Torno al teorema che tanto è stato caro al cuore
grande, grandissimo dell’uomo di Arcore ovvero dell’uomo del partito dell’amore
che, per converso, lascerebbe sottintendere, sottintendere non più di tanto e
molto malignamente, esistente un partito avverso, ovvero il partito dell’odio.
Sarebbe a dire che, da quel teorema “dell’amore e dell’odio”, ne
deriverebbe un corollario inquietante assai e che ben verrebbe espresso e
plasticamente raffigurato dall’antico adagio partenopeo: “... ogni scarafone è bell’ a
mamm’ soja“. Ché se tutto venisse ridotto al binomio “amore /odio”, nelle democrazie sarebbero da perdonarsi, e
sempre, tutte le manchevolezze, le scempiaggini, le bugie, le inconcludenze, le
lordure e le brutture, se non il delinquere vero e proprio anche per azioni non
direttamente conseguenti all’arte del governo, proprio in forza di quel binomio
che regolerebbe così le relazioni tra gli umani al più primitivo dei livelli.
Sarebbe inutile, e controproducente pure, se non azzardato e rischioso anche,
tentare di riportare al vaglio della ragionevolezza e della normale dialettica,
e non si dica giammai al vaglio auspicabile sempre del binomio “consenso/dissenso”,
cancellato in nome di quell’altro binomio,
sarebbe inutile dicevo sottoporre la prassi politica, i comportamenti e
le scelte di un qualsivoglia reggitore delle cose pubbliche al di fuori
dell’angusto recinto di quell’ancestrale primitivo binomio. Ridotte le
relazioni sociali al binomio “amore/odio”, la “perdonanza”
diverrebbe prassi costante, quasi legge non scritta, usanza, assuefazione,
disinteresse diffuso tra i governati, con tutto quel ne conseguirebbe in fatto
di responsabilità e correttezza istituzionale. Scomparirebbe l’etica delle responsabilità
sostituita dalla peggiore espressione del familismo de’ noantri “…bell’ a mamm’ soja”. Lo “scarafone”
di turno ne conseguirebbe un bel vantaggio; una incondizionata impunità, la
consapevolezza di poter contare, in forza quel binomio, sempre e comunque, del
perdono della “mamm’ soja”, nel contesto attualizzato, nel perdono e nella
accondiscendenza di un popolo di elettori prono e sufficientemente “narcotizzato”
mediaticamente. Nulla di peggiore, doloroso e mortale per una moderna e
complessa democrazia. Di seguito trascrivo, in parte, un editoriale del primo
di dicembre dell’anno 2009 a firma di Giuseppe D’Avanzo, “La nascita di Forza Italia e le bugie del Cavaliere”, editoriale
pubblicato sul quotidiano “la Repubblica”. Ecco, per l’appunto: “… bell’ a mamm’ soja”, è solo ‘na
bugiuzza piccola, piccola. Ecco, una delle tante, in fondo! Che vuoi che sia!
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
domenica 27 agosto 2017
mercoledì 23 agosto 2017
Sfogliature. 82 “Giustizia, misura minima della carità".
