L'amore fa paura. Perché è
enormemente sopravvalutato come soluzione alla solitudine, Perché implica
mettersi in gioco, perché si pensa che si potrebbe soffrire troppo se l'altro
ci lasciasse (…). Paura è il nome che diamo alle nostre incertezze, alla nostra
insicurezza che proiettiamo sull'altro, che facciamo diventare un nemico
pericoloso. Allora sogniamo amori idealizzati e perfetti, fuori dal reale;
oppure scegliamo persone sbagliate per continuare a emozionarci pur rimanendo
autonomi. Alcune persone hanno paura della vita e si mettono in due per
proteggersi da essa, altri temono l'amore e si accontentano di rapporti
distanti, formali, di facciata, in cui si rimane uguali a se stessi. In cui non
si chiede né a sé né all'altro di mettersi in gioco nel rapporto. È proprio per
questo che quando spontaneamente finisce l'eccitazione della novità ci troviamo
con la nostra unione vuota, senza più niente che ci tenga insieme. Da lì la
voglia di ricominciare da un'altra parte. Le situazioni amorose sono decidibili
e determinabili? Certo che no. Noi umani non ci comportiamo in maniera
prevedibile come un tostapane o un'automobile. Un tradimento può sempre
avvenire, una distrazione, un incontro più importante. Il futuro non è sotto il
nostro controllo ma proprio questo è il bello. C'è poi un minuto di sospensione
tra quello che il futuro ci propone/impone e il nostro arbitrio. La possibilità
di dire ci sto/non ci sto/proviamo di nuovo. Quali rischi ci sono nell'amare?
Pochissimi. Purtroppo non ne siamo consapevoli. Rischiamo meno che nello stare
in una relazione senza amore, che può deprimerci in maniera irreversibile,
lentamente. I vantaggi invece sono incommensurabili. Tra questi c'è la
possibilità di evolvere e maturare, anche di imparare a dare e a chiedere,
rispettando noi stessi. E se l'altro se ne va, se ci manca di rispetto, se ci
offre solo briciole, se tenta inconsapevolmente o meno di farci del male,
se..., se... noi abbiamo noi stessi su cui contare, sempre e comunque. Possiamo
contare sul nostro cuore, sulle nostre risorse e sulle nostre debolezze. Purché
siamo onesti con noi stessi, ci diciamo chi e dove siamo, cosa dobbiamo
migliorare, come possiamo adattarci di più alla vita. Non è sulla certezza che
si basa l'amore ma sull'investimento che implica curiosità verso l'altro,
disponibilità a mettersi in gioco e a investire su progetti comuni, quelli che
ci permettono di ballare insieme. Ovvero, della complessità del vivere.
Così scriveva nell’oramai tempo remoto – la riflessione è del 26 di luglio
dell’anno 2008 -, Umberta Telfener, psicologa e terapeuta autrice di “Ho sposato un narciso” (2006) e di “Le forme dell’addio” (2007) editi
entrambi per i tipi Castelvecchi. Me ne sono ricordato leggendo, sul quotidiano
la Repubblica, l’interessante intervista a firma di Antonio Gnoli a Luciana
Castellina, il senso della quale intervista è ben riassunto nel titolo e nel
sottotitolo: “Passioni rosse: quei
comunisti così puritani e così disinvolti”. Rimando sempre e comunque, per
un approfondimento della sempre ostica e controversa tematica, ad un’opera
cinematografica abbastanza recente che ha fatto molto rumore, “Cosmonauta” (2009) di Susanna
Nicchiarelli, la visione della quale raccomando vivamente. Poiché, in essa, con
maestria e leggerezza al contempo, è analizzato e narrato quel “come
eravate voi del Pci nei rapporti d’amore” che l’intervistatore pone
all’inizio della Sua intervista. Ritengo fondamentale il lavoro della
Nicchiarelli, poiché esso rappresenta magnificamente come avveniva l’”educazione
sentimentale” al tempo del piccì. Che non si contrapponeva alla “educazione
sentimentale” che altri giovani di quel tempo – 1957 – vivevano in
altri ambiti associativi – mi viene di pensare alla Associazione Cattolica alla
quale ho pur io aderito e che consentiva una controllata promiscuità di genere
– così come Luciana, la protagonista del film, viveva nella sezione del piccì
del Trullo alla periferia della Roma di quel lontanissimo tempo.
