"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 28 aprile 2013

Capitalismoedemocrazia. 35 Le moderne forme della schiavitù.



(…). Il sistema italiano ricorda sempre meno un`economia di mercato alimentata dai redditi commerciali e d`impresa, cioè aperta. Il corso della storia non prevede la retromarcia, ma credo vada presa sul serio la diagnosi proposta dall`economista Luigino Bruni (Le prime radici, Il Margine) quando adombra il pericolo di una sorta di nuovo feudalesimo di ritorno: "A distanza di qualche secolo stiamo tornando a una situazione molto, troppo simile a quella feudale, poiché il centro del sistema sta tornando a essere la rendita. E quando l`asse si sposta dal lavoro e dall`impresa alle rendite, l`arricchimento di alcuni non produce più vantaggi sociali per molti, perché sono molto ridotte, se non sono nulle, le ricadute di quella `ricchezza` nei territori e nell`economia circostanti". Così ha scritto Gad Lerner il 4 di aprile – sul quotidiano la Repubblica col titolo “Il revival feudale della democrazia” -. Sembrava, a prima vista, che la Sua fosse una “boutade” o, se non proprio, un’esagerazione, una forzatura del pensiero minimamente intelligente. Un ritorno al feudalesimo? Ma via! Orbene, vi invito ad osservare con attenzione il grafico posto a lato. È la rappresentazione molto schematizzata dell’antica piramide della vita feudale. Un monarca, più o meno illuminato; una sotto-corte di famigli e cortigiani, d’intrallazzatori e saltimbanchi che all’ombra di quel monarca vivono, ed una moltitudine di disperati che sopravvivono, legati permanentemente alla “zolla”“gleba” nell’antica lingua di Roma -, per la qualcosa gli storici li han denominati “servi della gleba”. Mancano, nella schematica rappresentazione, i chierici, stanziali a corte, sempre dalla parte del potere, i cavalieri e tutto quel mondo che viveva parassitariamente sulla fatica di quei servi. Accadeva poi che quei servi si potessero sottrarre ai loro doveri di eterni, indefessi sfruttati abbandonando i luoghi di nascita per trasferirsi nell’inferno, per loro, delle città di quel tempo. In verità quella opportunità era concessa ai “servi della gleba” nella Germania di quel tenebroso tempo, tanto che si era diffuso il detto "stadtluft macht frei", ovvero "l'aria della città rende liberi". Cose da brividi, solo a pensare che qualche secolo dopo in quei luoghi vigeva il detto “arbeit macht frei”, ovvero il “lavoro rende liberi” nei campi della morte nazisti. Il cinismo della Storia! Ecco perché si è detto che la storia non fa che ripetersi. Riporta una citazione il professor Umberto Galimberti in un Suo scritto – pubblicato sull’ultimo numero del settimanale “D” del quotidiano la Repubblica col titolo “Siamo ancora schiavi?” -: Scrive l'antropologo Claude Meillassoux: "La schiavitù non è finita. Essa perdura nelle società che si definiscono umanistiche, anche se edificate sulla spoliazione dell'uomo". Nell'Introduzione al libro dell'antropologo Claude Meillassoux, Antropologia della schiavitù (Mursia), Alessandro Triulzi individua l'essenza della schiavitù nel fatto che gli schiavi sono "socialmente sterili", nascono e si riproducono biologicamente, ma non nascono nella società, dove non hanno rilevanza. Hanno lo statuto della merce e al pari della merce rispondono ai criteri del valore d'uso e del valore di scambio. L’analisi è penetrante ma al contempo capace di rischiarare l’orizzonte cupo del tempo che ci è toccato di vivere, tempo in cui il paventato da Lerner ritorno ad un “feudalesimo” da terzo millennio sembra realizzarsi nella confusione e nella sprovvedutezza dei più. Continua così la riflessione del professor Galimberti: …la nostra Costituzione si definisce "fondata sul lavoro", perché il lavoro è la porta d'ingresso nella società, ma se il lavoro non c'è perché il mercato non lo richiede, i nostri giovani rientrano nella categoria dei "socialmente sterili", proprio come gli schiavi. Talvolta vengono impiegati per un certo periodo di tempo, rispondendo al pari delle merci al valore d'uso, e poi, quando il contratto a tempo scade, si offrono al valore di scambio diventando "flessibili". L'unica differenza rispetto alla schiavitù classica è che gli schiavi dell'epoca coloniale avevano un padrone (come peraltro ancora oggi gli immigrati che, in condizioni disumane, raccolgono nel meridione pomodori o arance), mentre gli "schiavi" odierni e i loro "padroni" sono dalla stessa parte e hanno come controparte il mercato. E come fai a prendertela col mercato o a ribellarti al mercato, anche quando esso confligge col mondo della vita, al punto da creare masse sempre più ingenti sotto la soglia della povertà? Mancano gli strumenti, non si intravvedono strategie, al massimo si sfoga la propria indignazione in manifestazioni che non modificano alcunché. Sta tutta qui la “cecità” storica di questo tempo. Aver fatto ritrovare, a differenza di quel composito quadro che è stato il feudalesimo, gli sfruttati dalla stessa parte degli sfruttatori, anzi i primi ad avere, erroneamente, gli stessi obiettivi, rincorrere gli stessi stili di vita dei secondi. Ma quando il meccanismo si è inceppato – produzione/consumismo/alterazione dell’ambiente/depauperazione delle risorse naturali – quella contrapposizione sfruttati/sfruttatori, sempre vigente seppur minimizzata, si è materializzata a pieno con un crescente impoverimento delle masse, con una crescente negazione dei diritti. Conclude il professor Galimberti: Con riferimento alle forme di schiavitù mascherata, mai chiamate col loro nome, (…), possiamo dire che quando parliamo di "precariato" diciamo subordinazione della vita umana alle esigenze di mercato. Quando diciamo "delocalizzazione" dovremmo dire sfruttamento di mano d'opera nei paesi meno sviluppati. Quando parliamo di immigrati dobbiamo pensare all'abbattimento dei costi del lavoro, quando non al lavoro nero. La vita dura in media 70 o 80 anni, ma chi perde il lavoro a 50 è troppo vecchio per trovarne un altro, e perciò, al pari degli schiavi, rientra nella categoria dei "socialmente sterili" per la sua irrilevanza sociale, allo stesso modo dei "troppo bravi", costretti a emigrare da un paese che ancora fatica a riconoscere la meritocrazia. E poi c'è la schiavitù sommersa delle donne, divise tra lavoro e famiglia, senza adeguate strutture di supporto per la cura dei figli e un margine di tempo per pensare a se stesse e alla realizzazione dei propri sogni. Se l'antica schiavitù massacrava i corpi con pesanti turni di lavoro ed esemplari punizioni, la moderna schiavitù massacra l'anima, rendendola esangue nell'implosione di ogni progetto e nel brusco risveglio da ogni sogno anche solo accennato. Sono le nuove forme di schiavitù, proprio da “servi della gleba”, che la ridistribuzione tra le “classi” sociali della ricchezza e la sua nuova destinazione, dal mondo della produzione e del lavoro al mondo della finanza e della speculazione, in una lotta di classe che, vado ripetendo da qualche tempo, si è realizzata all’incontrario, rendono sempre più attuali. E Gad Lerner rinforza i toni del Suo scritto: “I nuovi ricchi non hanno più bisogno dei `poveri` delle loro città, perché vivono in sub-città segregate, acquistano i beni in tutto il mondo, e pagano le tasse se e dove vogliono". Le conseguenze sociali di questa prevalenza della rendita in un`economia di mercato soffocata sono già drammaticamente evidenti nella vita quotidiana dei molti che ne sono tagliati fuori. Meno chiare sono le ripercussioni sulla nostra democrazia di questo revival feudale. (…). Nel feudalesimo di ritorno è naturale che politica ed economia tornino spesso a sovrapporsi, in deroga alle più elementari regole democratiche, fino a coincidere. Basti pensare ai potentati venutisi a determinare nei settori convenzionati: dalle infrastrutture ai trasporti alla sanità, fino al caso clamoroso delle frequenze televisive. Rendite di posizione che hanno da tempo snaturato il mercato e che occupano più o meno vaste porzioni di territorio, a beneficio di veri e propri potentati. (…). Così la politica s`è fatta sempre più rancorosa non perché guidata da un eccesso di convinzioni morali, ma esattamente per il contrario: perché svuotata di contenuto morale e spirituale. Infeudata.  Ed allora lo scandalo morale ed etico dell’”antipolitica” che è al governo del bel paese trova in quest’ultimo passaggio dello scritto come un disvelamento, se ce ne fosse stato bisogno, e quella piena visibilità che ben difficilmente si riesce a ritrovare nelle analisi interessate o nella pubblicistica prezzolata corrente. L’”antipolitica” al potere, intesa nella “casta” che ha impresso il suo enorme deficit di moralità e di eticità alla sua azione nella conduzione della cosa pubblica, ha impregnato tutti i gangli vitali del bel paese, rendendo subalterna la democrazia alla finanziarizzazione della ricchezza collettiva. Scrive a conclusione Gad Lerner: È un docente di Harvard, il filosofo Michael J. Sandel, di cui Feltrinelli ha appena tradotto il saggio ‘Quello che i soldi non possono comprare’, a segnalarci come la logica di mercato nuoccia al nostro dibattito pubblico. Che il massimo della libertà sia stato fatto coincidere con la libertà di comprare tutto o quasi tutto, mercificando gran parte delle nostre relazioni, ha svuotato di argomentazione morale la vita pubblica. Il mercato si compiace di non giudicare i valori che non siano di natura materiale e chiede alla politica di fare altrettanto, fino a bandire l`idea di vita buona dal dibattito pubblico. Così, se una politica sempre più rancorosa rinuncia alla passione morale espressa nei valori e nella spiritualità, perché dovremmo scandalizzarci di fronte al cittadino indebitato che torna servo della gleba?

