“L'abuso di potere” lo
scriveva il 6 di novembre dell’anno 2010 Andrea Manzella, fine
costituzionalista, sul quotidiano la Repubblica: Basta leggere la Costituzione al
semplicissimo art. 54: "I cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche
hanno il dovere di adempierle con onore". Quando, in epoche non sospette,
i giuristi l'hanno interpretato, hanno scritto che "onore" è parola
che riassume le regole di buon costume politico e sociale, le tradizioni di
comune rispetto per le religioni, gli orientamenti sessuali, il colore della
pelle degli "altri". Sono valori che ritroviamo oggi nella Carta dei
diritti fondamentali dell'Unione europea. Violarli significa perciò fare atto
non solo anti-italiano ma anche anti-europeo. Oggigiorno improvvisati
turiferari salmodiano affinché sia garantita “agibilità politica” non
più ad un reo – mai confesso – ma ad un condannato in via definitiva. E l’onore
prescritto dalla Carta? Un appendicolo non richiesto, non necessario. Chi è oggigiorno
disposto a sostenere che l’”onore” richiesto dalla Carta non si
sia sciolto come neve al sole nella tregenda politica del bel paese durante la
quale streghe e stregoni si sono agitati per irridere quasi a quell’”onore”
richiesto per svolgere le “funzioni pubbliche”? Scriveva il
fine studioso: La mancanza del "senso dell'onore" - si scrisse ben prima del
1994 - significa la rottura di "norme di etica politica che non sono
disponibili: nel senso che non possono essere lasciate al libero apprezzamento dei
soggetti politici". Perché appartengono alla dignità non del singolo, che
vi rinuncia, ma della Repubblica che ne è, temporaneamente, rappresentata. E si
scrisse ancora che l'offesa all'"onore" repubblicano si verifica
anche per "ipotesi che riguardano la sfera privata" di chi svolge in
"affidamento" (come dice la Costituzione: cioè non in
"proprietà") funzioni pubbliche. Siamo a rievocare la storia
disdicevole e che ha disatteso l’”onore” richiesto dalla Carta, la
storia di un tempo non ancora remoto ma che sta tutta in quel “doveravatetutti”
che è esercizio di memoria, di responsabilità e di autocoscienza. Andrea
Manzella: (…). …le responsabilità del premier possono essere sanzionate in altro
modo. Dalle viscere della nostra esperienza costituzionale può venir fuori un
altro rimedio per ristabilire il decoro nazionale. Un rimedio che, senza
ricorrere a sentenze di giudici, inibisca, per censura personale all'attuale
premier, la prosecuzione delle sue pubbliche funzioni. È la conventio ad
excludendum, una "convenzione" politica di esclusione. (…). …sarebbe
il riadattamento di quello strumento che per decenni impedì ai comunisti di
partecipare al governo, pur prendendo una marea di voti. Il suo fondamento
costituzionale era nella concezione di democrazia delle libertà che è propria
della nostra Legge fondamentale. Il legame ideologico e organizzativo con
l'impero sovietico negava, di per sé, che questa concezione potesse essere la
stessa. Così il Pci - nonostante il suo decisivo contributo alla approvazione e
alla attuazione della Costituzione repubblicana e alla tenuta degli equilibri
profondi del Paese - era escluso dai governi. Un rifiuto che non si affidò,
come altrove, a clausole di sbarramento elettorale né a decisioni di tribunali
costituzionali. Ma fu un accordo di natura politica, di fatto. Anche l'attuale
premier ha avuto (e probabilmente conserva) una marea di voti. Anche lui vanta
qualche merito politico nel suo passato. Ma oggi la incompatibilità alla
presidenza del consiglio deriva semplicemente dalla abituale trasgressione del
dovere costituzionale d'"onore" nei suoi compiti pubblici.
Trasgressioni che provocano, a catena, sperpero di tempi politici, arresto di
efficacia e di credibilità nell'azione di governo. Un discorso del fine
costituzionalista di tre anni appena addietro, ma dal quale appare evidente
come le lancette della politica del bel paese non si siano mosse da allora di
un tocco che sia. Immobili, in un mondo in vorticoso cambiamento. E che vadano
al diavolo i problemi sociali ed economici del paese! C’è dell’altro su cui
battagliare! La confusione tra libertà e libertinaggio; la contemporanea
rivendicazione di una propria privacy e l'offesa alla "privacy" degli
altri (specie dei minori) con deteriori "stili di vita" propagandati
come esemplari per l'intera Nazione; la palese ansia di complicità e di
connivenze populiste nel banalizzare e normalizzare strappi comportamentali che
nella stragrande parte di mondo non sono né banali né normali. Tutto questo non
è in contrasto con una morale tipizzata o religiosa: è in contrasto con il
laico modo di intendere le pubbliche funzioni nella Costituzione e nell'intera
Unione europea. Non è una condanna moralistica o di costume. Ma una
constatazione oggettiva. Come un macchinista ubriaco non può condurre un treno,
così un premier sregolato non può guidare una Nazione. Nell'un caso e
nell'altro non sono le condizioni personali che preoccupano, ma le loro
ricadute sul diritto della collettività al buon governo della cosa pubblica.