(…). Come eravate voi del Pci nei
rapporti d’amore? «La responsabilità e il decoro, che il partito, esigeva
dovevano convivere con le passioni sentimentali che a volte potevano essere
travolgenti. Non era facile tenere sotto controllo una situazione
antropologicamente chiara ma politicamente condizionante. In fondo parlare
d’amore è complicato».
Perché? «I comunisti preferivano
parlare della famiglia. L’amore è una nozione moderna che implica il concetto
di individuo. L’amore non esiste nel mondo rurale. E l’antichità conosce l’eros
ma non l’amore come lo intendiamo oggi. L’amore è anche rischio, passione,
principio di destabilizzazione. Considerato una prerogativa “borghese” e per
questo nel Pci poteva essere visto con sospetto. Aggiunga che la gran parte dei
due milioni e passa di iscritti al partito erano contadini e cattolici e avrà
chiaro il quadro della situazione ».
E tuttavia proprio i vertici del
partito non sempre davano il buon esempio. «C’era un misto di puritanesimo e di
pratica non consonante, ma questo accade ovunque il potere venga esercitato.
Inoltre, caduto il fascismo, molti dirigenti comunisti tornarono dalla galera,
dal confino, dall’esilio. Erano più vecchi di qualche anno, ma si sentivano
eroi in grado di sedurre giovani fanciulle. I più anziani erano i Longo, i
Roasio, i Togliatti. Tutti sposati ma con delle mogli che appartenevano a
un’altra stagione della vita».
(…). Non ritiene che la rigida
morale del partito dipendesse anche dal fatto che il Pci era un organismo molto
simile alla Chiesa? «C’erano dei codici e delle liturgie da rispettare».
Che ogni tanto venivano
trasgrediti soprattutto da intellettuali e artisti. «Il loro era un mondo
separato. Anche se interessante. Quando conobbi il mio ex marito, Alfredo
Reichlin, che allora era all’Unità, frequentavamo sì gli intellettuali, ma
erano davvero un corpo secondario, rispetto al partito».
Il che non impedì, quando se ne
scoprirono le inclinazioni sessuali, l’espulsione di Pasolini per indegnità
morale. «Era il 1950. La questione gay non era stata neppure lontanamente
affrontata. C’era stata una denuncia per atti osceni. E il partito reagì male,
molto più nel perbenismo dei vertici che in quello della base ».
Non ha l’impressione che gli
amori comunisti a volte fossero frutto del privilegio? «A volte sì. C’era chi
poteva permetterselo».
Guttuso non ha mai sacrificato
l’istinto del maschio siciliano. «Sì, ma da un certo momento in poi, agli
artisti era concesso trasgredire. Mentre più imbarazzante sarebbe stato per un
dirigente politico. Non dimentichi che il partito fino agli anni Ottanta
conserverà una certa idea di purezza. Il richiamo che Berlinguer farà a santa
Maria Goretti, come modello per la gioventù comunista, va in questa direzione».
Le sue radici, Castellina, sono
borghesi, non le ha mai pesato aver scelto il Pci? «È la mia storia. Quando
sono entrata nel Pci mi sono autocriticata su tutto, rispetto alla mia
provenienza. Ho ridimensionato l’Io a favore del noi, del comune».
Una grande individualità fu
Sibilla Aleramo. Come la giudica? «Fu anche lei iscritta al Pci. È stata un
modello di libertà sessuale e di pensiero. In qualche modo con lei riprendeva
corpo la tradizione socialista di Anna Kuliscioff, Alexandra Kollontai e in
parte Tina Modotti».
(…). I suoi rapporti con il
femminismo? «Sono stati tardivi. Fui educata alla scuola dell’emancipazione
femminile per cui le donne dovevano diventare come gli uomini. È stata mia
figlia a rendermi cosciente che il problema non è di somigliare agli uomini ma
di far valere la diversità delle donne».
(…). Meglio compagni, mariti o
amanti? «Compagni è meglio. L’amante può essere la storia di una sera. Compagno
puoi esserlo per la vita. E comunque meglio compagno che marito. Uno dà il
senso di scelta che l’altro non offre. E poi: mentre è difficile avere molti
mariti, è possibile avere molti compagni. Storicamente non è facile essere
monogami».