giovedì 10 luglio 2025

MadreTerra. 49 Heidegger (1966): «La tecnica strappa e sradica l'uomo sempre più dalla Terra. Non c'è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell'uomo è già fatto».


(…). …fin dall’antichità l’asino era stato poco apprezzato e (…) già Cicerone insultava i suoi avversari con tale appellativo. Venni a conoscere che nella Bibbia si parlava di un asino, quello del profeta Balaam, capace di ascoltare il Signore e di operare un discernimento visionario, mentre il suo padrone, profeta di mestiere, restava sordo e cieco: fatto non solo straordinario ma anche istruttivo! Fin da allora, quando ne avevo la possibilità, mi avvicinavo a un asino, stavo con lui per accarezzarlo e ammirare la sua dolcezza, mansuetudine e umiltà. L’asino è un animale paziente, sa portare pesi e sopportare i maltrattamenti di padroni insipienti e violenti. Così l’asino diventò, dopo il mio cane, l’animale a me più amico. Un giorno, quando ormai insegnavo alla scuola media di Ivrea, durante la sagra degli asini decisi di comprarne uno e me lo portai a piedi fino a casa, alla comunità. Fu uno scandalo per molti vedere il professore che attraversava la città conducendo un asino… Lo chiamai Balaam e diventammo amici. La consuetudine con lui mi permise di conoscere le sue virtù, che mi erano di lezione e ammonizione. Quando andavo per i campi mi seguiva e, se udiva la mia voce, mi chiamava dalla stalla, e quando mi vedeva dopo una lunga assenza ragliava di gioia. Era per me simbolo della dotta ignoranza, con grandi orecchie per ascoltare, occhi miti per vedere, un passo lento e calmo ma saldo, una livrea umile da “eminenza grigia”, come a volte mi divertivo a chiamarlo. Una mattina della domenica delle Palme Balaam emise un lungo raglio e corremmo a vedere, ma lui, cadendo a terra, spirò. Da allora mi piace rivederlo ogni Natale nella grotta accanto al messia, sapendo che al messia piace venire su un asino. (Tratto da “La lezione dell’asino” di Enzo Bianchi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del lunedì 4 di gennaio dell’anno 2021).