giovedì 25 aprile 2013

Eventi. 6 “Ora e sempre Resistenza”.



La Memoria*. “Ora e sempre Resistenza”, “ode” di Giovanni Torres La Torre, pittore, scrittore e poeta, scritta in memoria di Irma Bandiera nata a Bologna l’8 di aprile dell’anno 1915 ed assassinata a Bologna il 14 di agosto dell’anno 1944, partigiana e Medaglia d'oro – alla memoria - al valor militare. Di famiglia borghese e benestante, sentì fortissimo il richiamo della Libertà divenendo staffetta partigiana nella VII brigata GAP di Bologna col nome di battaglia di “Mimma”. Catturata dai fascisti dopo un trasporto di armi alla base di Castelmaggiore, venne torturata e fucilata al Meloncello di Bologna. Il suo corpo fu esposto sulla strada adiacente alla sua casa per un intero giorno. In suo ricordo una formazione di partigiani operanti a Bologna prese il nome di “Prima Brigata Garibaldi Irma Bandiera". Affermò Piero Calamandrei a Milano il 26 di gennaio dell’anno 1955, in un Suo discorso indirizzato ai giovani sulla Costituzione nata col sacrificio, anche della propria vita, nella Resistenza: “Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità della nazione, andate là, o giovani, col pensiero, perché là è nata la nostra Costituzione”. Il “dovere costituzionale” della Memoria.

Sul nome della tua pietra
tornano palpiti di canti
bella fanfara
di quando da valle a valle
scendeva allegrando l’alba
nella festa che si annunciava.
Nel ricordo, così, l’anima si consola
di luce che riconforta
per quella canzonetta novella.
Non c’è scampo, però, al disincanto degli anni
le speranze da te amate
non hanno assunto il comando
e la vita non è quella che volevi
pace libertà lavoro
fontana piena che d’allegria spande
ma gioco di coltelli
orizzonti di cimiteri,
stupri di pace e di guerra
vetro nel seno e boschi riarsi
serpe nel cervello e sorgenti avvelenate.

Chi tornerà a salutarti
per amore che ancora stringe
e i figli dei nostri figli
smarriti nel mondo per un pezzo di pane
per farti coraggio diranno che
verrà un giorno la volta buona
ma noi non potremo vederla.

Un morso lacera ancora il tuo scialle
Piegato nel riposo più eterno e fondo
mentre nelle lontananze
geme un silenzio che si rintana.

Inquieta, a piedi nudi
si avventura una luna di cera
e nelle ombre delle porte
bussa cercando riparo.

Sul petto dell’amoroso nome fioriscono le belle parole
“ora e sempre Resistenza”.
*Per cortese, amichevole concessione dell’Autore.

Per una Memoria condivisa. Da “Il senso di Arturo per la Liberazione”, del poeta, scrittore e musicista Andrea Satta, sul quotidiano l’Unità del 24 di aprile dell’anno 2011, poiché la Liberazione è stata fatta per tutti e la Costituzione che ne è derivata non è stata scritta dai “bolscevici”.

Arturo portava “er tranve” a Roma. «…so’ der ’36 e so’ entrato all’Atac nel ’63 ». (…). «…ho portato er 5 che annava alla Garbatella, er 10 su pe’ er Policlinico, er 7, er 13, er 15 che me ricordo partiva da Piazza Lodi». (…). Da qui, (…), cominciava la campagna. (…). «Dopo la mietitura s’annava a fa la spiga, a quii tempi se magnevamo pure le radici …». Arturo era ancora piccolo, alla fine della guerra, ma la storia se la ricorda bene. Si narra di uno zio fascista, che però pare fosse umano, di un certo Bragoni, altro fascistone del quartiere (uno smargiasso che abusava del suo potere) e del Guercio che invece era tanto comunista. Il Bragoni, proprio il Guercio continuamente provocava e minacciava. Per umiliarlo di più, ogni tanto, a capriccio, lo offendeva andando a prendere uno dei due nanetti che abitavano a via Giovanni Brancaleone, due fratelli piccoli piccoli, che quella banda di balordi si trascinava dietro. «Uno, me ricordo ancora, che se chiamava Arturo, proprio come me. In quattro teneveno fermo Er Guercio, spalle ar tavolo. E giù schiaffoni dal nanetto, issato in piedi sulla sedia». Alla fine, esasperato, il Guercio arrivò fino alla sezione del Fascio a raccontare tutto e lì, incontrò lo Zio Michele, che lo comprese, intervenne, lo difese e la storia finì. Nacque una inconfessabile stima fra il Guercio e lo Zio. Dopo la liberazione, le carte si rovesciarono. Un pomeriggio, certi tipi armati, vennero a cercare Zio Michele: era la resa dei conti. Partigiani? No, forse solo gente che si faceva largo per aver ragione con mezzi spicci… Proprio davanti alla trattoria del Guercio c’era un gran numero di persone, tutte prese dall’odio e armate di fucile: «Al fascista! Al fascista! - si urlava - Questo lo fuciliamo!», gridò altissimo uno indicando lo Zio Michele. Il Guercio uscì dalla trattoria, richiamato dal fracasso e ottenuto il silenzio, fiero, disse: «Non v’azzardate a toccare quest’uomo, non sapete neanche che cosa ha fatto per me!». Così, Zio Michele, un fascista, salvò la pelle grazie al Guercio, un comunista. Grazie Arturo per la storia e per il vino. Buona Festa della Liberazione!

mercoledì 24 aprile 2013

Eventi. 5 “I bambini che videro la morte”.



