorismo) e le
sovranità nazionali a cui chiediamo protezione. Poi la lontananza burocratica
dell'Unione Europea, che percepiamo come un'obbligazione disciplinare senza più
rintracciare la legittimità di quella disciplina. Quindi il peso ingigantito
delle disuguaglianze che diventano esclusioni, la nuova cifra dell'epoca. In
più la sensazione tragica che la democrazia e i suoi principii valgano soltanto
per i garantiti e non per i perdenti della globalizzazione. Ancora la rottura
del vincolo di società che aveva fin qui unito — nelle differenze — il ricco e
il povero in una sorta di comunità di destino, mentre il primo può ormai fare a
meno del secondo. Infine e soprattutto il sentimento di precarietà diffusa e
dominante, la mancanza di sicurezza, la scomparsa del futuro e non solo
dell'avvenire, la sensazione di una perdita complessiva di controllo dei
fenomeni in corso: di fronte ai quali l'individuo è solo, immerso nel moderno
terrore di smarrire il filo di esperienze condivise, vale a dire ciò che gli
resta della memoria, quel che sostituisce l'identità.È evidente come tutto
questo favorisca un linguaggio di destra, una semplificazione demagogica, una
banalizzazione antipolitica, uno sfogo nel politicamente scorretto e una via di
fuga nell'estremismo, (…). In realtà, c'è uno spazio enorme per una riconquista
della politica, se sapesse ritrovare una voce credibile e per la costruzione
europea, se sapesse riscoprire l'ambizione di sé. Altrimenti varrà, a partire
proprio dal Brexit, la profezia di George Steiner, secondo cui l'Europa ha
sempre pensato di dover morire. Mentre ormai soltanto gli immigrati vedono
nella nostra terra quel che noi non sappiamo più vedere: semplicemente
"una dimora, e un nome".
sabato 24 giugno 2017
Eventi. 23 “Stefano Rodotà, la bandiera della dignità”.
In memoria di un Uomo “grande”
che ci ha appena lasciati. Da “La
bandiera della dignità” di Stefano Rodotà, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 15 di febbraio dell’anno 2011: È tempo di liberarsi dello
spirito minoritario che, malgrado tutto, continua a lambire anche qualche parte
della stessa opposizione. È questa l'indicazione (la lezione?) che viene dai
molti luoghi che da molti mesi vedono la presenza costante di centinaia di
migliaia di persone che, con continuità e passione, rivendicano libertà e
diritti: un fenomeno che non può essere capito con gli schemi, invecchiati, del
"risveglio della società civile" o di qualche partito "a
vocazione maggioritaria". Non sono fiammate destinate a spegnersi,
esasperazioni d'un giorno, generiche contrapposizioni tra Piazza e Palazzo. Non
sono frammenti di società, grumi di interesse. È un movimento costante che
accompagna ormai la politica italiana, e a questa indica le vie per ritrovare
un senso. È l'opposto delle maggioranze "silenziose" che si
consegnano, passive, in mani altrui. Donne, lavoratori, studenti, mondo della
cultura si sono mossi guidati da un sentimento comune, che unifica iniziative
solo nelle apparenze diverse. Questo sentimento si chiama dignità. Dignità nel
lavoro, che non può essere riconsegnato al potere autocratico di nessun
padrone. Dignità nel costruire liberamente la propria personalità, che ha il
suo fondamento nell'accesso alla conoscenza, nella produzione del sapere
critico. Dignità d'ogni persona, che dal pensiero delle donne ha ricevuto un
respiro che permette di guardare al mondo con una profondità prima assente.
Proprio da questo sguardo più largo sono nate le condizioni per una manifestazione
che non si è chiusa in nessuno schema. Le donne che l'hanno promossa, le donne
che con il loro sapere ne hanno accompagnato la preparazione senza rimanere
prigioniere di alcuni stereotipi della stessa cultura femminista, hanno colto
lo spirito del tempo, dimostrando quanta fecondità vi sia ancora in quella
cultura, dove l'intreccio tra libertà, dignità, relazione è capace di generare
opportunità non alla portata della tradizionale cultura politica.
giovedì 22 giugno 2017
Quodlibet. 4 “La stagione del risentimento”.
Da “La
stagione del risentimento” di Marco Belpoliti, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 22 di giugno dell’anno 2016: Un profondo senso di frustrazione
unisce le madri ai figli e alle figlie disoccupate, i sessantenni ai trentenni,
gli operai ai piccoli imprenditori, i professori ai loro allievi. Nessuno si
salva, nessuno ne sembra esente. C'è anche il rancore, che s'accompagna al
risentimento, suo fratello gemello; parola d'origine latina, rancor, ha la
medesima radice di rancidus, "astioso" e anche "stantio".