La “sfogliatura” che propongo è del
venerdì 29 di gennaio dell’anno 2010. Non abbisogna di chiosa alcuna. Le cose
che sono state scritte allora sono terribilmente sotto gli occhi increduli di
noi uomini della torrida estate dell’anno 2017. Scrivevo: Ha lasciato scritto Nelson Mandela: “Siamo tutti nati per risplendere, come fanno i bambini. E quando
permettiamo alla nostra luce di illuminare, diamo agli altri la possibilità di
fare lo stesso. E quando ci liberiamo dalle nostre paure, la nostra presenza
libera gli altri”. Riprendo in mano la magnifica “Lettera 144” dello
scrittore e giornalista Ettore Masina che mi gratifica della Sua attenzione con
l’inoltro puntuale dei Suoi preziosissimi scritti. Ettore Masina è un cattolico
che a tutto tondo si identifica nel magistero del Concilio Vaticano Secondo
(1962-1965). Un’epoca remota. Ché, ai tanti del bel paese, sembra non dire più
un bel nulla. Nella Sua lettera Ettore Masina fa riferimento ai vescovi di Roma
che furono i protagonisti di quell’evento che ha segnato la storia di quella
chiesa. Una storia incompiuta per la verità, se ancor oggi i solenni proclami
di cristiana accoglienza e dovuta fratellanza, tra tutti coloro che siano
accomunati dalla condizione della umanità, sembrano non avere la dovuta considerazione
e pratica applicazione. Mi sono sempre chiesto se i reggitori della cosa
pubblica del bel paese avessero ottenuto, dagli uomini di quel Concilio, la
stessa indulgenza accordata ad essi dalle gerarchie attuali della chiesa di
Roma. Una domanda senza risposta, capisco, ma insistente nella mia mente:
sarebbero rimasti gli uomini di quel Concilio indifferenti al malaffare
dilagante ed alla caduta etica del costume nel bel paese? Non che li si voglia
tirare per la giacchetta quegli uomini, per annoverarli furbescamente nelle
proprie schiere! Ma santo sia sempre il loro iddio, com’è possibile da parte
loro non assumere i dovuti toni e le necessarie iniziative di denuncia per
evitare un baratro inevitabile nei costumi e nelle coscienze delle masse del
bel paese? O bisognerà attendere un nuovo secolo per parlare, con scandalo, a
posteriori, dell’insostenibile silenzio accordato dagli uomini della chiesa di
Roma, nostra contemporanea, ai reggitori della cosa pubblica? Queste poche
righe di personali considerazioni mi vengono spontanee a seguito delle ultime
stravaganze del signor B., stravaganze messe in video e sui media asserviti sul
tema dei moderni migranti e della criminalità nel bel paese. Trascrivo di
seguito la seconda parte della “Lettera 144” dello scrittore Ettore Masina:
martedì 22 agosto 2017
Quodlibet. 14 “Alla ricerca dell'autorità perduta”.
Da “Alla ricerca dell'autorità perduta” di Ilvo Diamanti, pubblicato
sul quotidiano la Repubblica del 22 di agosto dell’anno 2011: Viviamo
un passaggio d'epoca. Questa crisi, infatti, non scuote solo le Borse,
l'economia, la condizione di vita della gente. Ha aggredito, con violenza,
anche il principio di autorità. Il Potere stesso, che a differenza
dell'Autorità, non ha bisogno di legittimità e di consenso. Dovunque, si
assiste alla rapida e diffusa caduta di ogni autorità. E di gran parte dei
"poteri" che regola(va)no il nostro mondo. Anzi, il mondo, in
generale. (…). La crisi finanziaria che scuote l'economia globale, (…),
riflette un'evidente incertezza di "poteri" e di regole condivise.
Nessuno che sia in grado, davvero, di prevedere e di orientare il corso dei
mercati - e delle Borse. La relazione tra finanza ed
economia è debole (per usare un eufemismo). La politica ancor di più. Si dice,
anzi, che la debolezza della politica e degli Stati sia causa della crisi delle
Borse. Prive, a loro volta, di metri e, soprattutto, "autorità" in
grado di regolarle. Le agenzie di Rating, con i loro "voti", possono
produrre (e hanno prodotto) effetti pesanti. Ma sono, a loro volta, poco
credibili, dopo la pessima prova offerta nel 2008, al tempo della crisi dei
subprimes. Il Nobel dell'Economia, Paul Krugman, sul New York Times le ha
definite, impietosamente, "clown". E ha riproposto, come prima causa
della crisi finanziaria, la debolezza della politica e degli Stati (Uniti). Una
crisi di autorità, insomma. (…). La crisi del Potere e - soprattutto -
dell'Autorità, (…), è particolarmente visibile in Italia. Dove la Politica è
debole, più ancora della Finanza e dell'Economia. Dove i leader di governo
cercano di non dar nell'occhio. Si affidano alla supplenza di altri poteri
(relativamente) più autorevoli, come la Bce. Mentre l'opposizione stenta a
trasformare l'impotenza della maggioranza in potere. A guadagnare autorità. Il
nuovo moto di insofferenza contro la casta non deriva solo dal riprodursi di un
sistema di privilegi - e di corruzione - che,
in effetti, non è mai cessato. Ma dall'assoluta perdita di autorità della
classe dirigente. Soprattutto dei leader che governano il Paese da 10 anni, in
modo quasi ininterrotto. Quelli che, fino a un anno fa, avevano trasformato
Villa Certosa nella rutilante capitale estiva del Paese. Affollata di veline e
velinari. Quelli che parlano di politica con un linguaggio antipolitico. Usano
il turpiloquio come linguaggio pubblico. E alzano il dito non per mostrare la
luna ... Come immaginare che possano riscuotere "prestigio" e
deferenza tra i cittadini? Se riproducono i vizi e le debolezze del popolo,
perché dovrebbero ottenere privilegi e riconoscimento da parte del popolo? Oggi
che la crisi minaccia la condizione economica e sociale, la vita quotidiana di
tutti? Questa fase mi pare particolarmente insidiosa. Difficile da superare. È
frustrata da un grande deficit di autorità
- e di potere. Da una grande
povertà di riferimenti etici e di comportamento. Un problema aggravato, (non
solo) in Italia, dalla scarsità di attori e persone credibili. In grado di
"dire" le parole necessarie a esprimere il sentimento del tempo. (…).