Onore e merito alla RAI ed al suo servizio reso finalmente “pubblico”. Ieri, sul canale RAI 5, è passato il film “L’uomo che verrà” del regista Giorgio Diritti. È un film che l’industria cinematografica, assassina e non più culturale, ha lasciato nell’ombra, anzi nella oscurità più assoluta. Non penso sia passato per le sale del bel paese. Io l’ho conosciuto a seguito della scoperta di un altro gioiello di Giorgio Diritti che è il film “Il vento fa il suo giro”. Un film bucolico quest’ultimo, una bella e tragica storia ecologica vissuta in un inesplorato mondo delle Alpi occitane. Il film passato ieri su RAI 5 è tutt’altra cosa. È la storia di un inverno tra i più terribili, il 1943. È la storia della piccola Martina, 8 anni, che vive in una povera famiglia di contadini alle pendici di Monte Sole. La morte di un fratellino, a pochi giorni dalla nascita, l’ha rinchiusa in un suo mondo fatto di silenzio assoluto. Martina non parla. Quando la mamma rimane incinta Martina vive nell'attesa del fratellino che verrà. La guerra infuria non risparmiando nulla, uomini e cose e rendendo la vita sempre più difficile alle famiglie di quell’angolo martoriato del bel paese, strette fra le brigate partigiane ed i ferocissimi nazi-fascisti. Nella notte tra il 28 e il 29 di settembre 1944 nasce il bambino tanto atteso, in uno scenario terrificante di distruzione e dolore. Infatti, proprio in quei giorni, le colonne delle SS scatenano nella zona un rastrellamento senza precedenti. Il 29 di settembre dell’anno 1944 le SS trucidarono 770 persone tra bambini, donne e anziani in quella che la dolorosa Storia di quegli anni ricorda come ‘la strage di Marzabotto’. Il massacro toccò anche l’area di Monte Sole. Il film si chiude con una scena struggente, indimenticabile: rimasta sola a seguito del massacro della intera sua famiglia, Martina riesce a salvare il piccolo fratellino per il quale intona una ninna-nanna riprendendo così a parlare dopo il traumatico, lunghissimo silenzio. Un film straordinario che ha come protagoniste Maya Sansa – la madre -, Alba Rohrwacher - la zia - e Claudio Casadio il papà di Martina. Perché vi ho parlato di questo straordinario film? Poiché è inimmaginabile quante altre “Martina” siano vissute negli atroci anni della guerra di Liberazione. Non se ne ha memoria. Liliana, Ida, Gino, Fernando, Tosca, Savina, Virginia, Cesira, Lauretta sono stati bambini, preadolescenti ed adolescenti che in quel tragicissimo inverno sono realmente vissuti in quei luoghi di morte e dolore. Sono Gli ex bambini salvati per caso” dei quali Simonetta Fiori – su la Repubblica del 21 di aprile – ci ha parlato in occasione della pubblicazione del volume “Io ho visto” di Pier Vittorio Buffa – Nutrimenti editore, pagg. 365, € 19.50 -, ed in occasione dell’attivazione del sito www.iohovisto.it  Dovere della Memoria. Scrive Simonetta Fiori: Alessandro è uno dei ragazzini sopravvissuti a una guerra dimenticata, la “terza guerra” dei nazifascisti contro i civili italiani tra il ’43 e il ’45. Quindicimila vittime. Dopo un lunghissimo silenzio i loro famigliari hanno deciso di raccontare. Trame che hanno il passo dell’epica, da leggersi con la cautela dovuta quando si attraversano intimità sconvolgenti. Racconti preziosi per restituire un capitolo di storia altrimenti minacciato dall’amnesia collettiva. (…). Ogni testimonianza è infelice a modo suo, ma quasi sempre c’è un motivo che ricorre. La scarica della mitragliatrice e l’eco tagliente delle gutturali. L’odore amaro della polvere da sparo e quello dolciastro del sangue. L’istinto insopprimibile di fuga, raggelato dalla vista del fuggiasco tramortito dalle pallottole. Il corpo materno che fa da scudo, e cadendo sul figlio ne garantisce la salvezza sotto il mucchio dei cadaveri. E quei “racconti preziosi”, brevi, brevissimi, quasi un lampo, sono proposti di seguito come “dovere” insopprimibile della Memoria.
Liliana Del Monte, undici anni il 24 di giugno 1944. “Abbasso le coperte. Ci sono le fiamme. Ma verso la finestra no, dal letto alla finestra c’è come un corridoio senza fuoco. D’istinto, perché non penso di aver riflettuto prima di muovermi, scendo dal letto e raggiungo la finestra… la mamma e i nonni sono morti. Ho visto i loro corpi. Sulle lenzuola c’era solo sangue e i nonni non si muovevano più. La mamma era per terra, contro il muro, insanguinata, immobile”. Bettola, Reggio Emilia, 24 giugno 1944. 32 morti. Tra questi la mamma, il nonno, la nonna.
Ida Balò, quattordici anni il 29 di giugno 1944. “Don Alcide fa un’omelia breve… ‘Oggi è la festa dei santi martiri Pietro e Paolo, non sappiamo cosa il Signore vuole da noi, quello che vi raccomando è di non impaurirvi. Se i tedeschi dovessero entrare qui non fate nessun gesto di resistenza…’. Una donna entra urlando: ‘Stanno ammazzando tutti, bruciano le case, bruciano tutto’.” Civitella in Val di Chiana, Arezzo, 29giugno1944. 115morti. Tra questi il padre.
Gino Ventura, vent’anni il 7 di giugno 1944. “Sono le otto e mezza di una bella serata di giugno, è quasi buio. La fiammata è violenta e breve. C’è solo lei a dirmi che il colpo di grazia è partito verso la mia testa. Non ricordo nessun rumore di grilletto e otturatore, nessuna esplosione. Solo la fiammata”. Pratarelle, Vicovaro, Roma, 7 giugno 1944. 25 morti. Tra questi due bambini di 3 anni e uno di 4.
Fernando Piretti, nove anni il 29 di settembre 1944. “Le raffiche di mitragliatrice arrivano dalla porta, da dove siamo passati pochi istanti prima. Ecco, ci stanno uccidendo… Quando il mio ricordo torna a essere chiaro e preciso sono per terra, la mamma è sopra di me, immobile, fredda, capisco subito che non c’è più, c’è il suo sangue dappertutto, una pozzanghera nella quale sono sdraiato”. Marzabotto, Bologna, 29 settembre 1944. 800 morti circa. Tra questi la mamma e la sorella di 13 anni.
Tosca Lepori, cinque anni il 23 di agosto 1944. “I nonni, mentre bruciavano, si muovevano. Con i mitra li avevano solo feriti, per farli cadere. Poi avevano buttato delle canne sui loro corpi e le avevano accese. Hanno continuato a muoversi per tanto tempo, i nonni, prima di fermarsi. Alla mia mamma usciva il sangue dalla tempia…”. Padule di Fucecchio, Pistoia, 23 agosto 1944. 177 morti. Tra questi la mamma, i nonni, una zia. 
Savina Reverberi, dodici anni il 17 di dicembre 1944. “Poi le pareti, bianche, con delle macchie. Mi avvicino, guardo le macchie scure, grandi e piccole, alcune sembrano degli schizzi, capisco. È sangue, il sangue della mia mamma. Con le palme aperte mi appoggio al muro e piango. Cerco le macchie, le carezzo, bacio la più grande, poi un’altra e un’altra ancora…”. San Cesario sul Panaro, Modena, 17 dicembre 1944.10 morti. Sua mamma Gabriella Degli Esposti, incinta al settimo mese, dopo le torture, è stata fucilata insieme ad altri nove. È medaglia d’oro al valor militare alla memoria.
Virginia Macerelli, sette anni il 15 di novembre 1944. “Ho visto mio fratello Arnaldino accanto a me, ancora vivo dopo tutti quei proiettili. Mi ha sfiorato il braccio e con la voce bassa mi ha chiesto: ‘Virginia, mamma è morta?’. Aveva un occhio di fuori, mio fratello, e ho appena fatto in tempo a dirgli:‘Sì, è morta’, che è morto anche lui”. Pietransieri, L’Aquila, 15 novembre 1943. 128 morti. Tra questi la mamma, quattro fratelli e una sorella
Cesira Pardini, diciotto anni il 12 di agosto 1944. “Apro la porta e qui, proprio qui, per terra, c’è la mia mamma con la sorellina appena nata, ha venti giorni l’Annina. Solo in quel momento, quando abbasso lo sguardo verso di lei, mi accorgo di cosa ho sul petto. Ho il sangue della mia mamma”. Sant’Anna di Stazzema, Lucca, 12 agosto 1944. 560 morti. Tra questi la mamma, due sorelle (una di 20 giorni), una nonna, quattro zie, cinque cugini.
Lauretta Federici, sette anni il 4 di agosto 1944. “Il soldato con la bimba si allontana dalla donna, lei si butta per terra, strilla, congiunge le mani. Lui ride, guarda il compagno e ride. Poi il lancio, come se la bimba fosse una palla, in alto, ma proprio in alto. L’altro soldato si era preparato. Alza il fucile veloce, segue il volo, spara. Nessuno corre a prendere in braccio la bimba, la lasciano cadere tra le pietre”. (Lauretta)Vinca, Massa, 24 agosto 1944. 174 morti. Tra questi uno zio e un cugino di Lauretta.

venerdì 19 aprile 2013

Cronachebarbare. 10 Il “perché”.