“La tecnica ha vinto abbiamo perso il senso della vita”, testo di Umberto Galimberti pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi, giovedì 10 di luglio 2025: Oggi c'è ancora un orizzonte di senso per la nostra esistenza? La domanda sorge spontanea se solo pensiamo che l'uomo ha sempre compreso se stesso a partire da un orizzonte di senso a cui fare riferimento. Per gli antichi Greci questo orizzonte era costituito dalla "natura" che Eraclito definisce come quello sfondo immutabile che «nessun uomo e nessun dio fece. Sempre è stata, è, e sarà». La natura inaugura quella temporalità ciclica per cui, come scrive Anassimandro: «Da dove gli esseri hanno la loro origine, ivi hanno anche la loro dissoluzione secondo l'ordine del tempo». Senza speranze ultraterrene, gli uomini sono chiamati "mortali". Nasce da qui una grande etica: l'etica del limite. Per questo i Greci incatenano Prometeo che aveva donato agli uomini la tecnica affinché questa, espandendosi, non comprometta le leggi di natura. La tradizione cristiana assume come orizzonte di senso la "Parola di Dio" e la sua promessa di salvezza ultraterrena. In questo modo il tempo viene iscritto in un disegno, e così nasce la "storia" dove il passato è male: peccato originale, il presente è redenzione, il futuro salvezza. Ottemperando il comando di Dio che consegna all'uomo il dominio della Terra: «Dominerai sugli animali della terra, sui volatili del cielo e sui pesci delle acque marine» (Genesi, 1, 26), la scienza riprende la triade cristiana del passato come male: ignoranza, il presente ricerca, il futuro progresso. Cristianesimo laicizzato. Lo stesso può dirsi di Marx per il quale il passato è ingiustizia sociale, il presente è far esplodere le contraddizioni del capitalismo, il futuro giustizia sulla Terra. Ma anche Freud colloca nel passato (infanzia) l'origine di nevrosi e psicosi, nel presente terapia, nel futuro guarigione. Il futuro è sempre positivo, sostenuto da quella figura, la speranza, che Pasolini aveva tolto con buone ragioni dal suo vocabolario. L'età moderna, che prende avvio nel Diciassettesimo secolo con la nascita del metodo scientifico e in seguito trova la sua massima espressione nell'Illuminismo, ha il suo orizzonte di senso nella promozione della "Ragione" al di là delle fedi, delle credenze, delle superstizioni. «Abbi il coraggio di servirti della tua ragione», scrive Kant, perché, come recita il motto dell'età moderna: «Chi pensa bene fa il bene». Ma, come ci ricorda il filosofo Miguel Benasayag: «Il nazismo ha dimostrato che si può pensare in maniera eccellente anche il male». Fine dell'età moderna e nascita dell'età post-moderna che io chiamo "età della tecnica". Oggi la tecnica non è più un "mezzo" a disposizione dell'uomo, come si è soliti pensare, ma per effetto della sua estensione, la tecnica è un "mondo" che condiziona il nostro modo di pensare e di sentire. Rispetto alle età che l'hanno preceduta, per la prima volta nell'età della tecnica l'uomo vive privo di un orizzonte di senso, perché la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso, non apre scenari di salvezza, non redime, non svela la verità che non rientra nei suoi compiti: la tecnica "funziona", e siccome il suo funzionamento è diventato planetario occorre congedarsi dai concetti tradizionali di individuo, identità, libertà, salvezza, verità, senso, scopo, ma anche da quelli di natura, politica, etica, religione, storia, di cui si nutrivano le età pre-tecnologiche. Intervistato sul problema della tecnica dal direttore di Der Spiegel nel 1966, Heidegger risponde: «Tutto funziona. Questo è l'inquietante, che funziona e che il funzionare spinge sempre oltre verso un ulteriore funzionare, senza uno scopo finale. E così la tecnica strappa e sradica l'uomo sempre più dalla Terra. Non c'è bisogno della bomba atomica: lo sradicamento dell'uomo è già fatto. Tutto ciò che resta è una situazione puramente tecnica. Non è più la Terra quella su cui l'uomo oggi vive». Giusto per fare qualche esempio. Platone, che l'aveva ideata, definisce la politica "tecnica regia" perché, mentre le tecniche sanno come si devono fare le cose, la politica decide se e perché si devono fare. Oggi la politica non è più il luogo della decisione, perché per decidere guarda l'economia che le ha sottratto il potere decisionale. Ma neanche l'economia è l'ultima istanza della decisione perché, per decidere i suoi investimenti, guarda le risorse e le novità tecnologiche, per cui la tecnica diventa l'ultima istanza decisionale. Ma come abbiamo visto, la tecnica non ha scopi perché è pura sperimentabilità illimitata e manipolabilità infinita, per cui la storia - che come abbiamo visto è un tempo iscritto in un disegno e quindi fornito di senso - implode, perché la tecnica non ha una memoria "storica", ma solo "procedurale". Per lei, infatti, il passato è semplicemente sorpassato, e il futuro è solo un perfezionamento di procedure in un processo all'infinito. Abbiamo perso il senso greco del limite perché, come scrive Hans Jonas, mentre i Greci avevano incatenato Prometeo che aveva portato la tecnica agli uomini, noi l'abbiamo scatenato. Il risultato è che oggi la nostra capacità di fare (con la tecnica) è enormemente superiore alla nostra capacità di prevedere gli effetti del nostro fare. Quindi ci muoviamo a mosca cieca. Ma, come la politica, anche l'etica non ha alcun potere sulla tecnica. Infatti come può l'etica impedire alla tecnica di fare ciò che può? Al massimo può mettere in guardia, può invocare, ma così diventa pat-etica. E se l'etica cristiana dell'intenzione è inefficace nell'età della tecnica, lo è anche l'etica della responsabilità proposta da Max Weber che non guarda le intenzioni di chi agisce, ma gli effetti della sua azione di cui deve rispondere. E però è lo stesso Max Weber ad avvertire: «Finché gli effetti sono prevedibili». Ma è proprio della tecno-scienza, che procede per prove ed errori, produrre effetti imprevedibili. A questo punto resta in campo solo l'etica della tecno-scienza secondo la quale si deve conoscere tutto ciò che si può conoscere e si deve fare tutto ciò che si può fare senza limite alcuno e senza avere in vista alcuno scopo. Che cosa vuole infatti la tecnica? Di lei si potrebbe dire quello che Nietzsche diceva della volontà di potenza: «Cosa vuole la volontà di potenza? Vuole se stessa». Che cosa vuole la tecnica? Vuole unicamente il suo autopotenziamento. A questo punto reperire il senso della propria esistenza per l'uomo d'oggi, ridotto a funzionario di apparati tecnici, al cui interno deve compiere le azioni descritte e prescritte dall'apparato, secondo i valori della tecnica che sono efficienza, funzionalità, produttività, e soprattutto velocizzazione del tempo, che ha già superato le capacità temporali della nostra psiche, è praticamente impossibile.