Ma, soprattutto, di tradurle in pratiche coerenti. Di dare il buon esempio.
Eddy Berselli, prima di lasciarci, ha rammentato, profeticamente, (L'economia
giusta, Einaudi) che "dovremo abituarci ad essere più poveri". Ma, a
maggior ragione, diventa importante chi e come ce lo propone. Insomma: è una
questione di autorità.
lunedì 21 agosto 2017
Paginatre. 94 “Lo strip-tease e la cavallinità”.
Da “Lo
strip-tease e la cavallinità” (1960) di Umberto Eco, riportato in “Diario
minimo” (alle pagg. 26/29) nella edizione dell’anno 1988 degli Oscar Mondadori:
Quando
appare sul piccolo palcoscenico del "Crazy Horse", riparata da una
cortina di rete nera a larghe maglie, Lilly Niagara è già nuda. Poco più che
nuda, con un reggiseno nero slacciato e un reggicalze. La prima parte del
numero la impiega a rivestirsi pigramente, a infilarsi cioè le calze e ad
allacciarsi la neghittosa bardatura che le pendeva sul-le membra. La seconda
parte la dedica a riportarsi nella situazione di partenza. Così che il
pubblico, incerto se questa donna si sia spogliata o si sia vestita, non si
rende conto che in effetti non ha fatto nulla, perché anche i gesti lenti e sofferenti,
contrappuntati dall'espressione angosciata del volto, dichiarano a tal punto la
volontà di mestiere, e si iscrivono così esplicitamente in una tradizione di
alta scuola, ormai codificata persino da manuali, che non han-no nulla di
imprevisto – e perciò di seducente. Di fronte alla tecnica di altre maestre
dello strip-tease, che sanno dosare così accortamente la loro offerta di una
innocenza introduttiva, su cui fanno precipitare risoluzioni d'improvvisa
malizia, lascivie tenute in serbo, scatti ferini riservati per l'ultima infamia
(maestre dunque di uno strip dialettico e occidentale), la tecnica di Lilly
Niagara è già beat e hard e rimeditata oggi ci ricorda piuttosto la Cecilia
della Noia moraviana, una sessualità annoiata fatta di indifferenza, condita
qui di una maestria sopportata come una condanna. Dunque Lilly Niagara vuole
raggiungere l'ultimo livello dello strip-tease, quello in cui, nonché offrire lo
spettacolo di una seduzione che non si indirizza ad alcuno, che promette alla
folla ma che sottrae il dono all'ultimo istante, si varca l'ultima soglia e si
elude persino la promessa della seduzione. Così se lo strip-tease tradizionale
è la profferta di un amplesso che si rivela d'un tratto interruptus,
promuovendo nei fedeli una mistica della privazione, lo strip di Lilly Niagara
castiga persino la iattanza dei nuovi adepti, rivelando loro che la realtà
promessa non solo è unicamente contemplabile, ma si sottrae persino alla
pienezza della contemplazione immobile, perché di essa si deve tacere. L'arte
bizantina di Lilly Niagara conferma però la struttura abituale dello
strip-tease di convenzione e la sua natura simbolica. È solo in alcune boìtes
di pessima reputazione che potete a fine spettacolo indurre colei che si è
esibita a fare commercio di sé.
mercoledì 16 agosto 2017
Lalinguabatte. 37 “I giri magici che infestano la democrazia”.