Perché, come ha scritto Marco Travaglio – in “Amedeo Nazzari è morto”, su “il Fatto Quotidiano” del 18 di aprile – “a un uomo libero come Rodotà non basta neppure aver fatto quattro volte il deputato nella sinistra e il presidente Pds per piacere al Pd”.? Ed argutamente specifica: “O meglio, alle care salme che ne sequestrano i vertici, senz’alcun rapporto con gli elettori (che invece Rodotà lo voterebbero al volo, e cantando per la gioia). Tanto che, insinua: “Basti pensare che non vogliono neppure Prodi, che ha il grave torto di aver battuto due volte B., mentre gli altri hanno perso tutte le elezioni, infatti sono ancora lì”. A questo stato comatoso è ridotta la cosiddetta “sinistra” del bel paese. È che i capi di quella “sinistra” che hanno impersonato magnificamente e maldestramente l’”antipolitica” che è al potere non solo non riconoscono più il proprio “popolo”, attraverso il quale ricevono il consenso, ma non conoscono neppure i rappresentanti eletti che siedono loro accanto all’interno del Palazzo. La cecità è totale. In verità era nel novero delle cose. La “casta” al potere non ha più sintonia alcuna con la gente e, per dirla con il filosofo Michele Ciliberto (nel post “Del dispotismo democratico” del 17 di aprile su questo blog), essa si è assuefatta al potere a tal punto che come in  “ogni forma di dispotismo il controllo pubblico (le) è  strutturalmente estraneo; anzi, (le) è antitetico. Solo una presunta superiorità del proprio ruolo d’interpreti della realtà, una vacua supponenza, un’immarcescibile – anche nelle condizioni più avverse - opinione di sé stessi, una cieca, sfrontata albagia, hanno potuto portare allo sfascio un partito, un gruppo dirigente ed una malaccorta strategia. Viene da pensare che la strategia perseguita fosse proprio quella delle “larghe intese”, andando al braccio di quel leader che solamente i mercati sono riusciti a mandare a casa. Era stata chiarissima Barbara Spinelli nel Suo editoriale dell’altro giorno, “Il coraggio della solitudine” sul quotidiano la Repubblica, laddove scriveva che la cosiddetta “sinistra” del bel paese “non può che scegliere un Presidente che nell'ultimo ventennio abbia avversato l'anomalia berlusconiana, e pensato più di altri l'intreccio fra crisi economica, crisi della democrazia, crisi della legalità, crisi dell'informazione, crisi dell'Europa. (…). Non può che votare uno dei tre nomi politicamente forti emersi dal dibattito nel Movimento 5 Stelle: Stefano Rodotà, o Romano Prodi, o Gustavo Zagrebelsky”. È che Barbara Spinelli si è dimostrata più in sintonia con il popolo della “sinistra” di tutti quei soloni che occupano i posti di comando sulla tolda della nave e che, come un qualsivoglia capitano “Schettino”, manderanno il paese alla rovina. Ciechi e sordi anche quando, molto disinteressatamente, l’opinionista Alexander Stille consigliava di procedere facendo - “Quattro consigli al leader democratico”, sul quotidiano la Repubblica del 17 di aprile - “il contrario di quello che vuole Berlusconi. (…). Vent’anni di esperienza hanno dimostrato molto chiaramente che un governo con Berlusconi, per definizione, non andrà da nessuna parte. Un governo di larghe intese non è un governo tra destra e sinistra, ma un governo con Berlusconi. Il centro-destra non esiste: esiste solo il suo padrone. Un governo con Berlusconi è per forza di cose un governo di non-cambiamento e di non-riforme, perché un monopolista che ha paura di finire in prigione non può e non vuole un paese dove la classe politica ceda il potere ai cittadini, un paese più competitivo dove oligarchie e clientele vengano sostituite con opportunità per gruppi nuovi”. Queste ore consegnano al popolo della “sinistra” quelle amare risposte che ingenuamente si sperava di non ricevere, anche perché, in fondo, quel popolo si è mostrato tentennante, colpevolmente riluttante, a formulare le domande giuste a quegli sprovveduti strateghi. Tenta di delineare una risposta a quell’iniziale “perché” Marco Travaglio nel Suo editoriale di oggi - “Perché”, su “il Fatto Quotidiano”: Se la memoria degl’italiani non fosse quella dei pesci rossi, che dura al massimo tre mesi, i contestatori in piazza o nel web contro Marini e chi l’ha scelto ricorderebbero che sono vent’anni che manifestiamo per la stessa cosa. Dal popolo dei fax ai girotondi, dal Palavobis al popolo viola, da 5Stelle alle altre emersioni del fenomeno carsico che Ginsborg chiama “ceto medio riflessivo”, l’obiettivo è sempre il compromesso al ribasso destra-sinistra contro la Costituzione, la legalità, la magistratura indipendente e la libera informazione. È ora di cambiare slogan e prendere atto della realtà: urlare “Perché lo fate?” o “Non fatelo!” è troppo ingenuo per bastare. Perché l’hanno sempre fatto e sempre lo faranno. E non perché si sbaglino ogni volta. Non si può sbagliare sempre, ininterrottamente, per vent’anni. È paurosa la sensazione di disorientamento di queste ore. Si scopre però una certezza: il popolo della “sinistra” è guidato da strateghi resi ciechi dalla supponenza del potere, dall’alterigia propria di creature inadeguate a condurre oltre il guado un paese in affanno ed immiserito.

mercoledì 17 aprile 2013

Lamemoriadeigiornipassati. 5 “Del dispotismo democratico”.