La convinzione che i più coltivano, a torto o a ragione non importa, è quella
di aver subito un sopruso, un'ingiustizia. Ne consegue dolore, afflizione, ma
anche ansia e depressione, che sono due stati d'animo assai diffusi, opposti e
simmetrici alla rabbia che il risentimento produce. I luoghi dove manifestarlo
sono molti e diversi, tra questi anche la lotta politica, trasformata da
competizione tra partiti e programmi diversi in resa dei conti, luogo in cui
ribaltare i torti o compiere agognate vendette. Luis Kancyper, uno
psicoanalista sudamericano, che si occupa da anni del rancore, sottolinea come
si tratti di una attività ripetitiva: rancore come "ruminare". In
origine il termine indicava l'atto di dondolarsi, il pensare e ripensare al
medesimo evento in modo costrittivo. Allo stesso modo, scrive Kancyper, il
risentimento è un "sentire ancora, di nuovo", un ritornare
incessantemente sul proprio stato emotivo, senza possibilità alcuna di
allontanarsi definitivamente dall'offesa o dal torto subito, sovente
immaginario. Il risentimento deve avere senza dubbio una qualche parentela con
la paranoia, l'unica malattia mentale contagiosa, come ha ricordato Luigi Zoja
nel suo studio Paranoia. Gli psicoanalisti sono convinti che la radice profonda
del risentimento risieda nell'invidia, sentimento negativo, ma che ha un'enorme
importanza nelle relazioni tra i singoli e tra i gruppi sociali. Il filosofo
sloveno Slavoj Zizek ha raccontato in vari libri un'emblematica storiella al
riguardo. Una strega dice a un contadino: «Ti farò quello che vorrai, ma
ricorda, farò due volte la stessa cosa al tuo vicino». E il contadino con un sorriso
furbo: «Prendimi un occhio!». Quale è la radice sociale del risentimento che
colpisce da almeno un paio di decenni l'Italia e che ha avuto il suo culmine
nei fenomeni xenofobi, nelle manifestazioni leghiste e che fluttuando si
manifesta a intervalli più o meno regolari qui e là, determinando anche i
flussi elettorali e le manifestazioni collettive? La frustrazione, si potrebbe
rispondere. Ma per cosa? La condizione contemporanea sarebbe secondo gli
psicologi un impasto inedito d'invidia e risentimento. L'inseguimento del
successo, proposto sempre più come una meta individuale e collettiva, produce
forme ossessive di ripiegamento su di sé, da cui nasce il risentimento.
mercoledì 21 giugno 2017
Paginatre. 90 “Se un condannato per mafia, un giornalista stimato, il segretario del PD…”.
Da “La
nostra Repubblica fondata sul disonore” di Maurizio Viroli, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 16 di giugno 2017: Se un condannato per mafia e stragi come
Giuseppe Graviano avesse dichiarato che ho pesanti responsabilità per attività
terroristiche e sono colluso con la criminalità organizzata, sarei io ad
esigere un contraddittorio davanti a un giudice e, per essere sicuro che la mia
onorabilità fosse agli occhi della pubblica opinione più chiara del sole, farei
di tutto affinché televisioni e giornali assistessero al dibattimento. Se un
galantuomo e giornalista stimato come Ferruccio De Bortoli avesse scritto in un
libro che ho esercitato pressioni indebite affinché un importante istituto
bancario intervenisse per salvare una banca a rischio di collasso per la mala
gestione di mio padre e di altri, raccoglierei i miei risparmi per querelare il
De Bortoli e, prima ancora che la giustizia completasse il suo lungo e lento
iter, lo sfiderei a un pubblico contraddittorio davanti a televisioni e alla
presenza di giornalisti al fine, ancora una volta, di difendere il mio onore. Se
fossi il segretario del Pd esigerei dalla ministra Maria Elena Boschi che
trascinasse De Bortoli davanti alle telecamere e davanti al giudice e, qualora
non accettasse il mio pressante invito, la farei cacciare per difendere
l’onorabilità del mio partito e presentarmi ai cittadini italiani con le carte
in regola per governare la Repubblica. Per quel che ne so, Silvio Berlusconi
non ha chiesto il contraddittorio con Giuseppe Graviano; Maria Elena Boschi non
ha querelato De Bortoli e non lo ha sfidato ad alcun pubblico dibattito; Matteo
Renzi non ha deferito la ministra ai probiviri. Segni inequivocabili, a mio
giudizio, che Berlusconi e Boschi tengono assai poco al loro onore personale, e
che Matteo Renzi tiene assai poco all’onore del partito che ha il dovere di
rappresentare, vale a dire di tutelare e sostenere. Poco male, se i tre
personaggi fossero cittadini senza pubbliche responsabilità. Ma Maria Elena
Boschi è sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Matteo Renzi è