Scriveva Michele Prospero in “Il comico della politica. Nichilismo e aziendalismo nella comunicazione di Silvio Berlusconi”
- (2010) edito da Ediesse, pagg. 280 € 15,00 -: “(…). Il comico che irride e
dissacra è una forma espressiva che Berlusconi rende congeniale al populismo
che con il sorriso beffardo accoglie la catastrofe del sistema politico”. Ci
danno le cronache politiche ferragostane inquietanti notizie di un ritorno
sulla cresta dell’onda dell’uomo di Arcore. Sembra sfuggano alla memoria
collettiva i disastri istituzionali, materiali, morali ed etici compiuti, nella
sua incontrastata opera catastroficamente demolitoria, da quell’uomo, disastri che
hanno permeato la vita collettiva per tanti lustri e che fanno risentire ancora,
come lunga lugubre ombra, la loro funesta azione anche dopo che i “poteri forti”
d’Europa ne intimarono la resa. In “Le
oligarchie dei giri che infettano la democrazia” – pubblicato il 26 di
marzo dell’anno 2010 sul quotidiano la Repubblica - Gustavo Zagrebelsky, ad un
certo punto della Sua dotta riflessione – che di seguito trascrivo parzialmente
-, scrive, senza domandarsi: - per combattere le oligarchie, occorre
creare «momenti eroici», con le violenze e le distruzioni che li accompagnano (?)
–
. È la riproposizione del famoso “Che fare?”, che ci si pone, nel
cosiddetto popolo della sinistra, dopo ogni singola disillusione politica. O
schianto elettorale che sia. Accolta – alla luce di un incontrovertibile
principio di realtà e del buon senso - la prospettiva finale avanzata dall’illustre
Autore rispetto alla “possibilità di creare «momenti non eroici»
di distruzione delle oligarchie”, rimane, per la cosiddetta “sinistra”
sempre, l’impegno e la sfida a contrastare la deriva dirompente in atto nel bel
paese, affidati anche o soprattutto alla battaglia della “parola”. Poiché,
bisogna amaramente pur dirlo, di quelle oligarchie dei “giri” ne è infestata la
politica tutta del bel paese. Senza esclusione di schieramento alcuno. Su tutto
l’arco costituzionale, per l’appunto. È forse proprio questa tristissima
constatazione, fatta propria dall’elettorato più avvertito e “riflessivo”, che
ha determinato i risultati nel corso delle ultimissime vicissitudini politico-elettorali,
e che determinerà in seguito, permanendo la situazione dell’oggi, anche l’esito
dell’oramai prossimo esame elettorale. Con il ritorno dell’uomo di
Arcore&C. La “parola”. Rimane il primato della libera “parola” dei singoli,
come della libera “parola” dei tanti, che possa in prospettiva divenire la “parola”
appresa e fatta propria da moltitudini sempre più larghe, coscienti e
politicamente più responsabili. Affinché essa possa farsi luce, lungo un
cammino irto, nell’immediato futuro, pregno di immense difficoltà. L’impegno
della “parola”, nell’incertezza sempre più opprimente e devastante dei tempi in
cui si è chiamati a vivere ed a testimoniare:
giovedì 10 agosto 2017
Quodlibet. 13 «La Rivoluzione ed il “diritto alla resistenza”».
Da «Il guaio
è che abbiamo smesso di pensare alla rivoluzione», intervista di Stefano
Feltri al professor Paolo Prodi pubblicata su “il Fatto Quotidiano” del 10 di
agosto dell’anno 2015: «Se non c'è passato non c'è nemmeno futuro.
E questo si traduce in una crisi visibile delle istituzioni democratiche: manca
l'idea di progetto, il mutamento rimasto è quello delle tecnologie. Ma si
cambia senza sapere dove si va».
Professor Prodi, cos'è una rivoluzione? - I
colpi di Stato non sono mai mancati, la lotta di chi non ha potere contro chi
ha potere esiste dalle civiltà mesopotamiche. Ma non è la rivoluzione. Quello
che ha distinto l'Occidente dalle altre civiltà è la capacità di progettare un
modello sociale nuovo. Spesso con gli aspetti tragici della sommossa, certo, ma
all'interno di una visione di sviluppo -.
Perché questo è avvenuto soltanto in
Occidente? - La rivoluzione francese e l'illuminismo sono il culmine di un
processo secolare che ha distinto il potere politico da quello economico e da
quello sacro. Nelle antiche civiltà il palazzo e il tempio tendevano a
coincidere. Con il cristianesimo si sviluppa il dualismo del “date a cesare
quel che è di cesare e a Dio quel che è di Dio” che nel medioevo diventa lotta
tra papato e impero, con la nascita del potere economico come un potere di tipo
nuovo, non legato al possesso della terra -.