Quirinale e governo del paese: i temi del giorno. Il bel paese ad una svolta? Lo si è detto anche in altre occasioni. Ma ricorrente ed invincibile è da sempre il trionfo del cosiddetto “status quo”, il cambiamento purché tutto rimanga come prima. Ed invece le necessità incombono. E la necessità prima è rappresentata da una “rottura” non più procrastinabile rispetto a pratiche che hanno come disossato il bel paese, ne hanno “scarnificato” il pensiero. Con tutto ciò che tali pratiche hanno comportato per la tenuta delle istituzioni, per l’etica ed il costume sociale e per la stessa pacifica convivenza dei cittadini. Scriveva il 17 di aprile dell’anno 2011 il filosofo Michele Ciliberto sul quotidiano l’Unità – “Dispotismo democratico” – usando quell’ossimoro: (…) …il potere, specie quello di tipo dispotico, non ha mai tollerato la dimensione ‘pubblica’, come spiegò a suo tempo Girolamo Savonarola nel suo Trattato sul governo di Firenze: “...el tiranno è pessimo quanto al governo, circa al quale principalmente attende a tre cose. Prima, che li sudditi non intendano cosa alcuna del governo, o pochissime e di poca importanza, perché non si cognoschino le sue malizie...”. Ecco: a questa denuncia del grande ferrarese occorre più che mai che oggi si diano risposte vere, senza sotterfugi. Ecco perché non hanno senso “larghe intese” o quant’altro possa afferire a quel “dispotismo democratico” del Ciliberto che sotto traccia ha segnato la vita politica e sociale del bel paese da un ventennio e passa. Oggigiorno abbisogna un cambiamento, reale, nella prassi e nella sostanza. E tutto ciò che andasse contro questa esigenza, espressa anche dalle urne delle politiche di febbraio, andrebbe pericolosamente a rafforzare quel “dispotismo democratico” che affossa presente e futuro del bel paese. Continua Michele Ciliberto: Ad ogni forma di dispotismo il controllo pubblico è strutturalmente estraneo; anzi, gli è antitetico. Il dispotismo può essere combattuto, e anche sconfitto; ma non addomesticato. Specificando i tratti propri del tiranno, Savonarola ne individuava anche un altro, che può essere utile citare, per comprendere qualche tratto del governo dispotico attualmente al potere in Italia: “si trova rare volte, o non forse mai, tiranno che non sia lussurioso e dedito alla delettazione della carne”. Come si vede, alcuni comportamenti (…) erano stati già illustrati alcuni secoli fa, come pure era stato messo a fuoco, sempre da Savonarola nel Trattato, il rapporto del tiranno con la legge. Come diviene possibile stringere accordi con un “dispotismo” che ha lasciato un segno profondo nel corpo vivo del paese, minandone le istituzioni, corrompendone lo spirito sino alle più sottili delle sue fibrille? Oggi si gareggia per l’alto Colle ma lo sguardo è puntato oltre, altrove, per quello che dovrà essere il governo del bel paese. Non esistono scambi che possano giustificare pratiche oramai invise alla maggioranza dei cittadini. A quella data – 17 di aprile dell’anno 2011 - Michele Ciliberto aggiungeva nella Sua riflessione: Dal punto di vista del potere dispotico, la lotta con il potere giudiziario è una questione di vita o di morte; né può essere conclusa da qualche forma di tregua o di compromesso. Stupisce leggere ogni tanto commenti politici nei quali si depreca questa situazione, auspicando una sorta di tregua, se non di pacificazione. È un auspicio giusto e comprensibile. Chi non vorrebbe che si uscisse da questa guerra quotidiana tra potere esecutivo e magistratura? Ma illudersi su questo significa non aver compreso la situazione attuale dell’Italia, la conformazione dispotica che ha assunto il nostro tempo storico. Il ‘dispotismo democratico’ è fondato sul rifiuto della moderna distinzione dei poteri. Quello che distingue il moderno ‘dispotismo democratico’ dalle forme tradizionali di dispotismo è la diffusione a livello di ‘senso comune’, quotidiana e ordinaria di questo modo di pensare. Il capo del moderno ‘dispotismo democratico’ usa la legge in chiave privatistica, capovolgendo, in altre parole, il significato stesso della legge e sostituendo ad essa il proprio arbitrio; ma ha avuto, e continua in parte ad avere, il consenso di una larga parte del paese. Da qui la sua novità. A ben due anni da quello scritto le vicende politiche inducono ad una assunzione di responsabilità che, se tradita o disattesa, potrebbe condurre il bel paese verso scenari ancora più difficili se non tragici. Aggiunge quasi in chiusura Michele Ciliberto: Non è necessario citare Kelsen o Bobbio (…); è sufficiente pensare alla storia del ‘900 e alle forme dispotiche – anche di tipo democratico – che lo hanno connotato: per quanto diverse esse fossero, sono state tutte costruite sul primato del ‘popolo’ – cioè della sostanza – contro la ‘forma’ – cioè la legge. (…). È questo il frutto più avvelenato del moderno ‘dispotismo democratico’. Esso inquina l’ethos del paese, le ragioni sostanziali per cui un insieme di uomini diventa una comunità di cittadini, una repubblica, uno Stato, trasformando in un fatto quotidiano la distruzione della certezza del diritto e della legge. In questo senso, per ricostituire in Italia la vita democratica non bisogna ricorrere né ai carabinieri, né alla polizia; la prima cosa da fare è ristabilire, contro la ‘sostanza’, il primato della ‘forma’, su tutti i piani, a cominciare dalla vita quotidiana. È con la realtà forse dimenticata – ma non superata - di quei giorni, così come la delineava magistralmente Michele Ciliberto quel 17 di aprile dell’anno 2011, che il bel paese deve fare assolutamente i conti: senza sconto alcuno, senza assoluzioni che sappiano di “è cosa passata”, poiché il “dispotismo democratico” penso sia la forma peggiore del cosiddetto “dispotismo” – assoluto, senza aggettivazione – che il bel paese abbia forse inconsapevolmente vissuto, sottovalutandolo, ignorandolo, ma pagandone oggigiorno un costo altissimo.

martedì 16 aprile 2013

Strettamentepersonale. 9 Noi e la “voglia” grande d’Europa.

A lato. Fernando Botero (1995). Ratto di Europa.
 