segretario del Pd e Silvio Berlusconi è presidente di Forza Italia, e tutti e
tre, a titolo e in modi diversi (Berlusconi non può allo stato attuale delle
cose essere eleggibile) molto probabilmente ci governeranno nel prossimo
futuro. Governare, per chi è come me all’antica, vuol dire servire la
Repubblica nel rispetto rigoroso della Costituzione. La Costituzione afferma
all’art 54: “Tutti i cittadini hanno il dovere di essere fedeli alla Repubblica
e di osservarne la Costituzione e le leggi. I cittadini cui sono affidate
funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore
prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge”. Domanda ingenua: come
possono governare persone che nei fatti dimostrano di non avere senso
dell’onore? Personalmente considero gli individui senza senso dell’onore
ripugnanti. Non li frequenterei e soprattutto non affiderei loro il governo della
cosa pubblica per la semplice ragione che, non avendo senso dell’onore, sono di
per sé inaffidabili. Temo tuttavia che la maggioranza dei miei concittadini
poco si preoccupi dell’onore dei rappresentanti, come dimostrano infiniti
esempi delle elezioni del passato e pure le recenti elezioni amministrative
dove candidati condannati o indagati sono stati votati trionfalmente per
governare le loro città. Invito tuttavia i concittadini che dell’onore si
preoccupano poco o nulla a considerare che, se avremo al governo persone senza
senso dell’onore, il loro esempio contribuirà a devastare ulteriormente quel
poco di etica pubblica che ancora per miracolo sopravvive in Italia fra le
forze dell’ordine, le forze armate, i magistrati, gli insegnanti, e i cittadini
comuni. Avremo di conseguenza un Paese ancora meno sicuro, ancora più
degradato, ancora più in balia dei prepotenti e degli arroganti di varia
specie. (…).
domenica 18 giugno 2017
Quodlibet. 3 “Le voragini della democrazia italiana”.
Da “Le voragini della democrazia italiana” di Andrea Manzella,
pubblicato sul quotidiano la Repubblica del 18 di giugno dell’anno 2013: (…).
La democrazia italiana sta male non solo perché ci sono due Camere invece di
una o perché i parlamentari sono 1000 e non 500. Ma perché le si sono aperte
dentro due immense voragini. Una è quella che ormai separa le istituzioni
rappresentative dalla cittadinanza concreta, l’altra è quella che si è creata
tra il principio di maggioranza politica e il principio di competenza tecnica.
La prima scollatura ha determinato la crisi del rapporto tra i mondi vitali
(interessi, speranze, volontà) della gente qualunque e la rappresentanza
collettiva che se ne ha nelle istituzioni. L’altro vuoto, quello tra
maggioranza elettorale e competenze, ha portato alle varie storture: la
necessità di governi tecnici senza vere basi politiche, l’egemonia di una
amministrazione pubblica autoreferenziale, la formazione di gruppi parlamentari
“per caso”. Alla radice di questi aspetti di dissesto democratico vi è la fine
del partito politico di massa: collettore di bisogni, organizzatore sociale,
promotore e animatore delle conoscenze tecniche intorno a progetti di progresso
comunitario. È accaduto che, ad un certo punto, l’andamento del mondo è stato
più rapido della capacità culturale del partito politico,uscito dalla storia
dell’800, di adeguarsi ai mutati orizzonti. Rattrappito su se stesso, non ha
più capito niente e si è fatto sommergere dalla società com’era diventata. Il
suo posto è stato preso da non-partiti, i partiti “personali”. Oppure da
qualcuno che si è appropriato dell’antico marchio come bene pubblicitario
utilizzabile nel mercato elettorale. In altri casi sono nati partiti elettorali
programmati per “non essere partiti”. In un unico caso – quello del Pd – è
sopravvissuta la trama di un insieme a cui con straordinario sforzo di memoria
e di fiducia ancora si reggono “militanti” in attesa di parole e tempi nuovi di
ritrovamento. (…). …la cittadinanza del “cittadino” qualunque non può
esaurirsi, di tanto in tanto, e sempre più svogliatamente, nel momento elettorale.
Essere cittadino ogni giorno vuol dire farsi carico dei problemi concreti che
quotidianamente lo coinvolgono e che le istituzioni rappresentative sempre più
fanno fatica a risolvere, da sole. Dalle minute questioni di prossimità (la
scuola, la strada, il decoro urbano, la sicurezza del quartiere. ..) a quelle
grandi della comunità più larga ( l’opera pubblica interregionale,il rapporto
tra fabbrica e ambiente, la bioetica, persino: come nella Francia del débat
public...). (…).