lunedì 7 luglio 2025

Lastoriasiamonoi. 75 Paolo Nori: «La prima cosa che mi ha detto la mamma di mia figlia, che chiameremo Togliatti, è stata “Non sbriciolare”».


Finalmente una sera - ma quanto tempo c'era voluto - un lumicino tremolante apparve entro la lente del cannocchiale, fioco lume che sembrava palpitare moribondo e invece doveva essere, calcolata la distanza, una rispettabile illuminazione Era la notte del 7 luglio. Drogo per anni si ricordò la gioia meravigliosa che gli inondò l'animo e la voglia di correre a gridare, perché tutti quanti lo sapessero, e la orgogliosa fatica di non dir niente a nessuno, per la superstiziosa paura che la luce morisse. (Tratto da “Il deserto dei Tartari” – 1940 – di Dino Buzzati).

giovedì 26 giugno 2025

Lastoriasiamonoi. 71 Aya Ashour: «Porto già con me il peso di tutto ciò che ho lasciato: la famiglia, ancora affamata e vulnerabile; gli amici; i ricordi; la mia vita; il mio passato; la città natale; la mia infanzia; la mia gente. Sono partita senza nulla, ma sono sopravvissuta a un genocidio e a un inferno».

                                        Sopra. Aya Ashour, anni 24.

“Lascio la mia terra per esserne il futuro”, corrispondenza di Aya Ashour dalla terra di Palestina: Dopo un secondo ritardo nella mia partenza da Gaza, coordinata dal Consolato Generale d’Italia a Gerusalemme, sono finalmente riuscita – al terzo tentativo – a lasciare la Striscia di Gaza. Il modo in cui è avvenuto, e le emozioni che mi ha portato, sono al di là di qualsiasi cosa io possa descrivere. Dopo un anno intero di sforzi instancabili da parte dell’Università per Stranieri di Siena per permettermi di partire dalla Striscia in modo che potessi continuare la mia formazione come ricercatore ospite – con il coordinamento del Ministero degli Affari Esteri italiano e del Consolato, appunto – posso annunciare di aver lasciato Gaza ieri alle quattro del mattino da Deir al Balah, passando per il valico di Kerem Shalom e poi per il Jordan Bridge. Mi trovo ad Amman mentre scrivo questo articolo, l’ennesimo chiesto da Giampiero Calapà per il Fatto. E mentre scrivo, sono seduta sotto una lampada, l’elettricità funziona qui, con l’aria fresca e cibo e bevande a portata di mano. Ma la mia famiglia, i miei cari e oltre due milioni di gazawi sono ancora lì, affamati, sfollati, senza casa, sotto le bombe e i razzi, alla mercé di Israele e del mondo. La sera prima di partire, ho passato la giornata a guardare i volti della mia famiglia tra le lacrime. Piangevamo tutti, impotenti, e i nostri occhi parlavano una lingua muta: “Non voglio lasciare questa terra. Voglio restare con la mia famiglia. La mia famiglia vuole che io rimanga con loro”. Ma la verità è che non ci è concesso il lusso di poter scegliere. Il mio obiettivo, e quello della mia famiglia per me, è continuare a studiare, inseguire il mio sogno e rappresentare il mio Paese. L’ultima notte a Gaza ho cercato di dormire, ma non ci sono riuscita. Sono rimasta sdraiata per quattro ore e poi mi sono svegliata alle 2 del mattino, cercando il mio smartphone. Era ancora presto: l’orario di partenza era fissato alle 3,45. Ho iniziato a guardare i volti addormentati delle mie sorelle accanto a me: Noor, Jana e Rola. Mi è venuto da piangere, di nuovo, ma il mio cuore si è come bloccato in quel momento.