Per questo, un accordo politico di tutti, o della maggior parte di tutti,
troverebbe il suo fondamento costituzionale nella regola che impone un
"onorevole" esercizio delle funzioni della Repubblica. Sarebbe una
sfiducia "personale": ricostruttiva della soglia di decenza della
politica, prima ancora che un accordo su comuni principi di azione pubblica
nell'emergenza. Sarebbe, per singolare contrappasso, una intesa ad personam,
per la prima volta conclusa contro di lui. Ma nel pubblico e non nel privato
interesse. Quali furono le reazioni a cotanto ragionare? E la politica,
ha avuto l’interesse a dibattere argomentazioni di così grande spessore? “Doveravatetutti”
al tempo in cui Andrea Manzella chiamava all’attenzione, alla responsabilità al
rispetto delle norme di etica pubblica non barattabili neppure in nome di una
governabilità scolorita – oggigiorno - e per la quale si invocherebbe la fine
più prossima? Quella mancanza d’”onore”, nella sfera privata come
nella conduzione della vita pubblica, è “cosa” vecchia, ha connotato l’esistenza
e l’azione politica di una parte che, seppur supportata da un copioso suffragio
di voti, non detiene però il potere di scardinare l’assetto fondamentale del
vivere collettivo. È da impedire un’azione così scellerata oggi, come sarebbe
stato necessario fare allora. “Doveravatetutti”? Scriveva, quasi come
in sintonia con Andrea Manzella, il professor Maurizio Viroli – “Repubblicani alle vongole” – su “il Fatto
Quotidiano” del primo di settembre dell’anno 2012: Sostengo ormai da molti anni che
la causa principale dei mali politici e sociali dell’Italia è la carenza di
spirito repubblicano. (…). Spirito repubblicano vuol dire in primo luogo
devozione intransigente al governo della legge, vale a dire al principio che
tutti, governanti e rappresentanti inclusi, devono essere sottoposti alle
medesime leggi (…). Lo spirito repubblicano si distingue poi per il modo di
giudicare le azioni dei politici secondo il criterio che Machiavelli, il più
influente scrittore politico repubblicano moderno, ha sintetizzato con queste
parole: “Le repubbliche bene ordinate costituiscono premii e pene a’ loro
cittadini, né compensono mai l’uno con l’altro” (Discorsi sopra la prima deca
di Tito Livio, I. 24). Voleva dire che quando un cittadino opera bene (ovvero
serve il bene comune) merita plauso e onori, ma se poi il medesimo cittadino
agisce male merita biasimo e sanzioni, e che le buone opere non cancellano la
responsabilità per quelle cattive. (…). Mescolare meriti e demeriti al fine di
attenuare la riprovazione per i secondi è tipico della peggior mentalità
italiana, non certo dello spirito repubblicano. Proprio dello spirito
repubblicano, infine (…) è il netto rifiuto dei privilegi e dei favori che i
potenti dispensano ai loro amici e ai loro clienti. Li considera, a ragione,
aperte ingiustizie e causa di corruzione. (…). Chi conosce lo spirito e il
pensiero politico repubblicani sa che l’istituzione non si identifica con
l’individuo che, per un periodo limitato, la rappresenta e chi critica un
determinato atto del Capo dello Stato non è per questo un nemico della
Presidenza della Repubblica che io considero istituzione benefica e
fondamentale per la salvaguardia della libertà e dell’unità nazionale. Chi
vuole il bene della Repubblica deve fare uno sforzo per recuperare il
significato vero dello spirito repubblicano, non le versioni edulcorate o
sbagliate che circolano presso la pubblica opinione, e pretenderne sempre il
rispetto e soprattutto dalle più alte cariche dello Stato. A chi
affidare l’”onore” della Repubblica sancito nella Carta? Il delirante
dibattito di questi giorni, con stuoli agguerriti di salmodianti e di
infaticabili turiferari, è la annunciata morte dello spirito della Carta e la affermazione
sottaciuta che le “funzioni pubbliche”, nel bel paese, possano essere svolte,
d’ora innanzi e per sempre, anche senza l’“onore” richiesto. A chi l’onere di
un rinnovato “abuso di potere”?
"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
mercoledì 28 agosto 2013
domenica 25 agosto 2013
Cronachebarbare. 19 Nel paese della “quasità”.
Si domanda Chiara Saraceno
nell’editoriale di oggi sul quotidiano la Repubblica – “La democrazia sotto ricatto” -: Perché in Italia, (…), è
possibile che il Paese rimanga appeso ad un ricatto chiaramente irricevibile?
Al di là delle questioni giuridiche (…), proprio le ragioni avanzate da
Berlusconi e i suoi per chiedere, di fatto, l’impunità – l’importanza della sua
figura politica – rendono se possibile più odioso e insopportabile il reato di
frode fiscale, più inaccettabile che possa sedere in Parlamento chi se ne è
macchiato, ed è stato per questo condannato in via definitiva. Perché? Il
perché? È il trionfo della cosiddetta “quasità” – termine tanto caro a
Francesco Merlo - del bel paese. I cittadini del quale si trovano ad essere al
contempo depositari dei destini della democrazia ma in una condizione di
“servitù”. Quasi cittadini, quasi servi. È il paradosso di un paese e di una
società del mondo Occidentale. Scrive ancora Chiara Saraceno: Berlusconi
ha, certo, enormi responsabilità in questa situazione. Ma non è da solo. Il suo
partito e i suoi mezzi di comunicazione gli danno manforte – che si tratti di
falchi o di colombe non importa. Sarebbe facile sostenere che sono tutti al
soldo di Berlusconi e senza di lui non esisterebbero. In parte, per molti o
pochi, è probabilmente vero. È disarmante vedere una intera classe politica e
giornalistica occupata a costruire una narrativa pubblica in cui Berlusconi,
nonostante il suo denaro, i suoi avvocati/parlamentari, le innumerevoli leggi
ad personam, è una vittima della giustizia ed un eroe della libertà, senza la
cui presenza in Parlamento il partito non avrebbe futuro. Non sembrano
accorgersi che in questa narrativa emerge un partito inesistente, una classe politica
che in più di un ventennio non è riuscita davvero ad autonomizzarsi dal proprio
leader. Al punto che, alle brutte, non disdegnerebbe una successione dinastica.
E qui il timore della “quasità” che ha conquistato e
divorato il bel paese affiora nella scrittura della sociologa: Eppure,
faccio fatica a pensare che siano tutti semplicemente dei servitori imbelli e
impauriti. C’è un irridente cinismo, un’operazione sistematica di
delegittimazione dei capisaldi della democrazia – a partire dalla divisione dei
poteri – in direzione di qualche cosa che assomigli ad un populismo
plebiscitario. (…). “Quasità” dalla quale non esce immune nessuna delle
forze politiche che operano nel bel paese. Sostiene quindi Chiara Saraceno: Il
ricatto, (…), ha trovato sponda anche nel timore del Pd di andare alle elezioni
e nella tenace difesa della stabilità a tutti i costi. Incapace (o forse
neppure tanto voglioso) di modificare il Porcellum, timoroso di un nuovo
tsunami elettorale dopo le prove di questi mesi, bloccato su un esasperante
dibattito interno, indebolito da comportamenti non sempre lineari nei confronti
di propri rappresentanti sotto processo, il Pd è direttamente responsabile
della propria ricattabilità – da parte del Pdl, ma anche rispetto alla ferma ed
esplicita moral suasion di Napolitano in nome della stabilità. (…). Comunque
vada a finire, questa vicenda ha consegnato ai cittadini l’immagine non solo di
un governo debolissimo, ma di una classe politica disponibile ad ogni
compromesso per salvare se stessa. Dove i potenti sono più uguali degli altri.