Ho ricevuto, nei giorni scorsi, un testo del carissimo amico professor Antonio Pasquale Pelaggi. Titolo del molto documentato e lunghissimo Suo scritto: “Cronostoria di un utopico progetto del nostro tempo: Stati Uniti d’Europa”. Per ragioni prettamente editoriali ho dovuto fare ricorso alle spietate forbici, come di un occhiuto censore, per la qualcosa me ne scuso con l’amico carissimo. E sì che l’intero Suo scritto avrebbe meritato ben altra sorte, meritevole come non mai nella sua interezza dell’attenzione e delle necessarie confutazioni laddove alcune opinioni contenute le sollecitassero, ma non di meno le regole sono regole e come tali non me ne sono potuto sottrarre. Conosco da anni il professor Pelaggi (Ninì per tutti coloro che sono gratificati dalla Sua amicizia) e gli rendo il riconoscimento di una grande onestà intellettuale e di uno spirito permeato da grandissime idealità. Ma non di meno sento l’obbligo, in nome dell’amicizia lunghissima che ci lega, di dargli una risposta che non sia delle solite. Per sfuggire ad un inutile giro di parole, ad un “arrampicarmi sugli specchi”, mi pare sia necessario ricorrere alla esperienza ed alla facondia lungamente maturata di un’opinionista tra i più valenti, la giornalista Barbara Spinelli. È questo il contributo che mi sento di dare, in questo scambio – forse diseguale - di osservazioni ed opinioni, all’amico carissimo. Scrive infatti Barbara Spinelli sul quotidiano la Repubblica del 10 di aprile 2013 col titolo “L’Europa di Kubrick”: (…). …sempre più spesso, l'Europa è descritta come utopia, parente prossima di quei messianesimi politici o religiosi che fioriscono in tempi di guerre, di cattività, di esodo dei popoli. Il vocabolo ricorrente è sogno. I sogni hanno un nobile rango: dicono quel che tendiamo a occultare. Resta il loro legame col sonno, se non con l'ipnosi: ambedue antitetici alla veglia, all'attiva vigilanza. Ebbene, l'Europa unita è qualcosa di radicalmente diverso da un sogno, e ancor meno è un'utopia, un'illusione di cui dovremmo liberarci per divenire realisti; o come usa dire: più moderati, pragmatici. E molto pragmaticamente l’amico carissimo traccia la “cronostoria” di quello che definisce “un utopico progetto del nostro tempo”: Nel Febbraio del 1992, Giulio Andreotti nella qualità di Presidente del Consiglio, Gianni De Michelis come Ministro degli Esteri e Guido Carli come Governatore di Bankitalia, firmano a   Maastricht, con gli altri dodici Stati Membri, il Trattato sulla costituenda Unione Europea. Con questo inconsulto (inconsulto? n.d.r.) atto, effettuato senza alcun referendum popolare l’Italia e gli altri undici Stati Membri, rinunciano alla sovranità monetaria e nel contempo le Banche Nazionali, e, quindi anche la Banca d’Italia, rinunciano alla loro piena autonomia, rimettendo il sistema monetario europeo nel suo complesso alla mercè della Banca Centrale Europea, ovvero alla BCE.  (…). Ed è a questo punto che il mio fraterno contributo all’amico carissimo deve per forza fare ricorso alla facondia di Barbara Spinelli. Scrive la valente opinionista nella riflessione già citata: La crisi cominciata nel 2007 ha disvelato quel che avrebbe dovuto esser chiaro molto prima, e che era chiaro ai padri fondatori: l'esaurirsi dei classici Stati nazione. La loro sovranità assoluta, codificata nel trattato di Westphalia nel 1648, s'è tramutata in ipostasi, quando in realtà non è stata che una parentesi storica: una parentesi che escluse progetti di segno assai diverso, confederali e federali, sostenuti già ai tempi di Enrico IV in Francia e poi da Rousseau o Kant. Gli effetti sulla vita degli europei furono mortiferi: questa constatazione, fatta a occhi ben aperti, diede vita, durante l'ultima guerra mondiale, non già al "sogno", ma al progetto concreto d'unificazione europea. Nel frattempo tale sovranità assoluta - cioè la perfetta coincidenza fra il perimetro geografico d'un Paese e quello del potere statuale da esso esercitato - è divenuta un anacronismo non solo incongruo ma inconcludente, che decompone governi e Parlamenti. I nodi più ardui da sciogliere - una finanza mondiale sgovernata, il conflitto fra monete, il clima, le guerre, la convivenza tra religioni differenti - non sono più gestibili sul solo piano nazionale. Tanto meno lo sono con l'emersione di nuove potenze economiche (i BRICS: Brasile, Russia, India, Cina, Sud-Africa). La loro domanda di energia, materie prime, beni alimentari, è in rapida crescita e quel che esse pretendono, oggi, è una diversa distribuzione delle risorse planetarie: inquiete per il loro rarefarsi, esigono la loro quota. Non è più tollerato che una minoranza di industrializzati perpetui tramite l'indebitamento il dominio sui mercati: è attraverso il debito infatti che i ricchi del pianeta s'accaparrano più risorse di quelle spettanti in base alla loro capacità produttiva. È il motivo per cui debiti che erano considerati solvibili non lo sono più: i BRICS non vogliono più rifinanziarli. Il debito sovrano, in altre parole, non è più sovrano: va affrontato come incombenza mondiale, e per cominciare come compito continentale europeo. Pensare che i singoli Stati lo assolvano da soli, indebitandosi ancora di più, è non solo ingiusto mondialmente: è ridicolo e impraticabile. Cala così sulla questione una realtà storica che sembra sfuggire ai più. Ed è in quella realtà, magistralmente delineata dalla Spinelli, che andrebbero inserite le discussioni. Scrive l’amico Pelaggi: È interessante (…) ricordare come Carlo Azelio Ciampi, ex Governatore di  Bankitalia, ex Ministro del Tesoro, diventato Presidente  della Repubblica Italiana il 13 Maggio del 99, durante il primo governo D’Alema, abbia salutato l’entrata dell’euro, dicendo: “l’euro è un grande disegno di pace. È l’impegno solenne assunto dai popoli europei di vivere insieme. È soltanto il primo traguardo raggiunto e, come la lira dalla sua nascita nel 1862 fu veicolo dell’unità d’Italia, l’euro deve diventare motore dell’integrazione del vecchio continente europeo!”. Bel discorso di augurio, ma nessun cenno alla perdita della sovranità monetaria ceduta alla BCE, nessun cenno alla perdita di parte della sovranità popolare riguardo le decisioni politiche nazionali da intraprendere e nessun cenno soprattutto alla Unione di Stati in realtà ancora inesistente! (…). Come di rimando (all’amico carissimo) scrive Barbara Spinelli: L'unità politica fra Europei è insomma la via più realistica, pragmatica, e la più promettente proprio dal punto di vista della sovranità: cioè dal punto di vista del monopolio della coesione civile, del bene pubblico, della forza. L'abbandono-dispersione del monopolio conduce all'irrilevanza del continente e al diktat dei più forti, mercati o Stati che siano. (…). Non è più vero che il re è imperator nel suo regno: superiorem non recognoscens (ignaro di poteri sopra di sé), come nella formula del Medio Evo, quando l'impero era sfidato dai primi embrioni di Stati. La formula risale al XIII secolo, e nell'800-900 divenne dogma malefico. Oggi il singolo sovrano deve riconoscere autorità superiori: organi internazionali, e in Europa poteri federali e una Carta dei diritti che vincola Stati e cittadini. Neanche la sovranità popolare è più quella sancita nell'articolo 1 della nostra Costituzione: non solo essa viene esercitata "nella forme e nei limiti della Costituzione" - dunque è divisibile - ma sempre più è scavalcata da convenzioni transnazionali (il Fiscal Compact è tra esse) che minacciano di corroderla e screditarla, se non nasce una potente sovranità popolare europea. Chiude il Suo scritto l’amico carissimo: (…). È (il Fiscal Compact n.d.r.), (…), l’atto finale di un vero e proprio piano di annientamento e di consequenziale sottomissione dei Paesi dell’Eurozona, in particolare di quelli che sono già in difficoltà economiche e di quelli che presto lo saranno, alla detta Finanza dei Tecnocrati che si nascondono dietro le Istituzioni UE, nominate da privati e controllate da privati, a loro volta incontrollabili ed ingiudicabili, secondo le norme ed i regolamenti di volta in volta inseriti nei vari Trattati. (…). E Barbara Spinelli conclude: Dove sta allora, oggi, l'utopia? Sta nella perpetuazione di sovranità nazionali fittizie: tenute in semi-vita da simulacri di poteri e da cittadini disinformati (le due cose vanno insieme: più spadroneggia lo status quo, più la realtà vien nascosta ai popoli). (…). Tepidezza, incredulità, paura: questi i sentimenti che impediscono la nascita di ordini nuovi. L'ordine vecchio è difeso con partigianeria, anche quando è manifestamente defunto. Quello nuovo con tiepidezza, anche quando è manifestamente necessario. (…). Dunque quando incontriamo un antieuropeo dovremmo replicare, se vogliamo cambiare il mondo: sono io lo scettico, non tu che stai sdraiato nel falso ordine vecchio per timore del nuovo che già è cominciato. Ha scritto nell’incipit del testo l’amico carissimo: Negli anni 50, subito dopo la seconda guerra mondiale ed ancora sotto gli effetti disastrosi ad essa consequenziali, alcuni leader quali: Beyen, Adenauer, Bech, Churchill,De Gasperi, Spaak Hallstein,Manshot,Monnet,Schuman e Spinelli, in una condivisa visione di pace, stabilità, crescita e prosperità dei popoli europei, hanno ispirato la creazione dell’Unione Europea, nella speranza di allontanare dall’Europa il pericolo di nuove guerre fratricida. Mi chiedo, in una scala di valori condivisi, quale altro imperativo possa sopravanzare la ricerca, con tutti i mezzi possibili, della pace? I 68 anni di pace ad oggi vissuti in Europa, pur nel brancolare di questa costruzione europea, penso che rappresentino la garanzia unica per il futuro di tutti i popoli della vecchia Europa.

lunedì 15 aprile 2013

Cosecosì. 51 Matite copiative.