venerdì 16 giugno 2017
Quodlibet. 2 “Brexit, la UE e la democrazia”
Da “Brexit,
a spaventare la UE è la democrazia” di Alberto Bagnai, pubblicato su “il
Fatto Quotidiano” del 16 di giugno dell’anno 2016: (…). Parto dall’osservazione più
semplice: le stesse istituzioni, in qualche caso addirittura le stesse persone,
che ci stanno prospettando sciagure inerarrabili in caso di uscita del Regno
Unito dalla Ue, sono quelle che ci hanno promesso prosperità e pace grazie alla
nostra adesione al progetto europeo. Un esempio per tutti: Donald Tusk, secondo
cui la Brexit sarebbe “la fine della civiltà politica europea”. Siamo di fronte
alla forma più esasperata del fenomeno descritto da Giandomenico Majone,
professore emerito di Scienze politiche all’Istituto Universitario Europeo, nel
suo libro Rethinking the union of Europe: il passaggio dalla cultura politica
dell’ottimismo totale, quella che ha portato a negare nei Trattati
l’eventualità di una crisi, al suo contrario, la cultura della politica del
catastrofismo totale, quella che, al verificarsi di una crisi, paralizza
l’azione dei governanti, scaricando i costi sui cittadini. Invertendone la
polarità (da positiva a negativa) la demagogia non cambia: la prima vittima
della Brexit è la credibilità delle autorità europee, così caricaturali nel
loro profetizzare sventure, che perfino Alesina e Giavazzi hanno sentito
l’esigenza di distanziarsi! Ma non finisce qui. Come saprete, l’Unione europea
si propone esplicitamente di costituire una unione monetaria fra tutti i paesi
membri (art.2, comma 4 del Trattato di Lisbona). Saprete anche che mentre il
Trattato di Maastricht non prevede l’eventualità di uscita dall’unione
monetaria, il Trattato di Lisbona prevede, all’art.50, il recesso di un paese
membro dell’Unione europea. Un aborto giuridico e politico, da cui è però
immune il Regno Unito, che non ha firmato il Trattato di Maastricht (lo
evidenzio per quelli che parlano di uscita dell’“Inghilterra” dall’euro). Il
punto è un altro: prendiamo per buona l’ipotesi che l’uscita di un paese
dall’Unione causi sconquassi epocali. Se così fosse, dovremmo concludere che il
Trattato di Lisbona, in quanto prevede un’eventualità tanto destabilizzante, è
il parto di una combriccola di incoscienti e andrebbe riscritto. Facciamo ora
l’ipotesi contraria, più ragionevole: quella che dopo la Brexit il sole
continuerebbe a sorgere, gli inglesi a comprare Bmw, e i vassalli della Merkel
a bere whisky (non sempre con moderazione, com’è noto). In questo caso staremmo
assistendo allo spettacolo incivile e inquietante di istituzioni che, chiamate
dal loro ruolo a garantire il rispetto dei Trattati, minacciano invece
ritorsioni verso un paese perché questo intende esercitare un diritto che i
Trattati sanciscono. Dalla Brexit Bruxelles esce comunque distrutta: o ha
scritto un Trattato inapplicabile (vedi alla voce “ottimismo totale”) o si
rifiuta di applicarlo (celando le sue smanie totalitarie dietro la cortina
fumogena del “catastrofismo totale”). Ripeto: o Bruxelles ha sbagliato
scrivendo male il Trattato, o sbaglia nell’ostacolarne l’applicazione. Tertium
non datur. La seconda vittima della Brexit è quindi la credibilità del progetto
cosidetto “europeo”. Quest’ultimo si qualifica una volta di più come
profondamente eversivo dell’ordine costituito, un insulto allo stato di diritto
e alle norme basilari dell’ordinamento internazionale, a partire dalla più
ovvia e universalmente nota: pacta sunt servanda.
martedì 13 giugno 2017
Sfogliature. 80 “Debiti&fiducia, mina vagante per nuove crisi”.