È possibile dare torto a tanto dichiarato sconforto? Sembra fare da controcanto
all’illustre studiosa Giovanni di Lorenzo – direttore del settimanale tedesco
Die Zeit - nell’intervista concessa a “il Fatto Quotidiano” del 17 di agosto a
firma di Mariagrazia Gerina - “Come fa
la sinistra a tollerare l’evasore?” -: “In Germania basta niente per far saltare
una carriera politica, in Italia sembra che niente, neppure una condanna
definitiva, possa rovinarla. (…). Al netto dei nostri moralismi che a volte
sono veramente eccessivi, la domanda che tutti ci facciamo è: ma come fanno in
Italia a sostenere ancora uno che è appena stato condannato in ultima istanza?”
(…). Ecco, per l’appunto, come si fa? Come è possibile impantanare un
intero paese su di una questione prettamente personale e da codice penale? Nel
paese della “quasità” è possibile. Ce ne rende ragione e ne da contezza il
Direttore nel corso della intervista: “Quello che state vivendo è un momento
cruciale: sospeso tra la svolta decisiva verso il ritorno della normalità e il
disastro finale” (…).
Che cosa ha scoperto alla fine
della sua indagine? “Che i sostenitori di Berlusconi, persone anche molto
simpatiche e amabili, semplicemente negano e continuano a negare non solo
quello per cui Berlusconi è stato indagato ma anche quello per cui è stato
condannato. A Capalbio, ne ho incontrati parecchi. A me veniva da guardarli
come fossero dei marziani. Ma, con la libertà del buffone di corte, mi sono
messo a fare tutte le domande che volevo. E ho capito. Tutto quello di cui
Berlusconi è accusato per loro non esiste. Lo negano e basta. Per loro è tutta
una congiura. E una convinzione di questo tipo non c’è modo di smontarla”.
Ha provato? “Sì, ma non c’è
verso. La teoria della congiura non prevede argomenti contro. Qualsiasi
elemento di ragionamento tu possa utilizzare è incapace di scalfirla. Anzi,
diventa la dimostrazione più evidente della congiura in atto”.
Una forma di paranoia collettiva?
“Assolutamente sì. Quello che mi sorprende di più è la concezione dello Stato
che accomuna Berlusconi ai suoi sostenitori. Per lui è lo Stato che deve
adeguarsi alle sue necessità e ai suoi interessi, non l’opposto. Una visione
che per noi in Germania è assolutamente inconcepibile”.
Cos’altro l’ha colpita? “La più
totale sfiducia in qualunque partito tradizionale. Talmente diffusa che un
principio di delusione si percepisce ormai persino nei confronti dei
Cinquestelle. La convinzione che affligge gli italiani è: tanto sono tutti uguali.
E questo è il contrario della politica. Il pensiero politico coglie le
differenze, quello apolitico tende alle generalizzazioni”.
Vent’anni di berlusconismo ci
hanno reso un popolo apolitico? “Non lo so, però questo atteggiamento,
largamente diffuso, è pericolosissimo. E lo vedo rispecchiato anche nel
dibattito televisivo. Per noi difficile da capire tutto questo. Come parecchie
altre cose”.
Quali? “L’età media della vostra
classe politica, i rituali di certe trasmissioni come Porta a Porta, il parlarsi
addosso della stampa italiana, spesso per quanto riguarda la politica
incomprensibile, in un momento così drammatico”.
Come immagina che possa finire?
“Non lo so. Per noi il ricatto al presidente della Repubblica – o arriva la
grazia per Berlusconi o facciamo cadere il governo – sarebbe impensabile. Una
cosa però mi sento di prevederla”.
Prego. “Temo che per la sinistra
italiana non finirà bene. Il fatto che anche quando è andata al governo non sia
riuscita ad arginare Berlusconi è l’altra parte dell’anomalia italiana. I miei
vicini d’ombrellone che votano per il Partito democratico non facevano altro
che dire: guarda come si sta sputtanando il Pd. Questo governo, già così,
sembra che stia in piedi in funzione del Pdl che pure ha perso le elezioni. Per
il Pd non può che finire male. E questo lo dico anche in base all’esperienza
tedesca: i governi delle larghe intese fanno male alla sinistra”. La
realtà corre veloce. Questa intervista è solamente di otto giorni addietro. La
crisi è nell’aria, se non dichiarata la si percepisce. L’irricevibile – almeno
a parole, chissà nei fatti futuri - richiesta dell’egoarca di Arcore da parte
delle sedicenti forze politiche delle “larghe intese” porterà alla fine del
governo del presidente? Non era prevedibile un epilogo simile? Ed i grandi
strateghi della politica dove sono finiti? Penso che il grande responsabile di
questa situazione sia da ricercare nell’abitatore provvisorio dell’irto colle.
Ha voluto ed imposto una soluzione che stava fuori da ogni logica democratica,
e dai risultati elettorali. Con il ricatto della sua non ricandidatura al colle.
Se ne parlerà di tutto ciò nella cosiddetta “sinistra” o anche questo sarà
divorato e sommerso dalla “quasità” del bel paese? Come non
aver visto che quella esperienza di governo era l’utilitaristica manovra – per
il Pdl, il “Partito di lui” - per una salvacondotto da ottenere a condanna
preventivata ed avvenuta? “Come fa la sinistra - quella
politica dell’”antipolitica” al potere - a tollerare l’evasore?”. Nel paese
della “quasità” è possibile essendo anche quelli della cosiddetta
“sinistra” – per come scrive Chiara Saraceno – “una classe politica disponibile
ad ogni compromesso per salvare se stessa”.
giovedì 22 agosto 2013
Capitalismoedemocrazia. 38 Capitalismo e “pesce persico”.