martedì 24 giugno 2025

Lavitadeglialtri. 100 Concita De Gregorio: «E quindi. Quindi niente. Fra vicini bisognerebbe aiutarsi, ma la vita è così. Dura».


Il ventiquattro di giugno vedeva sorgere un’alba strana sulle case vecchie della città. [...]. Silenzio fino a mezzogiorno, persino sulle osterie. Sembravano borgate di morti. Ma dietro le facciate impenetrabili, non era la morte, bensì l'attesa di un momento di vita vera, sfrenata, libera; perché la gente cercava di dormire qualche ora in più per essere più sveglia la notte quando, con il primo buio, le porte si spalancavano, le strade si illuminavano a giorno e la gente correva fuori, nelle strade, nei campi, sugli argini, verso le colline. Sull'erba si mangiava, si beveva, ed era l'amore per se stesso quello che imponeva l'ebbrezza comune, libero da distinzioni, da pudori, dalle oscure radici dell'intimità e dell'egoismo. Era una follia antica, che s'interrompeva allorché dai campanili arrivava il suono della mezzanotte. Sotto la luna, allora, e sull'erba già umida, la folla ammutoliva [...]. Finché uno, il primo, non si alzava dal suo posto e dal suo cibo, alzando le braccia e avvicinandosi al volto le mani tremanti; si copriva la faccia con le mani, accarezzandosi sulla pelle il velo sottile della rugiada e gridava: «La manna! La manna!...». (Tratto da “La califfa” – 1964 - di Alberto Bevilacqua).

sabato 31 maggio 2025

Lavitadeglialtri. 95 «Quei “Lazzari” di Gaza».

 Sopra. “Resurrezione di Lazzaro” affresco (Giotto, 1303-1305 circa) del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova.

mercoledì 28 maggio 2025

Lastoriasiamonoi. 62 «Genoveffa, la maga pescatrice»