Nell’era del trumpismo imperante (fino
a quando?) un “allarme”, se così è lecito dire, si leva da quel mondo che è
stato incubatrice e culla di quella “crisi globale” che ancor oggi
attanaglia e svuota le nostre vite. Ed a quell’”allarme” donano forza i tanti proclami
e le tante intimidazioni rese al resto del genere umano da quell’uomo “ridicolo”
assiso alla suprema carica di quel paese. A lanciare quell’allarme è la breve
corrispondenza di Federico Rampini, corrispondenza pubblicata sul numero del
settimanale A&F del 22 di maggio, che ha per titolo “Usa, torna il debito: indice di fiducia, ma mina vagante per nuove
crisi”: Ha raggiunto un nuovo record
storico di 12.700 miliardi il debito delle famiglie americane. E con questo
siamo ritornati per la prima volta al di sopra dei livelli pre-crisi. Al primo
posto nell'alimentare questa escalation dei debiti individuali ci sono i mutui
casa che rappresentano il 71% del totale; sono seguiti dai prestiti bancari
agli studenti per pagarsi l'università (11% del totale), poi dalle
rateizzazioni auto (9%) e dagli scoperti sulle carte di credito (6%). È un
fenomeno che ha due facce, positiva e negativa: 1) Da un lato è considerato un
indicatore di ritrovata fiducia nell'economia e nella proprie prospettive di
reddito, quando i consumatori tornano a indebitarsi; a sua volta questo
"consumo finanziato coi debiti" è un motore di crescita; 2)
Storicamente però sappiamo come i periodi di boom nei debiti sono spesso stati
la premessa per dei crac finanziari, il caso più drammatico fu proprio il 2008
quando il crac sistemico fu preceduto da un'anomala crescita dei mutui subprime
con cui tante famiglie meno abbienti accedevano al sogno della casa ma senza
avere i mezzi per ripagare i debiti. Spendere e indebitarsi "like drunken
sailors", come marinai ubriachi, è una colorita espressione idiomatica in
uso qui negli Stati Uniti. Suona un po' offensiva, non so se contro i marinai o
contro le famiglie a basso reddito, però rende l'idea... Questi dati riportano
alla luce due temi, uno congiunturale e l'altro strutturale. Il primo è la
durata di questa crescita americana ormai giunta all'ottavo anno consecutivo. È
una delle riprese più lunghe della storia, anche se non è certo una delle più
vigorose (siamo sempre nella "stagnazione secolare" con tassi di
crescita che sono una frazione rispetto al trentennio dell'ultima età aurea del
capitalismo, dagli anni Cinquanta agli anni Settanta). Questo però significa
anche che aumentano le probabilità statistiche che ci stiamo avvicinando alla
prossima recessione. E un'idigestione di debiti, insieme con un rialzo dei
tassi della Fed, è uno scenario tipico da recessione. Il tema strutturale
riguarda il modello di sviluppo che domina in Occidente: troppe diseguaglianze,
e anche dove c'è crescita e "apparente piena occupazione" i redditi
ristagnano o diminuiscono. Il credito a gogò è lo strumento con cui questo tipo
di capitalismo maschera il problema.
sabato 10 giugno 2017
Paginatre. 89 “Elogio di Franti”.
Da “Elogio
di Franti” (1962) di Umberto Eco, in “Diario minimo” (alle pagg. 85-96) Mondadori Editore – prima edizione
“Oscar” dell’ottobre 1988 -:
(…).
“E ha daccanto una faccia tosta e trista,
uno che si chiama Franti, che fu già espulso da un'altra sezione." Così
alla pagina di martedì 25 ottobre Enrico introduce ai lettori il personaggio di
Franti. Di tutti gli altri è detto qualcosa di più, cosa facesse il padre, in
che eccellessero a scuola, come portassero la giacca o si levassero i peluzzi
dai panni: ma di Franti niente altro, egli non ha estrazione sociale,
caratteristiche fisionomiche o passioni palesi. Tosto e tristo, tale il suo
carattere, determinato al principio dell'azione, così che non si debba supporre
che gli eventi e le catastrofi lo mutino o lo pongano in relazione dialettica
con alcunché. Franti da Franti non esce; e Franti morirà: "ma Franti
dicono che non verrà più perché lo metteranno all'ergastolo", si scrive il
lunedì 6 marzo, e da quel punto, che è a metà del volume, non se ne farà più
motto. Chi sia codesto Enrico è sin troppo risaputo: di mediocre intelletto
(non si sa che voti prenda né se riesca promosso a fine anno), oppresso sin
dalla più tenera infanzia da un padre, da una madre e da una sorella che gli
scrivono nottetempo, come sicari dell'OAS, lettere pressoché minatorie sul suo
diario, egli vive continuamente immerso in umbratili complessi, un po' diviso
tra l'ammirazione prona per un Garrone che non perde occasione per far della
bassa retorica elettorale ("Son io!" e il maestro, babbeo: "Tu
sei un'anima nobile!"; e se qualcuno dà noia al supplente, subito Garrone
dalla parte del potente e dell'ordine: "guai a chi lo fa inquietare,
abusate perché è buono, il primo che gli fa ancora uno scherzo lo aspetto fuori
e gli rompo i denti!", così il supplente rientra e vede tutti zitti, lui,
Garrone, con gli occhi che mandavan fiamme "un leoncello furioso,
pareva" – e gli dice "come avrebbe detto a un fratello" ti
ringrazio Garrone, e via, Garrone è a posto per tutto l'anno, ditemi se non era
figlio di mignotta ) e d'altro lato una sorta di attrazione omosessuale per il