Non fatevi fuorviare dal titolo
che è “L'incubo di Darwin”. Del
grande di Shrewsbury non vi è traccia. Come non vi è traccia del capitano
Robert Fitzroy che era al comando della nave Beagle sulla quale quel grande,
giovanissimo, s’imbarcò. Non impegnatevi ad immaginare mondi lontani e
lussureggianti, terre inesplorate abitate da iguane giganti, varani ed uccelli
esotici dai becchi particolari che ne segnano il destino in Natura. Niente di
tutto questo. “L'incubo di Darwin” -
titolo originale “Darwin's night” – è un lungometraggio dell’anno 2004. È del
genere documentaristico, per la regia di Hubert Sauper. Presentato al Festival
del Cinema di Venezia nell’anno 2004 è riuscito ad approdare nelle sale il 10
di marzo dell’anno 2006. Un viaggio lungo, quello del film-documentario, due
anni appena, molto di meno dei cinque anni occorsi al Beagle per scandagliare le
rotte marinare della imperiale flotta britannica. Nel mentre il giovanissimo Charles
Robert Darwin scandagliava ed illuminava i segreti della Natura. Niente di
tutto questo. Di quel genio e benefattore dell’umanità tutta sopravvive, nel
film-documentario, l’inverata convinzione che solamente l’azione molesta e
perturbatrice dell’uomo ha il potere di sovvertire le sempiterne leggi della Natura.
Donde ne deriva “l’incubo” rivelatore. Quel film-documentario è passato nei
giorni appena trascorsi sulle emittenti RAI – RAI 5 -. Onore e merito al
servizio pubblico. Il resto della televisione è il nulla. Ne viene fuori questo
post, “Capitalismo e pesce persico”, per l’appunto. La storia narrata dal
regista non è di recente origine. Qualche tempo addietro una campagna in voce
ed in rete invitava a non consumare il pesce persico. Come mai? Il luogo del
misfatto è il Lago Vittoria, Tanzania, Africa, che non è solamente il più grande
lago tropicale del mondo ma possedeva – già possedeva - anche una biologia molto
particolare, almeno sino all’anno 1954. È da quella – forse presunta – data che
le cose cambiano improvvisamente per quel lago con la comparsa di una
voracissima specie, il cosiddetto “pesce persico”. Una catastrofe
ecologica! La ricca fauna lacustre viene decimata ed il predatore si ritrova ad
essere l’incontrastato dominatore del lago ed il nuovo pilastro dell'economia
locale. E l’eutrofizzazione delle acque conseguente? Il “pesce persico” sì, lo
conosciamo, direte voi, ma il capitalismo che ci azzecca? Piano. Fioriscono oltre
misura la pesca e la lavorazione nel luogo del pescato che con la esportazione
regoleranno d’ora in poi la vita di quegli uomini e di quelle donne. La vita
miserrima di uomini e donne. Gli europei, i russi e, a volte, anche gli
americani ogni giorno affollano, con i loro potenti aerei, il piccolo aeroporto
per caricare le tonnellate di filetti del gustosissimo pesce. Viene spontanea
la domanda: considerato il gran successo del “pesce persico” sulle
tavole del mondo ricco, industrializzato e progredito, per qual motivo la
popolazione locale vive in una condizione di indigenza totale? È un arcano. Ma
non tanto. Il pregio del film-documentario, passata la delusione iniziale
indotta dall’intrigante titolo, viene allo scoperto: come sono pagati i carichi
di pesce spediti nelle ricche regioni del mondo? Dalla indagine
documentaristica condotta dal regista viene fuori una realtà terrificante:
l’improvvisa comparsa del predatore non solo ha distrutto l’ecologia del grande
lago ma ha operato, negativamente, anche sulla popolazione che ha dovuto
contare innumerevoli morti tra i pescatori e tra gli addetti alla lavorazione
del pescato. Ma, come un’ondata devastatrice, la nuova realtà socio-economica
ha provocato ed indotto un incremento della prostituzione – con il commercio
del sesso tra i piloti e le donne del luogo rimaste sole, a seguito dei decessi
dei mariti, quale unico sostentamento delle famiglie - e una conseguente
diffusione dell'HIV e dell'AIDS. E dei costosissimi, prelibati filetti di “pesce
persico” ben lavorati e saporiti? Viaggiano verso altri luoghi dorati
(le teste e le lische scarnificate rimangono sul luogo e consumate fritte). Ed
il capitalismo? Il capitalismo svolge, anche in questa occasione, la parte di
sempre. I suoi aerei – amara scoperta - non arrivano mai vuoti ma sovraccarichi
di altre primizie: kalashnikov, munizioni, addirittura carri armati che vanno a
rifornire gli incalcolabili focolai di guerra sparsi per tutta l'Africa. E su
quelle guerre fratricide il capitalismo detta le sue regole: spoliazione di
quella ricchezza nuova, asservimento ai propri disegni delle autorità corrotte,
sottomissione economica e finanziaria di quel subcontinente con emarginazione e
morte per le inermi popolazioni coinvolte. “Divide et impera”. È la dura legge
del mercato, alla quale la politica si è arresa non riuscendo ad indirizzarla
verso più responsabili impieghi sociali. È da decenni che quelle terre sono nel
mirino del capitalismo rampante. La Cina post-comunista è divenuta potenza
d’occupazione di terre vastissime in quella parte di mondo, che sfrutta con impianti
agricoli che garantiscano ai suoi cittadini quei prodotti introvabili e non ottenibili
sui propri suoli. È il salto di censo e di gusto dei capitalisti cinesi
post-comunisti! Ed il capitalismo? Ed il cristianesimo? E del rapporto
capitalismo-cristianesimo? Cerco una risposta che non ho. Ma ritrovo il già tante
volte citato Giorgio Agamben – “Benjamin
ed il capitalismo” -: Se il capitalismo è una religione, come
possiamo definirlo in termini di fede? In che cosa crede il capitalismo? (…). David
Flüsser, un grande studioso di scienza delle religioni – (…) – stava lavorando
sulla parola pistis, che è il termine greco che Gesù e gli apostoli usavano per
“fede”. Quel giorno si trovava per caso in una piazza di Atene e a un certo
punto, alzando gli occhi, vide scritto a caratteri cubitali davanti a sé
Trapeza tes pisteos. Stupefatto per la coincidenza, guardò meglio e dopo pochi
secondi si rese conto di trovarsi semplicemente davanti a una banca: trapeza
tes pisteos significa in greco “banco di credito”. Ecco qual era il senso della
parola pistis, che stava cercando da mesi di capire: pistis, “fede” è
semplicemente il credito di cui godiamo presso Dio e di cui la parola di Dio
gode presso di noi, dal momento che le crediamo. (…). Creditum è il participio passato del verbo latino credere:
è ciò in cui crediamo, in cui mettiamo la nostra fede, nel momento in cui
stabiliamo una relazione fiduciaria con qualcuno prendendolo sotto la nostra
protezione o prestandogli del denaro, affidandoci alla sua protezione o
prendendo in prestito del denaro. (…). …secondo Benjamin, il capitalismo è una
religione in cui il culto si è emancipato da ogni oggetto e la colpa da ogni
peccato e, quindi, da ogni possibile redenzione, così, dal punto di vista della
fede, il capitalismo non ha alcun oggetto: crede nel puro fatto di credere, nel
puro credito (believes in the pure belief) – cioè: nel denaro. Il capitalismo
è, cioè, una religione in cui la fede – il credito – si è sostituita a Dio:
detto altrimenti, poiché la forma pura del credito è il denaro, è una religione
il cui Dio è il denaro. Ciò significa che la banca, che non è nient’altro che
una macchina per fabbricare e gestire credito (…), ha preso il posto della
chiesa e, governando il credito, manipola e gestisce la fede – la scarsa,
incerta fiducia – che il nostro tempo ha ancora in se stesso. Se il “denaro”
è da sempre il dio del capitalismo, irrilevanti per esso sono e saranno le
sorti degli uomini e delle donne di questo pianeta chiamato Terra. E della “cristianizzazione”
dell’Occidente opulento? Scrive Agamben: l’ipotesi di Benjamin di uno stretta
relazione fra capitalismo e cristianesimo riceve una conferma ulteriore: il
capitalismo è una religione interamente fondata sulla fede, è una religione i
cui adepti vivono sola fide.