“In verità vi dico” – volendo evangelicamente parlare - che era da tempo immemorabile che non leggevo qualcosa di veramente “notevole”, “intelligente” – ché pochissime sono in verità le cose intelligenti da leggere in rete -, “rivoluzionario” – poiché oggigiorno quasi tutto concorre ad una rivoluzione farlocca che non si invera mai, basta che quel tutto o nulla appaia su un qualsivoglia dei media -, “epocale” – come lo sono anche le banalità più becere e grossolane di questi tempi -. L’ho letto, quel qualcosa intendo dire, quando un intrepido internauta ha postato un messaggino, piccolo, piccolo, minuto anzi, indirizzato ai “dioscuri” – spero che non ne abbiano a male quelle divinità per l’incauto accostamento - del “M5S” – orribile acronimo -, ovvero dei “penta-stellati” ma senza luce propria, ché le stelle, in verità, risplendono di luce propria. Messaggino che molto semplicemente invitava quei due guru a ritornare alla “matite copiative”. Fa proprio scandalo quel messaggino? O non disegna una realtà ben precisa e che conosciamo tutti? Solamente le “matite copiative” darebbero un senso compiuto al “mugugno” perenne dell’italico popolo-elettore. Ché quello stupendo messaggino non fissi, come su di una rupe di Lascaux, una arretratezza tecnologica e culturale di questo disastrato paese? Scriveva quel messaggino l’intraprendente e, forse, incauto internauta dopo la tristissima esperienza delle “quirinarie”. Sappiamo come siano andate a finire le “quirinarie”. Riservate ai pochi “intimi” della nuova “casta” asserragliata nella rete, quasi murata in essa, non hanno fatto altro che precisare i confini di un fenomeno nuovo, ma atteso, ed hanno dato lo spessore vero di una “non-partecipazione” attiva e consapevole, e senza ritorni, che oggigiorno fa tornare comodo affidarsi ad una entità nuova, a “quelli della rete” per l’appunto. Un’evoluzione senza consapevolezza, verrebbe da dire. E cosa dire, se ce ne fosse bisogno ancora, delle “parlamentarie”? Se non ricordo male, un paio o tre soltanto di decine di migliaia degli asserragliati in rete hanno deciso per il rimanente di quello che sarebbe stato il popolo-elettore di quegli intrepidi. Per il resto, un popolo-elettore che con le pratiche nuove della rete ha poco da spartire. Del resto, dell’arretratezza tecnologica e culturale del popolo-elettore se ne aveva contezza da tempo, anzi da sempre, senza menare scandalo. Perché non approfittarne? Il “mugugno” esiste, la voglia di partecipazione in prima persona del cittadino-elettore alla vita politica si è ridotta al lumicino, perché non approfittarne? In fondo, il grosso del popolo-elettore oltre il “mugugno” di rito non ha preteso, come sarebbe stato auspicabile, un ben diverso comportamento della “casta” della politica. Un “intrallazzismo” di maniera diffuso ha fatto comodo in alto come in basso; ed il “tengo famiglia” ha orientato l’opera degli addetti ai lavori e delle loro ampie confraternite. E poi, avranno pensato in tantissimi del popolo-elettore, perché non affidarsi ad una “casta” ancora non sperimentata? Affidiamoci ad essa, seppur essa viva asserragliata nella grande rete, e speriamo che il “cielo ce la mandi buona”. Oggi, ad urne oramai chiuse, sembra che non sia così! Il cielo continua ad odiare gli inetti! Ed allora le “matite copiative” dell’internauta hanno un senso compiuto e ben preciso. Segnano l’inadeguatezza tecnologica e culturale di quel popolo-elettore che ha preferito affidarsi, ciecamente, senza una compiuta consapevolezza, al novello “principe”, “mondo”, “intrepido”, “tetragono” alle lusinghe del politichese ma anche alla doverosa responsabilità delle decisioni, “principe” che monderà le lordure del passato. Scriveva Giacomo Papi il 28 di maggio dell’anno 2011 – sul settimanale “D” del quotidiano la Repubblica, col titolo “Le matite copiative” -: Lo confesso: da quando sono diventato maggiorenne a ogni elezione pianifico il furto della matita copiativa. Alla base dev'esserci la credenza superstiziosa secondo cui impossessarmi della sua invisibile incancellabilità significhi disporre di un oggetto magico, capace di trasformare le speranze in accadimenti, le idee più belle in mondi migliori, le volontà più giuste in realtà condivise. Così, anche questa volta, dentro la cabina, prima di votare, me la rigiro tra le mani e la osservo. È giallina e sopra c'è scritto ministero dell'Interno e un nome misterioso: Pierleoni srl Roma. Fuori dal seggio, telefono. Il magazziniere mi passa il responsabile che mi spiega che loro sono i distributori mentre le matite (circa 250mila a ogni elezione) sono importate dal Brasile e prodotte dalla Lyra, una ditta tedesca fondata nel 1806 a Norimberga che nel 2008 è stata assorbita dalla Fila. Furono inventate intorno al 1870, le matite copiative, quando il signor László Bíró non era ancora nato, penne a sfera e pennarelli non c'erano e si scriveva intingendo il pennino nell'inchiostro. Per renderle indelebili si aggiunsero anilina e pigmenti alla normale grafite. Si diffusero in fretta. Durante la prima guerra mondiale l'esercito britannico ne ordinò a decine di migliaia per gli usi militari. Erano pratiche, economiche e incancellabili. E poi il “salto” magico del Suo scrivere, di Giacomo Papi, del quale sono attento ed entusiasta lettore, la magia di un’intuizione e di un esplorare l’infinito mondo delle idee che rende la scrittura un’avventura nell’avventura sempre magica e misteriosa all’interno dei labirinti della mente umana: Erano moderne, ma il bisogno che soddisfacevano era millenario, anzi ancestrale. Era il bisogno di tracciare segni perpetui iniziato con le incisioni rupestri, continuato con gli scalpellini e gli amanuensi che si compiva grazie alla rivoluzione industriale nel segno della praticità e della produzione in serie. Era il bisogno di scrivere per sempre, in eterno, una volta per tutte. Di comunicare non solo ai contemporanei, ma anche eventualmente agli uomini futuri. Per questo, in Italia furono ritenute adatte alla democrazia. Ecco, il sotterraneo legame tra le “matite copiative” e la nostra decadente democrazia. Al tempo dello scritto del Papi la “casta” della rete non si era ancora compiutamente appalesata. Ma certamente Giacomo Papi aveva presente l’inadeguatezza, anzi l’arretratezza tecnologica e culturale del bel paese. E laddove scrive “delle incisioni rupestri”, come di sfuggita, alle quali assimila il tratto indelebile delle “matite copiative”, non si può non scorgere la consapevolezza Sua di avere a che fare, tecnologicamente e culturalmente parlando a proposito del popolo-elettore, a quegli incisori delle rocce delle famosissime grotte di Lascaux nella lontanissima era pre-moderna nella Francia sud-occidentale. E l’internauta, con quel suo innocente messaggino, non ha fatto altro che ricondurre, senza eccessivo giro di parole, le vicende dell’oggi alla loro tragicissima, inattesa complessità. Continua Giacomo Papi in quello stupendo Suo scritto: L'articolo 16 della Legge 29 del 6 febbraio 1948 afferma: "Il voto si esprime tracciando un segno con la matita copiativa sul contrassegno o, comunque, sul rettangolo che lo contiene o sul nominativo del candidato prescelto". (…). Matite copiative, cabine, schede e urne appaiono anacronistiche come i tram a cavalli. Però sono ciò che rimane della democrazia per come l'abbiamo conosciuta, ciò che la difende da un futuro che facciamo fatica a precisare, ma di cui è già possibile intuire i contorni. Un'epoca in cui l'opinione pubblica sarà sondata grazie al marketing e alla statistica, si esprimerà rispondendo a sondaggi e firmando petizioni online, e il re del mondo verrà telenominato via sms come il vincitore di Sanremo o di un reality show. Scrisse l'anarchico gallese Gafyn Llawgoch che però per le elezioni nutriva una vera passione: "Si vota scrivendo una X. La X è la firma delle persone che non sanno scrivere. Forse vuol dire che il voto è il nucleo di ogni firma possibile". Ecco: il bel paese è fermo al tempo della “Legge 29 del 6 febbraio 1948”. E di quell’articolo 16.

giovedì 11 aprile 2013

Cosecosì. 50 “Tutti fanno tutto pur sapendo poco”.