Derossi, che è "il più bello di tutti", scuote i capelli biondi,
prende il primo premio, si fa baciare dal giovane calabrese e sembra insomma
certi personaggi dei libri di Arbasino. Tra questi poli è l'Enrico: di
carattere impreciso, incostante nei suoi propositi etici, schiavo di ambigui
culti della personalità, non poteva essere gran che diverso col padre che si
ritrovava, torbido personaggio costui, incarnazione di quell'ambiguo socialismo
umanitario che precedette il fascismo, e in cui l'ideologia dolciastra stava
alla lotta di classe come il repubblicanesimo di Carducci alla rivoluzione
francese (odi alla regina Margherita, nonne e cipressi che a bolgheri alti e
stretti, ma repubblica, ciccia): questo padre che parla di rispetto per i
mestieri e le professioni, esalta la nobiltà degli umili, incita il figlio ad
amare i muratori, ma si demistifica in quella terribile pagina del 20 aprile (giovedì)
in cui esorta il figlio a gettare le braccia al collo a Garrone quando tra
quarant'anni lo ritroverà col viso nero nei panni di un macchinista, "ah
non m'occorre che tu lo giuri, Enrico, sono sicuro, fossi tu anche un senatore
del Regno" – e non lo sfiora neppure il sospetto di quel che potrebbe
(dovrebbe) accadere, che cioè Enrico possa ritrovarsi nei panni di un
macchinista ad incontrar l'amico Garrone senatore del Regno (conoscendo
Garrone, arrivato alla camera alta per via Acli, va bene, ma ciononostante è il
principio che conta, vero?) . Che poi chi sia questo padre, questo Alberto
Bottini dalla oscura professione (non la dice neppure quando va a visitare il
vecchio maestro a Condove), viene fuori abbastanza bene pagina per pagina, e si
esemplifica infine in quelle linee in cui questo squallido filisteo
protofascista esplode nell'elogio dell'esercito: "Tutti questi giovani
pieni di forza e di speranze possono da un giorno all'altro essere chiamati a
difendere il nostro Paese, e in poche ore essere sfracellati tutti dalle palle
e dalla mitraglia. Ogni volta che senti gridare in una festa: Viva l'Esercito,
viva l'Italia, raffigurati, di là dai reggimenti che passano, una campagna
coperta di cadaveri e allagata di sangue, e allora l'evviva dell'Esercito ti
escirà più profondo dal cuore, e l'immagine dell'Italia ti apparirà più severa
e più grande". È la domenica 11 ottobre, e il martedì 14 costui scriverà
ancora una lettera guerrafondaia al figlio, parlando di Roma meravigliosa e
eterna, di Patria sacra, di sangue da donare e ultimo bacio alla bandiera
benedetta; e sempre senza la minima chiarezza ideologica, sì che a distanza di
pochi giorni intesse con il medesimo tono l'elogio di Cavour e di Garibaldi,
dimostrando di non aver capito nulla delle forze profonde che divisero il
nostro Risorgimento.
venerdì 9 giugno 2017
Dell’essere. 13 “L’etica della verità e l'utilità della menzogna”.
Ha scritto Gustavo Zagreblesky in
“Contro l’etica della verità” –
Editori Laterza (2008), pagg. 172 € 15 -: (…). Il dubbio, (…), al contrario del
radicale scetticismo, presuppone l’afferrabilità delle cose umane, ma, insieme,
l’insicurezza di averle afferrate veramente, cioè la consapevolezza del
carattere necessariamente fallace o mai completamente perfetto della conoscenza
umana, cioè ancora la coscienza che la profondità delle cose, pur se sondabile,
è però inesauribile. Onde, di ogni nostra conoscenza, deve dirsi ch’essa è non
fallace o impossibile, ma sempre, necessariamente, superficiale. Il dubbio si
esprime così: - sarà davvero vero? –, e questo, in certo senso, è un duplice
omaggio alla verità, insieme al riconoscimento della nostra limitatezza nei
suoi confronti. Il dubbio contiene quindi un elogio della verità, ma di una
verità che ha sempre e di nuovo da essere esaminata e ri-scoperta. Così,
l’etica del dubbio non è contro la verità, ma contro la verità dogmatica, che è
quella che vuole fissare le cose una volta per tutte e impedire o squalificare
quella cruciale domanda: - sarà davvero vero? -. (…)“. Schierarsi contro
“l’etica
della verità” è da sempre una pre-condizione propria di chi aspiri a
fare della vita associata un momento d’inclusione e di crescita sia personale
che collettiva. Ci si ritrova invece, in questo primo ventennio del secolo
ventunesimo, come nei momenti più bui della storia umana. E come nei secoli
dell’oscurantismo più assoluto la mia “verità” non può in alcun modo coesistere
con la tua “verità”. Ne viene fuori la spietatezza dell’oggi che, sotto le
bandiere rosso-sangue delle “verità” contrapposte, genera distruzioni
e morte in nome di un “assolutismo” anacronistico e fallace. La “verità” è
stata da sempre quello “specchietto” entro il quale è andato specchiandosi l’arretratezza
culturale e l’intransigenza assolutistica che ha avuto eccellenti campioni in
tutte quelle religioni che diconsi “rivelate”. Una stortura gigantesca all’ombra
della quale le nequizie e le atrocità hanno trovato facile terreno di coltura
al pari della gramigna evangelica che il tutto ricopre e distrugge. Ha scritto Andrea
Muni sul settimanale “l’Espresso” del 7 di maggio 2017 – “La post-verità ci mette in gioco”:
lunedì 5 giugno 2017
Sfogliature. 79 “Il motel sull’orlo dell’abisso”.