domenica 18 agosto 2013
Capitalismoedemocrazia. 37 Milton Friedman ed il mercato dell’ortofrutta.
Faccio un giro largo – e
possibilmente basso - per proporre la lettura di un pezzo forte che ha per
titolo – chilometrico - “Solo frutta per
ricchi o low cost così anche i banchi del mercato raccontano la fine del ceto
medio”. Ché, detta così, è quanto di meglio si possa pensare e dire
sull’appiattimento sociale che nei decenni passati aveva illuso i più.
Scomparsa delle classi sociali, tutti a banchettare allegramente. Mi aiuta a
fare quel giro largo – e non sempre basso - Giorgio Agamben con quella Sua
riflessione postata sul sito “Lo straniero” del 29
di aprile 2013. Titolo di quella riflessione “Benjamin e il capitalismo”. Scriveva Giorgio Agamben: Una
società la cui religione è il credito, che crede soltanto nel credito, è
condannata a vivere a credito. Robert Kurz ha illustrato la trasformazione del capitalismo ottocentesco,
ancora fondato sulla solvenza e sulla diffidenza rispetto al credito, nel capitalismo
finanziario contemporaneo. “Per il capitale privato ottocentesco, con i suoi
proprietari personali e con i relativi clan familiari, valevano ancora i
principi della rispettabilità e della solvenza, alla luce dei quali il sempre
maggior ricorso al credito appariva quasi come osceno, come l’inizio della
fine. (…). Il capitale produttivo di interessi era naturalmente fin dall’inizio
indispensabile per il sistema che si stava formando, ma non aveva ancora una
parte decisiva nella riproduzione capitalistica complessiva. Gli affari del
capitale ‘fittizio’ erano considerati tipici di un ambiente di imbroglioni e di
gente disonesta, al margine del capitalismo vero e proprio… (…). Nel corso del
XIX secolo, questa concezione patriarcale si è completamente dissolta e il
capitale aziendale fa oggi ricorso in
misura crescente al capitale monetario, preso in prestito dal sistema bancario.
Ciò significa che le aziende, per poter continuare a produrre, devono per così
dire ipotecare anticipatamente quantità sempre maggiori del lavoro e della
produzione futura. Il capitale produttore di merci si alimenta fittiziamente
del proprio futuro. La religione capitalista, coerentemente alle tesi di
Benjamin, vive di un continuo indebitamento, che non può né deve essere estinto.
Ma non sono soltanto le aziende a vivere, in questo senso, sola fide, a credito
(o a debito). Anche gli individui e le famiglie, che vi ricorrono in maniera
crescente, sono altrettanto religiosamente impegnati in questo continuo e generalizzato atto di
fede sul futuro. E la Banca è il sommo sacerdote che amministra ai fedeli
l’unico sacramento della religione capitalista: il credito-debito. Sin
qui Giorgio Agamben. È un volare alto il Suo. Dottrinale. Che coglie nel
profondo le ragioni e l’essenza delle cose che muovono l’economia degli umani.