Titolo dato alla “Storia” di Genoveffa Colica amorevolmente e magistralmente “raccolta” dall’amica Franca Sinagra – pubblicista, con Laurea in Materie Letterarie, già insegnante nella Scuola pubblica Italiana – che la ha recentemente data alle stampe. Grazie. A est del promontorio tirrenico chiamato Capo d’Orlando, proteso di fronte alle Isole Eolie, cent’anni fa il paesaggio costiero della baia di San Gregorio presentava un’insenatura paradisiaca orlata da spiaggia chiara e soffice, estesa per almeno cinquanta metri sotto il pelo dell’acqua luccicante e tanto trasparente da potervi riconoscere i grandi carapaci intarsiati delle tartarughe, così docili che si pescavano afferrandole a braccia nude. C’è ancora oggi un hotel connotato sulla facciata da grandi sagome ferree di tartarughe marine, di cui non c’è spiegazione se non nel ricordo storico di una donna speciale che visse sapientemente fra terra e mare, in incontrastata fluida contiguità. C’era là un tempo la pescatrice Genoveffa, giovane vedova fra i pochi abitanti dell’isolata frazione a mare dell’antica Naso, quando nei mesi estivi l’arenile era arredato vivacemente dalle strisce multicolori dei piccoli gozzi all’ancora e in secca, attorno ai quali si muoveva varia umanità, anfibia se percepita nell’immaginario. Dietro le barche un gruppo di casette a pianterreno stava pigiato fra la battigia e l’aspra altura retrostante che ne chiudeva l’accesso alla terraferma. Tutte le giornate di tempo buono Genoveffa andava a pesca sul suo gozzo che scivolava bordeggiando fra grandi faraglioni e affioranti scogli rocciosi rivestiti di gustose patelle, anticamera alla cala. Oggi una strada asfaltata, solcando la roccia dietro i faraglioni, conduce verso l’abitato della nuova cittadina migrata da San Gregorio oltre il rosso faro erto a guardia del Capo di Orlando da cui prese il nome. Il romanziere Vincenzo Consolo ci ha lasciato della baia una descrizione evocativa di antichi fatti ricchi di avventura e di tragicità: «In cima al capo, i ruderi d’un castello e un santuario della Madonna dei pescatori pieno d’ancore, timoni, ex-voto di caicchi, gozzi, velieri in balia di fortunali. Il capo prende il nome da Orlando, il più furioso dei paladini di Carlo Magno. Doppiato il capo, v’è la cala di San Gregorio, il villaggio dove di notte sbarcavan i pirati. “Terrore a la riva: la furia dei ratti trae fra gli strilli la gonna come bandiera / e il corsaro dagli occhi di nera porcellana / da la barba serpentina: / la scimitarra stride con l’arma paesana…”». Poi, scovato il ritratto vivente di una donna dalle qualità magiche, ce lo regala: «Qui abitava zia Genoveffa. La vecchia fattucchiera che tagliava col coltello dal manico bianco le trombe marine toglieva il malocchio con fumigazioni di rametti d’alloro, erica, rosmarino. Qui era un tempo la città antica di Agatirno». La figura di Genoveffa Colica (o Collica) (Castell’Umberto 1873 – Capo d’Orlando 1961) non è solo folclorico, ma individua il locale pionierismo imprenditoriale femminile, in questa pescatrice di professione, anomalia nell’epoca maschilista e che oggi è considerata donna eccentrica ed emblematica. Andava infatti a pesca sul gozzo come gli uomini, navigava a remi e come loro conosceva la rotta costiera e le costellazioni. A renderle attributi eccezionali c’è il fatto che praticava magie sia per contrastare le cattive situazioni personali di compaesani e compaesane con risoluzioni di immediato intervento nello “sbuddere” (sciogliere) il malocchio, sia per affrontare gli elementi naturali, tempeste a mare e tornado che lei sapeva “tagliare”. Genoveffa possedeva delle caratteristiche magiche insite nelle possibilità individuali femminili, acquisite fin dall’antichità classica tanto che erano considerate nella normalità del suo vivere sociale. La sua figura evoca un ruolo quasi leggendario in cui è possibile dunque riconoscere varie eccezionalità. Fu governatrice riconosciuta del buon vivere nella sua minuscola comunità e, nella descrizione della pronipote Daniela Trifilò, Genoveffa fu «donna stimata da tutto il paese, una donna che da sola teneva a bada tutti i pescatori andando in mare anche lei, diventando ben presto donna temuta ma rispettata, tanto si faceva con il suo permesso, nulla si faceva senza il suo benestare, era una forza di inspiegabile caparbietà, una donna dal carattere duro ma nello stesso tempo di una generosità infinita con un indefinibile amore verso il prossimo».

lunedì 26 maggio 2025

Lavitadeglialtri. 93 “Pagina muta, terza”.





 


 

N.d.r. Devo alla carissima amica Agnese A. la prontezza con la quale queste immagini di strage possono essere portate alla visione dei cosiddetti uomini di "buona volontà". Grazie Agnese, amica carissima.

lunedì 19 maggio 2025

Lavitadeglialtri. 90 “Memorie”.

                                     Sopra. Con la mamma ed il mio papà.