Perché lei parla della distinzione tra
profezia e utopia come una svolta decisiva? - Nell'Antico testamento si
sviluppa l'idea di profezia come espressione di una volontà di un dio super
partes. Non identificato col potere, ma che si mette in dialettica con esso e
ne condanna gli abusi. È questa l'idea che mette le sue radici anche nel
cristianesimo. La Chiesa diventa profezia istituzionalizzata: il profeta non è
più isolato, ma diventa una comunità. Che non si identifica con il potere,
anche se spesso finisce per entrarvi in combutta. Non voglio dire che la
teocrazia non è esistita, anzi. Ha messo la testa fuori in Occidente in ogni
generazione, il potere sacro ha sempre cercato di impadronirsi di quello
politico ed economico, ma in Occidente non si sono mai identificati l'uno con
l'altro. Questo ha prodotto una fibrillazione, una tensione continua, che ha
portato allo sviluppo dell'idea di rivoluzione. E si arriva alla decapitazione
di Carlo I nel 1648 -.
E l’utopia? - La prima utopia è quella di
Thomas More. È la progettazione di una società “felice”. Che riempie il
contenuto rivoluzionario di un nuovo potenziale. Non si parla più di profezia
legata alla “fine dei tempi”, la profezia si storicizza e diventa utopia. La
storia della salvezza diventa “progresso”, movimento -.
venerdì 4 agosto 2017
Uominiedio. 23 “Salvate il crociato Scalfari”
Prima sorprendente asseverazione propria
di un attempato neofita: Gli atei. (…). L’ateo è una persona che non
crede in nessuna divinità, nessun creatore, nessuna potenza spirituale. Dopo la
morte, per l’ateo, non c’è che il nulla. Da questo punto di vista sono
assolutisti, in un certo senso si potrebbero definire clericali perché la loro
verità la proclamano assoluta. Anche quelli che credono in una divinità (cioè
l’esatto contrario degli atei) ritengono la loro fede una verità assoluta, ma
sono infinitamente più cauti degli atei. “Più cauti” non direi. Non
per nulla quegli uomini di religione “più cauti” si sono macchiati di
quelle atrocità che oggi definiremmo “contro l’umanità”. Ammenoché non si
voglia impudicamente sostenere che “roghi”, “crociate”, “missioni”, “inquisizioni”
siano state compiute per l’umanità intera e con quell’umanità necessaria
ispirata – forse - dalla “santità” dello “spirito santo”. E molto timidamente l’attempato
neofita arriva a sostenere che – e ci mancava pure che non lo facesse - “quasi
sempre dietro il motivo religioso c’erano anche altri e più corposi interessi,
politici, economici e sociali, ma la motivazione religiosa era comunque la
bandiera di quelle guerre, che furono molte e insanguinarono il mondo”.
Ullallà “crociato” Scalfari. Seconda solenne asseverazione: “Gli
atei - l’ho già detto - non sanno di essere poco tolleranti, ma il loro
atteggiamento nei confronti delle società religiose è rigorosamente combattivo.
La vera motivazione, spesso inconsapevole, è nel fatto che il loro Io reclama
odio e guerre intellettuali contro religioni di qualunque specie. Il loro
ateismo proclamato vuole soddisfazione, perciò non lo predicano con elegante
pacatezza ma lo mettono in discussione partendo all’attacco contro chi crede in
un qualunque aldilà, lo insultano, lo vilipendono, lo combattono
intellettualmente. È il loro Io che li guida e che pretende soddisfazione, vita
natural durante, non avendo alcuna speranzosa ipotesi di un aldilà dove la vita
proseguirebbe, sia pure in forme diverse”. “O signore dal tetto natio”,
mi verrebbe da canticchiare come in quella celeberrima romanza! Come si fa a
scrivere simili inettitudini? Che di quell’ammenoché di cui dianzi si è scritto
non si sono da sempre impregnate in notevole misura le religioni tutte, tutte, ovvero
qualsivoglia spirito che dicasi religioso?
giovedì 3 agosto 2017
Lalinguabatte. 36 “ Interessa? “.