Ben diverso è l’approccio di Federico Fubini che sul quotidiano la Repubblica
di oggi - 18 di agosto - ha esplorato molto elementarmente – ma competentemente
– le questioni dell’economia
globalizzata. Protagonista della Sua scrittura un Nobel dell’economia, Milton
Friedman. Il “pezzo” di Federico Fubini ha il pregio raro della semplicità e
della facile comunicazione anche dei problemi più complessi. Da tempo ne
apprezzo la competenza e lo stile. Scrive Federico Fubini: (…). …Friedman pensava che l’uomo
è un animale razionale, le cui scelte economiche sono dettate da un innato
talento nel perseguire il proprio interesse. Per questo — sosteneva — un
mercato lasciato a se stesso può rasentare la perfezione: un prezzo è sempre
“giusto”, una sintesi di domanda, offerta e di tutte le informazioni che le
influenzano. Poi però magari Friedman avrebbe dovuto comprare un chilo di
carote al mercato di via San Marco a Milano, un lunedì mattina. È in zona
Brera, l’area più ricca della capitale finanziaria e commerciale d’Italia. E lì
le carote vengono 2,90 euro al chilo. Invece quattro fermate di metropolitana
più in là in viale Papiniano — un quartiere del ceto medio — il prezzo delle
carote al mercato rionale crolla a 99 centesimi al chilo. In cinque minuti
trascorsi sui mezzi pubblici, un viaggio sulla linea verde del metrò dai ceti
abbienti alle classi medie di Milano, la quotazione collassa di due terzi. Si
può tentare poi anche un terzo viaggio: sempre partendo dal centro, fermata Turati
non lontano da San Marco, si percorre un tragitto di nove fermate e undici
minuti di metrò lungo la linea gialla fino al mercato di Corvetto, un quartiere
decisamente meno benestante. Lì le carote si trovano a 65 centesimi al chilo. In
sintesi, dall’apice fino alla metà della scala sociale dell’ortofrutta c’è un
brusco precipizio, seguito da un graduale declino dalla metà in giù. La carota
del ceto abbiente costa circa il triplo di quella del ceto medio; invece la
carota del ceto medio costa mezza volta più di quella delle classi che un tempo
si definivano, pudicamente, popolari. E qui all’analisi competente di
Federico Fubini subentra la cronaca che l’Autore coscienziosamente riporta: «La
frutta discreta non si vende più: i prezzi sono alti oppure popolari», osserva
Salvatore Esposito, un ambulante di 34 anni che il lunedì tiene il banco in San
Marco e il martedì in Corvetto. (…). «In centro in questi anni i prezzi hanno
tenuto — constata —. È nei mercati di periferia che sono scesi». Dunque Friedman
ha ragione, e la deflazione a macchia di leopardo nei rioni di Milano è davvero
“razionale”? (…). …gli economisti non fanno mancare una teoria per spiegare le
discrepanze in apparenza inconciliabili; di recente l’ha esposta il
neo-governatore della National Bank of India, Raghuram Rajan: un prezzo alto
funziona non solo perché risponde alla domanda, ma perché racconta qualcosa di
te. Se spendi molto quando potresti spendere meno, stai dicendo al mondo che
sei ricco e quello che compri è il prodotto migliore. Un grande banchiere comprerà
un prezioso orologio meccanico fatto a mano, anche se magari non segna l’ora
più esattamente di un modello al quarzo da venti euro. E un investitore che si
muove con il gregge punta su un titolo azionario sopravvalutato dopo mesi di
rialzi, non su uno ai minimi. Se quel che è vero in Borsa resta vero fra i
banchi ortofrutticoli, le differenze di prezzo lavorano sottilmente la mente
delle signore abbronzate e ingioiellate che passeggiano fra i banchi di San Marco.
Diffiderebbero delle stesse carote, se costassero la metà. Questo forse spiega
perché dopo due anni di recessione italiana la gran parte dei clienti di Brera
continuino a evitare quei cinque minuti di metrò fino a Papiniano che
permetterebbero loro di spendere meno della metà. Se il mercato ha sempre
ragione e i suoi attori agiscono razionalmente, alla Friedman, allora non
prendono il metrò perché inconsciamente hanno fatto i conti fra costi e
opportunità: stimano che nel tempo necessario per il tragitto perdono l’occasione
di guadagnare più di quanto risparmierebbero comprando la frutta a Papiniano.
Ma forse il mercato è fallibile, può prendere abbagli come gli uomini che lo
animano. È la teoria di Roman Frydman, un economista della New York University.
Le persone usano il loro denaro con “conoscenza imperfetta”, senza avere tutte
le informazioni rilevanti per prendere le migliori decisioni. Non siamo robot.
Così è fallita Lehman Brothers e così le famiglie ricche del centro di Milano
pagano le carote il triplo anche se non sono tre volte migliori. Semplicemente,
non hanno capito che a cinque minuti di metrò più in là pagherebbero meno.
Detto altrimenti, i diversi ceti di Milano non si accorgono gli uni degli altri
mentre vivono negli stessi spazi. Interessante vero? È che chi continua
a comprare in quel di San Marco a Milano della “crisi” se ne fa un
baffo. È il caso di dire, avendo parlato diffusamente d’ortofrutta, che quella
gente lì non è “alla frutta”. Lo è, ma non solamente “alla frutta”, tutto il
resto della popolazione che ha visto sgonfiarsi, come d’incanto, il ventre
molle e ben pasciuto negli anni passati
del “ceto
medio”. Scomparso, giunto oramai all’economico piatto di maccheroni.
Come al tempo della guerra. Perché mai quell’iniziale, vizioso giro lungo? Per dire
che un tempo anche quelli del “ceto medio” e dintorni sono stati “religiosamente
impegnati in questo continuo e
generalizzato atto di fede sul futuro”. Quale “atto di fede”? “Il
credito-debito”, con buona pace del futuro dei figli e delle
generazioni a venire. E la sapienza del mercato e dei suoi attori? Nella cronaca
che chiude il “pezzo forte” di Federico Fubini – Autore da leggere sempre con
attenzione - si parla dei sempre più numerosi signori e delle sempre più
numerose signore della Milano bene che al termine del mercatino rionale
dell’ortofrutta accorrono a rovistare tra le rimanenze se non addirittura tra
gli scarti di giornata. Non dovrebbe rappresentare tutto ciò la fine del
capitalismo finanziario che ha governato le nostre vite? Che ha depredato il
futuro dei nostri figli?
martedì 13 agosto 2013
Cosecosì. 59 L’insostenibile leggerezza della “quasità”.
E poi c’è quella straordinaria idea
della “quasità”. Un’invenzione che non ha pari. Roba da genio. L’ho
incontrata, la “quasità” di Francesco Merlo, leggendo il Suo straordinario
“pezzo” sul quotidiano la Repubblica dell’8 di agosto. Una folgorazione
linguistica. Titolo del pezzo “Pedoni”.
Ma è stata la “quasità” a catturare la mia mente. Nulla può rappresentare al
meglio lo stato di un paese e di un popolo che quel lemma, che è un dono della
scrittura di Francesco Merlo. Da rimanerne conquistati. In quella “quasità”
c’è l’italica concezione della vita, della politica e di tutto ciò che afferisce
alla vita collettiva del bel paese. È come dire che un popolo è quasi ricco ma
anche quasi povero. È, quel popolo, quasi felice ma anche quasi triste. È dire
che quel popolo è fatto di quasi cittadini ma anche di quasi servi. La “quasità”
è dire tutto ed il contrario di tutto. Scrive infatti Francesco Merlo: (…).