La “sfogliatura” proposta è
del martedì 2 di agosto dell’anno 2011. Ritrovo in essa quel Goffredo Fofi che
in “La vocazione minoritaria” -
Laterza editore (2009), pagg. 165, € 12 –, ebbe a scrivere, sarcasticamente e
magistralmente, che “una delle astuzie della società attuale – almeno in Italia – è di aver
convinto i poveri ad amare i ricchi, a idolatrare la ricchezza e la volgarità.
In passato i poveri solitamente non amavano i ricchi: li si convinceva, anche
con la forza, a sopportare la loro condizione, si tollerava anche che
peccassero di invidia, al più li si spaventava con la prospettiva delle pene
dell’inferno. Negli anni Ottanta, negli anni di Craxi, è esplosa invece una
cosa del tutto nuova: la tendenza a negare le differenze tra i ricchi e i non
ricchi, a far sì che i non ricchi si pensino ricchi, che amino i ricchi come
maestri di vita, come modelli assoluti di cui seguire ogni esempio”. Si
legge in quella “sfogliatura” del 2 di agosto dell’anno 2011 che
“(…).
Il motel - o il circo - sull’orlo dell’abisso? Certamente il Paese non sembra
ancora rendersi conto dei tempi che corrono, e il lungo trentennio 1980-2010 ha provocato un
sonno/sogno collettivo che esclude nei più la capacità di rendersi conto e
soprattutto di reagire. Si uscì da un altro e più pesante fascismo, il
«ventennio» per definizione, grazie a una guerra mondiale e a due anni di
guerra civile. Da questi 30 anni senza tragedia si esce castrati nelle nostre
reazioni, e quand’anche qualcosa ce la faccia a muoversi, ecco che tutti i
partiti e le istituzioni concordemente fanno quadrato e condannano senza
discutere, sia che si tratti di un voto massiccio (il referendum, dei cui
sbalorditivi risultati i partiti si sono serviti solo per aggiustare i rapporti
tra loro: due cose in più a te e due in meno a me e sul fondo nulla che
cambia), di una chiara manifestazione di disobbedienza civile o di una
sassaiola – e in quest’ultimo caso il «sistema» si ricompatta con una rapidità
supersonica. Ma è ben poco quel che si muove, anche se destinato
ineluttabilmente a crescere, data la miseria della risposta istituzionale alla
crisi. È chiaro - vedi gli Usa - che i super-ricchi rifiutano di essere loro a
pagare per i guai che hanno combinato. È chiaro che coloro che sono preposti
alla soluzione della crisi sono gli stessi che l’hanno provocata, e che i mezzi
che usano sono gli stessi che hanno portato alla crisi. È chiaro che il loro
ricatto è la parabola di Menenio Agrippa. Siamo sulla stessa barca, dicono i
potenti, e invece no, siamo su due barche diverse, e loro faranno di tutto
perché ad affondare per prima sia la nostra. (…)”.
sabato 3 giugno 2017
Quodlibet. 1 “Dentro l’euro non c’è sinistra”.
Ciò che piace. Le “letture” che piacciono. Da “L’esempio greco: dentro l’euro non c’è
sinistra” di Alberto Bagnai, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 3 di giugno
dell’anno 2015: La crisi greca ha dato ai nostri politici progressisti tre importanti
lezioni, destinate a cadere nel vuoto pneumatico della loro ignavia. Peccato,
perché capirle sarebbe soprattutto loro interesse. La prima lezione è che
dentro l’euro non c’è spazio per la “sinistra”. Questo lo sapevano bene i
comunisti italiani degli anni 70. Marco Palombi ha riportato alla luce sul
Fatto Quotidiano del 19 maggio 2014 le parole con cui Barca (quello vero,
Luciano) scolpì nel 1978 l’alfa e l’omega del progetto di integrazione
monetaria europea: “Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una
politica di deflazione e di recessione anti operaia”. In cambi flessibili gli
squilibri fra paesi vengono sanati dalla rivalutazione del Paese forte, la cui
valuta si apprezza fisiologicamente perché molto domandata per motivi
commerciali e finanziari. Ma in cambi fissi questo meccanismo cade e gli
squilibri devono essere sanati dalla disoccupazione del paese debole.