“L’ultimo flagello dell’antipolitica: tutti fanno tutto pur sapendo poco”. Ha così titolato la Sua riflessione, sul Venerdì di Repubblica del 29 di marzo, Massimiliano Panarari, politologo ed esperto della comunicazione. Sarebbe il caso che le lancette dell’orologio del nostro tempo venissero portate indietro, ovvero al tempo delle “irresponsabilità” di quel sedicente ministro della “finanza creativa” che osava dire, con voce chioccia ed imperturbato, come la “cultura” non desse da mangiare. O come amava asserire, vantandosene, il “conducator” di quel tempo, tempo appena passato ma sempre pericolosamente presente, di non avere letto un libro da un ventennio abbondante. E lo asseriva con grande soddisfazione. Torna tutto – a conferma - nel solco di quella forma di potere che vado definendo come “scarnificazione” del pensiero. E torna tutto a disdoro di una “casta” dell’”antipolitica” al potere che è stata asservita, ciecamente, ai dettami di quella “finanziarizzazione” dell’economia e della vita sociale nel suo complesso che ha condotto l’intero pianeta negli abissi della insuperabile, con gli strumenti attuali, “crisi” economico-finanziaria e che ha impedito, peraltro, una visione delle condizioni di vita e delle esistenze diversa. Laddove il “ben-essere” – sempre con il trattino - della società nel suo complesso viene riposto esclusivamente – con il Pil e quant’altro - nel consumo di beni e di cose a tutto detrimento della sfera della conoscenza e di una più sana relazionalità tra gli esseri umani. Scriveva l’Aretino (1304-1374) in una Sua lettera all’amico Giovanni Anchiseo: Non riesco a saziarmi di libri, e sì che ne posseggo un numero probabilmente superiore al necessario; ma succede anche coi libri come  con le altre cose: la fortuna nel cercarli è sprone a una maggiore avidità di possederne. Anzi coi libri si verifica un  fatto singolarissimo: l’oro, l’argento, i gioielli, la ricca veste, il palazzo di marmo, il bel podere, i dipinti,  il destriero dall’elegante bardatura, e le altre cose del genere, recano con sé un godimento inerte e superficiale; i libri ci danno un diletto che va in profondità, discorrono con noi, ci consigliano e si legano a noi con una sorta di famigliarità attiva e penetrante. È certo che al tempo Suo non esistessero il Pil e lo spread. Ma tant’è: agli uomini di ogni tempo quel che essi meritano. Ma la felice intuizione di Massimiliano Panarari riporta alla mia mente la riflessione dotta del professor Gustavo Zagrebelsky – “La nostra Repubblica fondata sulla cultura”, sul quotidiano la Repubblica del 5 di aprile -: La società del nostro tempo, dove le conoscenze sono sempre più approfondite e settorializzate; dove, quindi, è inevitabile delegare ad altri la conoscenza che ciascuno di noi, da solo, non può avere: in questa società dove pressoché tutte le decisioni politiche hanno una decisiva componente scientifica e tecnica, massimo è il bisogno di fiducia reciproca. Per prendere decisioni democraticamente e consapevolmente in campi specialistici, chi non sa nulla deve potersi fidare di chi detiene le conoscenze necessarie. Non in nome della Verità, che non sta da nessuna parte, ma in nome almeno dell’onestà, che può stare presso di noi. Se non ci si potesse fidare gli uni degli altri e, in primo luogo, di coloro che per professione si dedicano a professioni intellettuali, la cultura come indispensabile luogo “terzo” di convergenza e convivenza sarebbe un corpo morto. È come mettere il dito in una ferita resa purulenta. Nella ferita inferta al “pensiero” in quanto tale, laddove l’”immediatezza” e del “conoscere” purché sia ed al contempo del “non sapere” intuito da Panarari, affondano, per annullarle, ben altre specificità che al pensiero degli umani sono state legate per secoli e secoli. Continua il professor Zagrebelsky: La chat e i suoi fratelli – blog, twitter, social forum, newsgroup, mailing list, facebook, messaggi immediati d’ogni tipo – appartengono al mondo dell’istantaneità; i libri al mondo della durata. I messaggi immediati appartengono alla comunicazione; i libri, alla formazione. La comunicazione vive dell’istante, la formazione si alimenta nel tempo. La comunicazione non ha onere d’argomentazione e non attende risposte. Il suo fine è dire e ridire su ciò che è stato detto, per aderire o dissentire, senza passi in avanti. Il libro – saggio, romanzo, poesia; cartaceo o elettronico – appartiene a un altro mondo. Nasce e vive in un tempo disteso, di studio e riflessione. Se sul bancone d’una libreria incontri L’uomo senza qualità o Moby Dick, innanzitutto è come se ti chiedessero: sai quanto tempo ho impiegato a essere pensato e scritto? E tu, quanto tempo e quanta concentrazione pensi di potermi dedicare? L’invasione degli instant books è la conseguenza della medesima risposta a entrambe le domande, rivolte agli autori e ai lettori: poco, molto poco, forse sempre meno tempo e meno concentrazione. Ecco l’uomo “nuovo” che appare ben delineato dai e nei progetti di coloro i quali detengono il potere di costruire le società dell’oggi e del domani. L’uomo “nuovo” che non abbisogna di “concentrazione” alcuna, e che dell’”immanenza” del pensiero degli umani, che ha contribuito a costruire ciò che osiamo definire la “Memoria”, pensa di poterne facilissimamente fare a meno. La “profondità” dell’Aretino è la moneta buona che è stata scacciata, nel gran mercato degli umani, dalla moneta cattiva dell’”immediatezza” del conoscere per conoscere estesa anche alla sfera delle loro relazioni. Conclude l’illustre pensatore: Ma, allora, è chiaro che la sopravvivenza del libro non è una rivendicazione a favore d’una élite di pochi fortunati lettori. La diffusione della lettura non appartiene al superfluo d’una società non solo, com’è ovvio, perché ha a che vedere con la diffusione dell’istruzione. Siamo, infatti, pienamente nel campo della cittadinanza, cioè della condizione di partecipazione attiva, consapevole e responsabile a quanto c’è di più decisivo per la tenuta della compagine sociale, cioè la partecipazione a una delle tre “funzioni sociali”: la funzione politica di fondo, meno visibile ma, in realtà, nel formare mentalità, più determinante della stessa azione politica in senso stretto, la quale, nella prima trova i suoi limiti e i suoi fini. Si tratta, per l’appunto, della cultura.

martedì 9 aprile 2013

Cronachebarbare. 9 La politica del “Bagaglino”.



Quadro primo. L’altro ieri. Andante moderato.

“Berlusconi disprezza i principi della nostra democrazia, offende la Costituzione, ha in mente una forma moderna di autoritarismo: non vuole governare, vuole essere il padrone dell’Italia. Non è il momento della delusione, dell’astensione: non dobbiamo tradire i nostri padri”. Debutto da segretario Pd il 21 di febbraio dell’anno 2009.

“È il momento in cui tutti gli italiani che credono nei valori condivisi della Costituzione, dall’antifascismo alla Resistenza, comincino una lunga battaglia per difendere la democrazia italiana”. Il 22 di febbraio dell’anno 2009 nella natìa Ferrara.

Quadro secondo. Ieri. In crescendo.

“Non può esserci un nuovo governo sostenuto da avversari”. Il 3 di agosto dell’anno 2012.

“Non diciamo a Casini di entrare nel centrosinistra, ma un percorso comune serve al Paese perché non ci saranno, dall’altra parte, il Ppe spagnolo o la Cdu tedesca, ma Berlusconi e la Lega”. Il 31 di agosto.

Quadro terzo. Oggi. L’inesorabile.

“Ingroia dice di chiudere la porta a noi, ma la apre alla destra, perché col Porcellum ogni voto sottratto al Pd è un voto regalato a Berlusconi e Lega”. Il 19 di gennaio dell’anno 2013.

“Ai tanti italiani giustamente arrabbiati e delusi dalla politica, che magari votano Grillo o Ingroia, diciamo che non è il momento di sprecare un voto, che potrebbe essere determinante per tornare a far vincere la destra e Berlusconi. Un rischio troppo alto”. Il 25 di gennaio.

“Le parole di Berlusconi sono una vergogna e un insulto alla storia e alla memoria. Chieda scusa agli italiani”. A proposito del “fascismo buono”. Il 27 di gennaio.

”Sono vent’anni che Berlusconi imbroglia gli italiani”. Il 4 di febbraio.

“A ogni persona di buonsenso dovrebbero venire i brividi solo a pensare a una sua vittoria: spread alle stelle, derisione nel mondo, ripercussioni in Europa, abuso totale di ogni regola… uno scenario fanta-horror, l’Italia una specie di Gotham City”. Il 5 di febbraio.

“Ogni voto tolto a Bersani rischia di far vincere Berlusconi, Calderoli, La Russa. È un incubo che si evita solo col voto al Pd”. Il 20 di febbraio.

“Se non avessimo la maggioranza, ci porremo il tema di un allargamento della maggioranza, ma mai alla Lega e Berlusconi”. Il 22 di febbraio.

“Con Berlusconi non facciamo intese”.  Il 17 di marzo.

“Non c’è dirigente, parlamentare o iscritto al Pd che non capisca che non esistono le condizioni politiche per un governo sostenuto da noi e Pdl”. Il 24 di marzo.

Quadro quarto. Domani. La piroetta.

“Non resta che uscire dall’incomunicabilità e abbandonare questo complesso di superiorità, molto diffuso nel nostro schieramento, per cui pretendiamo di sceglierci l’avversario. Ci piaccia o no, gli italiani hanno stabilito che il capo della destra è ancora Berlusconi. È con lui che bisogna dialogare”.

Dichiarazioni rese alla stampa dal molto onorevole Dario Franceschini  e riportate in “Francesconi” di Marco Travaglio, su “il Fatto Quotidiano” del 9 di aprile 2013. Ci risiamo! E gli elettori non contano nulla?