…la quasità come destino dell’Italia, quasi potenza, quasi industriale, quasi
bella, quasi moderna, quasi vincente come il Pd. E dunque, come il famoso
‘quasi gol’ di Nicolò Carosio, c’è anche il ‘quasi pedone’. Ed è a
questo punto che la scrittura di Francesco Merlo, che ha quasi del musicale
nella sua tessitura, affronta l’argomento del pezzo. I “pedoni”, per l’appunto.
Ne scrive in questi termini: Il pedone è il passante abituale, è don
Abbondio che “tornava bel bello dalla passeggiata verso casa”. Il pedone è
Manzoni a passeggio per Milano con Vincenzo Cuoco: “adescati dalla dolcezza dei
colloqui, il Cuoco si fermava lungamente alla porta di lui, ed esso lo
riaccompagnava a casa sua, e il Cuoco daccapo gli teneva dietro per
riaccompagnarlo a sua volta”. Il pedone è Kant che voleva “respirare solo con
le narici e criticare, passeggiando solitario, la ragion pura”. Il pedone è la
filosofia dei peripatetici greci, il pedone è la civiltà occidentale. Nella
“quasità”
del bel paese anche la dolce arte del camminare è andata perduta. La gente non
cammina più. Corre. O, se non corre, percorre gli spazi come in preda ad una
ossessionante fretta. In città come al mare. Ovunque. Sono solito rispondere, a
coloro che mi consigliano d’affrettare il mio passo, d’essere impegnato in una
passeggiata. Preciso, una “passeggiata zen”. Riesco così a rubare un sorrisetto
al mio interlocutore. Ne sarà rimasto felicemente sorpreso? O piuttosto mi
compatirà? Non m’importa. Poiché il camminare è esercizio che coinvolge tutto
l’essere che lo compie. Trovo pertanto incomprensibili coloro che, intenzionati
ad essere pedoni, si tappano le orecchie con modernissimi strumenti d’ascolto.
Cosa ascolteranno? Musica? O la cacofonia dei programmi radio? Specialmente nel
periodo estivo che rappresenterebbe la vacanza anche del pensiero? E così
staccano una parte del loro corpo, quella superiore per intenderci, ché
dovrebbe essere anche la più nobile, da tutto il resto, cuore, polmoni,
muscoli, rompendo un’unità ed un’armonia che andrebbe invece salvaguardata. Per
non dire della barriera che così interpongono con l’ambiente esterno? Con la
musica “sparata” nelle orecchie, riusciranno ad ascoltare il sibilo dell’aria appena
“solcata” che diviene tenue venticello? Ascolteranno la musica emessa dal
frangersi delle onde del mare, per non dire poi, “pedonando” – mi si lasci
passare il neologismo – in un bosco, lo stormire delle foglie o il dolcissimo
canto degli abitatori di quei luoghi? È che, nella grande bruttezza dei tempi,
sarebbe stato impensabile che si salvasse l’umile arte del camminare. Sostiene
Francesco Merlo: E invece il pedone, che si perde e si ritrova nel colore di un mattone
o di una soglia, sacerdote delle petites rues che abita come una casa,
detective della strada raffinata o capricciosa o morbosa, il flaneur insomma è
l’utopia necessaria e urgente delle estenuate città storiche in cerca di un
nuovo Rinascimento: “io prendo Venezia a timone” diceva Le Corbusier che già
sognava di separare macchine e pedoni. Come l’Umanesimo, creando spazi e
pavimenti e piazze, portò fuori dalle anguste vie tortuose dei secoli bui
Firenze, Anversa e le città anseatiche, Norimberga, Siviglia…e, nel piccolo,
Pienza e Montepulciano, così oggi solo le metropoli che liberano i luoghi della
storia dal nuovo Medioevo delle macchine possono vincere la scommessa con la
sopravvivenza. Manca la consapevolezza che soltanto ritornando alla
“passeggiata zen”, durante la quale si ascolta il proprio corpo ed il proprio
animo e tutto quanto il creato ha messo attorno a noi, si potrà invertire il
corso del “nuovo Medioevo delle macchine” e
carezzare, in pari tempo, una speranza di “sopravvivenza”. “Il pedone è la civiltà
occidentale”. A saperlo. Tutto il resto è nella “quasità” di questo
triste paese.
martedì 6 agosto 2013
Cronachebarbare. 18 “La maschera della legalità”.
Siamo al delirio. Sedicenti
ministri che affollano i corridoi della regia residenza per rassegnare le
dimissioni, o per dare la disponibilità alle dimissioni, direttamente nelle
mani dell’egoarca di Arcore. Ma non hanno giurato sulla Costituzione alla
presenza del capo dello Stato? Siamo allo stato di monarchia assoluta. Ed i
fautori delle larghe intese perché oggigiorno se ne fanno meraviglia? Minaccia
l’egoarca di Arcore di preferire d’essere arrestato. Benissimo. Ignora ch
esiste pure un giudice di sorveglianza il quale qualora non lo ritenesse
pentito abbastanza della truffa perpetrata ai danni del popolo italiano lo
manderà direttamente in galera, altro che domiciliari o servizi sociali. Ignora
tutto questo. Eppure il suo partito, sotto il governo del dottor Monti, ha
votato la norma in vigore. Ed allora, perché tanto schiamazzo? Se c’è un
giudice di sorveglianza a Milano che voglia applicare la legge lo spedirà
direttamente in galera, accontentandolo così. E poi? Ci saranno sommosse e
barricate? Staremo a vedere. È pur vero che l’inquilino dell’irto colle sembra
abbia presa a cuore la questione. E questo è proprio un brutto segno. Si chiede
oggi sul quotidiano la Repubblica Guido Crainz: Occorre (…) chiedersi: c’è
un’Italia che ha saputo tenere realmente il campo e contrapporsi ad una
“pedagogia” berlusconiana intrisa di disprezzo per lo Stato (per le regole
fiscali come per l’istruzione pubblica, per la magistratura come per ogni
valore e bene collettivo)? Quella “pedagogia” ha trovato di fronte a sé, contro
di sé, un’altra e opposta “pedagogia”, un’altra Italia? L’ha trovata nella
politica? L’ha trovata nella società civile? C’è stata un’Italia che
nel ventennio si sia opposta? È la domanda di Crainz. Certamente a livello di
società civile. Molto meno in altri ambiti. E quella parte di società civile
che ha fatto opposizione a prescindere, tacciata di antiberlusconismo come
malattia infantile della politica, quella società civile ha meritato anche
l’attenzione e gli insulti del condannato S. B., e non solo. Scrive infatti