Per chi non avesse a mente il
pregevolissimo lavoro cinematografico di Ettore Scola “C’eravamo tanto amati”, lavoro che è memoria di un paese che è
stato e che non c’è più, lavoro che andrebbe recuperato alla memoria collettiva,
“
interessa? “ è la perentoria domanda che un venditore di accendini e di
quant’altre cianfrusaglie poneva agli avventori squattrinati della “ Osteria
della mezza porzione “ in una Roma del primo dopoguerra. Oggi la
domanda dovrebbe essere posta in questi termini: “interessa” sapere cosa
sta avvenendo nel campo della economia globalizzata, della finanziarizzazione
sfrenata, senza limiti, della vita e del destino di milioni e milioni di
inconsapevoli cittadini di questo pianeta chiamato Terra? “Interessa” saperlo, o
risulta meglio ignorare ogni cosa e continuare a credere ciecamente alle false
sirene? False sirene che, nel caso del bel paese, sono impersonate dagli stessi
reggitori della cosa pubblica, o meglio, dai cosiddetti governanti. Ma in un mondo
così complesso, nel quale non riesce facile distinguere i campi che si
contrappongono, le forze oscure che scendono in campo, cosa potranno mai
governare coloro che sono stati chiamati all’arte suprema della politica?
Purché la politica, ovvero l’arte di conciliare interessi diversi e
contrastanti in società estremamente complesse,
sia ancora e rimanga lo scopo principale di quegli uomini e di quelle
donne. Ho ritrovato, tra le mie carte, una interessante riflessione sulla
condizione dei prestatori di manodopera nel mondo della globalizzazione a firma
del professor Umberto Galimberti che ha per titolo “Sul mondo del lavoro“, che di seguito trascrivo: (…).
La
crisi che stiamo attraversando è stata generata dall'economia finanziaria che,
a differenza dell'economia industriale, non ha davanti agli occhi persone in
carne e ossa, biografie, famiglie legate al reddito da lavoro, ma solo flussi
finanziari, che vorticosamente si muovono per creare profitto nel minor tempo
possibile. I rappresentanti di questa economia generalmente non si suicidano o,
se lo fanno, è solo per il loro collasso economico a cui era legata la loro
identità. Nessun pentimento e nessuna considerazione per gli effetti che la
loro brama di denaro ha determinato nella vita reale di imprenditori e di
operai che operano nell'economia industriale, a cui le banche, che parlano più
volentieri con gli operatori della finanza che con gli imprenditori bisognosi
di prestiti, hanno per giunta sottratto ossigeno. A questa considerazione
aggiungiamo il fatto che l'economia da locale o nazionale è diventata globale,
con progressiva perdita delle relazioni umane e anche affettive che sono sempre
esistite tra il datore di lavoro e i suoi lavoratori, quando questi mostravano
competenza, professionalità, attaccamento al lavoro. La globalizzazione ha
portato in primo piano il costo del prodotto che deve essere il più basso
possibile perché l'impresa possa stare sul mercato. Ciò ha comportato la dislocazione
della produzione con conseguente perdita dei legami territoriali che concorrono
a creare e ad alimentare una sorta di familiarità tra imprenditori e
lavoratori. Finanza da un lato e mercato dall'altro hanno portato in primo
piano il valore delle merci e in secondo piano, quando non del tutto
trascurato, il valore degli uomini. Di tutti gli uomini, siano essi
imprenditori o lavoratori. La lotta di classe, che in età umanistica opponeva i
due, come ben descritto da Hegel nella dialettica servo/signore, nell'età della
tecnica finanziaria o mercantile non ha più ragione d'essere, perché sia il
servo, sia il signore si trovano non più contrapposti l'uno all'altro, ma
entrambi dalla stessa parte e hanno come controparte il mercato. Ma che cos'è
il mercato? Non una volontà che si può piegare come in età umanistica era
possibile piegare la volontà del signore, ma una pura e asettica razionalità, a
cui non importa la sorte degli uomini, ma la miglior circolazione delle merci e
del denaro al minor costo possibile. Contro questa razionalità, che ha espulso
qualsiasi considerazione umana, come si fa a opporsi, con quali strumenti e con
quali possibilità di successo? Il suicidio degli operai e (…) degli
imprenditori, oltre alla dimensione tragica di un così drammatico evento, va
considerato anche a livello simbolico, e precisamente come il più evidente
segnale che dice a chiare lettere come nell'età della tecnica, che ha
definitivamente chiuso l'età umanistica, l'uomo non conta più niente, è
qualcosa di antiquato come dice Günther Anders, la cui sorte non interessa
minimamente a quel generatore simbolico di tutti i valori che oggi si chiama
denaro.”
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