L’austerità a questo serve: tagliando la spesa e alzando le tasse il governo
costringe le imprese a licenziare o fallire, nella ragionevole presunzione che
chi si ritrova disoccupato accetterà un nuovo lavoro a salari inferiori,
contribuendo a rendere il paese più competitivo. Chi vuole l’euro vuole
l’austerità, cioè la disoccupazione competitiva usata come leva per svalutare
il lavoro. Non pare una cosa molto “di sinistra”, vero? La crisi greca ha
definitivamente chiarito questo punto. Come ha detto Schäuble allo Zeit il 28
maggio scorso riferendosi a Tsipras, tenersi l’euro ma non le riforme “passt
nicht zusammen”. Traduco per i diversamente europei: “non sta insieme”, è
incoerente volere l’euro senza volere l’austerità. Schäuble non dice queste
parole perché la mamma non gli ha voluto bene da piccolo. Le dice per lo stesso
motivo per il quale le dicevano Barca nel 1978, o Bersani sul Sole 24 Ore del 9
agosto 2012 (“noi siamo quelli dell’euro, fedeli all’Europa del rigore”):
perché è così. La crisi greca pianta quindi l’ultimo chiodo sulla bara di quelli
che “un altro euro è possibile”. La seconda lezione è più radicale: dentro
l’euro non c’è spazio per la democrazia. L’euro incorpora il dogma
dell’indipendenza della Banca centrale. Il Trattato di Maastricht aggiunge ai
tre poteri consueti (legislativo, esecutivo, giudiziario) un quarto potere,
quello monetario, che, tenendo i cordoni della borsa ed essendo legibus
solutus, di fatto comanda. La Bce non manda lettere in giro per l’Europa,
facendo e disfacendo governi, perché è cattiva dentro, come ci raccontano gli
intellettuali “di sinistra”, asserragliati in una visione sentimentale e
favolistica della crisi per non confessare il proprio tradimento. La Bce può
mandare i suoi missi dominici perché glielo consente Maastricht, nel momento
stesso in cui le attribuisce un decisivo potere di ricatto sui governi,
proibendo a questi ultimi di servirsi della “loro” Banca centrale come
prestatore di ultima istanza. Chi tiene i cordoni della borsa comanda.
venerdì 2 giugno 2017
Scriptamanent. 100 “La Re(s)pubblica”.
E…100. 100 “riflessioni” in “scriptamanent” come una
narrazione dei giorni passati. Da “La
lezione del 2 giugno” di Michele Ainis, pubblicato sul quotidiano la
Repubblica del 2 di giugno dell’anno 2016: (…). …la Costituzione rappresenta la carta
d’identità di un popolo, ne riflette il vissuto, ne esprime i valori. Ma noi
italiani la conosciamo poco: non la studiamo a scuola, non la pratichiamo quasi
mai da adulti. Sarà per questo che siamo diventati incerti sulla nostra stessa
identità. Sarà per questo che ci specchiamo nella Costituzione come su un vetro
infranto, da cui rimbalza un caleidoscopio d’immagini parziali, segmentate. È
l’uso politico della Carta costituzionale, nel tempo in cui la politica
consiste in una lotta tra fazioni. Di conseguenza, alle nostre latitudini
ciascun tentativo di riforma aggiunge ulteriori divisioni, quando sulle regole
del gioco occorrerebbe viceversa il massimo di condivisione. Ecco perché cade a
proposito questo 70° compleanno della Repubblica italiana. Fu battezzata
anch’essa con un referendum, il 2 giugno 1946. Quel giorno ogni elettore
ricevette una scheda con due simboli: una corona per la monarchia; una testa di
donna con fronde di quercia per la repubblica. E il referendum spaccò il Paese
in due come una mela; perfino l’esito venne contestato, tanto che il dato ufficiale
si conobbe soltanto il 18 giugno, dopo i controlli della Cassazione. Tuttavia
dalla frattura è germinata l’unità. C’è forse qualcuno, settant’anni più tardi,
che non si riconosca nella Repubblica italiana? D’altronde lo stesso referendum
del 1946 svolse una funzione pacificatrice. Intanto, la soluzione referendaria
fu negoziata con la monarchia. In secondo luogo, essa evitò una conta
all’interno dell’area moderata, divisa a metà fra monarchici e repubblicani; e
infatti De Gasperi ne fu strenuo sostenitore. In terzo luogo, il referendum
permise di saldare due Italie e due generazioni, i vecchi e i giovani, gli
operai del nord e i contadini del sud, convocati per la prima volta dinanzi a
un’urna elettorale. E infine i vincitori seppero rispettare i vinti, senza
calpestarli sotto un tacco chiodato. Non a caso, i primi due presidenti della
nuova Repubblica furono entrambi uomini di simpatie monarchiche: Enrico De
Nicola e Luigi Einaudi. Che lezione si può trarre da quei remoti avvenimenti?
Una su tutte: la democrazia non deve aver paura dei conflitti, perché dai
conflitti nascono i diritti. Però nessuna democrazia può sopravvivere in un
conflitto permanente, che s’estende alle stesse norme costituzionali. Come
regolarmente ci succede in questo primo scorcio di millennio. Nel 2001 la
riforma del Titolo V fu approvata dal centro-sinistra con una maggioranza
risicata (4 voti alla Camera, 9 al Senato). Nel 2005 la devolution del centro-
destra passò con 8 voti di scarto.
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