Guido Crainz: Troppo poco, occorre dire, altrimenti non saremmo arrivati a questa
barbarie, a questa diffusa indifferenza verso l’eversione quotidiana. Da questa
consapevolezza occorre prender avvio se vogliamo trovare una leva per
ripartire. Il baratro che si è rivelato per intero in questi giorni ci fa
comprendere che sarà impresa difficile, se non difficilissima, e di lunghissimo
periodo. E che ci riguarda tutti: nella stagione di Berlusconi la devastazione
delle regole ha fatto passi da gigante nell’insieme della società, non solo nel
Palazzo, e anche lì va contrastata con una forza e con una decisione che sin
qui sono apparse solo in parte. La necessaria inversione di tendenza riguarda
naturalmente, in primissimo luogo, la politica. Prima ancora della condanna di
Berlusconi la finzione delle larghe intese è stata lacerata in via definitiva
dal centrodestra, dalla sua estraneità dichiarata alle regole costitutive di
ogni patto: ogni sua rassicurazione è stata ed è un’ingannevole cortina
fumogena volta a guadagnar tempo. Ad attendere il momento migliore per andare
all’offensiva, e a quel punto alla disperata. Ed a proposito di “pedagogia”
e di “devastazione
delle regole” dalla “discesa in campo” in poi, ne è
ricchissima la “letteratura” politica, sol che la si sia e/o la si voglia leggere
con attenzione. Risale al 15 di maggio dell’anno 2010 l’interessante, speranzosa
al tempo, analisi del politologo Carlo Galli pubblicata sul quotidiano la
Repubblica col titolo “La maschera della
legalità”. Scriveva in quel tempo che appare remoto Carlo Galli: È
l´identificazione fra il leader e la sua gente a spiegare come sia stato e sia
possibile che gli interessi personali e settoriali di una sola persona e della
sua cerchia siano presentati (e percepiti) come interessi di tutti - si pensi
alle esigenze processuali del Cavaliere, di cui si è cercata la soluzione con
il "processo breve"-; e come il plusvalore ideologico
dell’antipolitica, incarnata dal superpolitico Berlusconi, abbia chiuso gli
occhi di tanti suoi elettori davanti ai suoi insuccessi, e agli scandali che da
ogni parte occupano ormai la scena pubblica (fino a quando non ne sarà punita
per legge la divulgazione). Ora questa magia - questa proiezione collettiva -
sta finendo. Già intaccata - come si è visto nelle recenti elezioni regionali -
dagli scandali personali della scorsa estate e dalla prima ondata
dell´inchiesta sul G8, la credibilità politica di Berlusconi rischia di subire
un duro colpo dall’emergere di un meccanismo di corruzione e di favoritismi che
non è più spiegabile, come pure si è tentato di fare, con la teoria della mela
marcia o della pecora nera, ma che assume, con ogni evidenza, carattere
sistemico. Non è certo l’antica corruzione: quella aveva il suo perno e i suoi
attori principali nei partiti; questa invece vede protagonisti gli affaristi, i
costruttori, gli appaltatori, che hanno rovesciato i rapporti di forza rispetto
ai singoli politici, che sembrano coinvolti assai più a titolo personale che
per finalità di partito. (…). Consapevole del pericolo che si parli di una
"casta" berlusconiana sottratta alle leggi ordinarie - e anche
dell’aggravante costituita dalla circostanza che la corruzione riguarda le
case, il bene più caro agli italiani, per il quale le persone comuni si
sacrificano per lunghi anni - Berlusconi riscopre ora la legalità e la
normalità; che non appartengono certo al suo usuale repertorio politico e che
paiono giustificate solo dall’esigenza di recuperare consenso e di stringere
nuovamente il patto antipolitico con la sua gente, anche contro i
"suoi" politici. Legalità non come filosofia politica, quindi, ma
come ultimo espediente del populismo, come ultima paradossale risorsa del
leader carismatico. Tutto ciò è stato scritto il 15 di maggio dell’anno
2010. A
tutt’oggi ci si ritrova a parlare sempre delle stesse cose, ad affrontare i
problemi giudiziari di un tizio come problemi dell’intera società civile del
bel paese. Di chi la responsabilità? Innanzi tutto dell’”antipolitica” al
potere che nel disdicevole vivere nell’era dell’egoarca di Arcore non ha
trovato la compattezza e la forza – non avendo orgoglio alcuno – di non
reggergli più il sacco. Altro che “bicamerale” e “larghe intese”! Idiozie
allo stato puro dei signori di una sedicente opposizione – quando ha fatto
finta di fare opposizione -! Oggi se ne pagano amaramente le conseguenze. Ed i
signori delle “larghe intese” proveranno ancora la riforma costituzionale con
tali figuri? Scrive sempre Guido Crainz nella Sua analisi: Negli ultimi mesi e anni ci
avevano detto qualcosa di importante anche i tratti nuovi della corruttela, il
salto di qualità rispetto a Tangentopoli: il prevalere della corruzione
“privatistica” su quella che ancora si appellava ad esigenze di partito,
l’assenza persino di giustificazioni ideologico- politiche, l’assuefazione al
congiunto operare di arricchimento illecito e di eversione delle regole della
democrazia. (…). Rispetto a vent’anni fa, (…), è mutata la forma di autodifesa dei
leader: così fan tutti, diceva Craxi, e invocava un’autoassoluzione collettiva.
Così faccio io e mi proclamo innocente, ha gridato dal palco abusivo davanti
casa Silvio Berlusconi. Io, unico potere legittimo perché eletto dal popolo:
non essendo stata eletta, la magistratura non è un potere dello Stato. E il
potere giudiziario, di grazia, chi lo dovrebbe esercitare? La cuoca di Arcore?
Appare chiaro da tempo che Tangentopoli fotografa solo una fase di passaggio,
non il culmine di un percorso iniziato negli anni Ottanta: segnala un’occasione
perduta di Ricostruzione, di riconquista delle ragioni del nostro essere
nazione. Solo la prima tappa del pessimo cammino che ci ha portati sin qui. Siamo
all’eversione. E qualcuno si ostina a vedere una luce in fondo al tunnel. Si
chiami d’urgenza l’oculista.
Iscriviti a:
Post (Atom)