venerdì 30 maggio 2025

Lastoriasiamonoi. 63 “Passioni&Politica”.

Passioni&Politica”. “Miriam Mafai. Un ritratto privato” di Simonetta Fiori, intervista a Sara Scalia pubblicata sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 23 di maggio 2025: “Cara Miriam, come forse avrai immaginato, ho deciso di farla finita. (…). Che la nostra esperienza ti insegni una cosa, ossia che non bisogna giocare troppo con gli esseri umani. Ti auguro un avvenire pieno di successi, anche se non potrai essere felice". (…).

Tu conoscevi il suo grande segreto, il suicidio del primo marito? «Sapevo vagamente dell'esistenza di Ugo, ne avevo trovato tracce sparse per casa. La pistola con cui s'era sparato, conservata in fondo a un cassetto. I libri einaudiani con la copertina carta da zucchero. Ma mamma liquidava l'argomento con uno dei suoi gesti spicciativi. Dopo la sua morte, mi sono imbattuta in un cofanetto con l'ultima lettera di Ugo e altre che poi ho consegnato ad Annalisa (Annalisa Cuzzocrea, autrice del volume “E non scappare mai” n.d.r.)».

Perché non voleva parlarne? «Il silenzio era una difesa dal dolore. Dietro questa veste di donna tutta d'un pezzo, formata nella durezza della guerra, del comunismo e del partito, mia madre era intessuta di fili diversi tra cui una persistente malinconia che cercava di raggrumare in un gomitolo stretto, da nascondere in tasca e da non mostrare».

Da che cosa percepivi il suo dolore? «Da un malessere fisico che con una certa ripetitività si manifestava attraverso nausee e spossatezza. A un certo punto fu ricoverata in una clinica romana per la cura del sonno. Saranno stati i primi anni Sessanta, ero bambina e andavo a trovarla con la tata. Era una forma depressiva che cercava di dissimulare, ogni volta risollevandosi e guardando in avanti». Anche la scelta di risposarsi con tuo padre, poco tempo dopo la scomparsa di Ugo, è segno di potente vitalità. «Primum vivere. Da questo punto di vista era irrefrenabile. Aveva la straordinaria capacità di rimuovere il dolore per tuffarsi nella tempesta, sia nel pubblico che nel privato. E questa sua voglia di vivere la riversava anche in un esercizio fisico sorprendente. A cinquant'anni si mise pe la prima volta sugli sci: conservo le fotografie con il maestro e i suoi compagni adolescenti. E a ottanta - in vacanza in Egitto con Emma Bo nino e altre amiche - fece la sua prima immersione subacquea». Che cosa c'era dietro l'inquietudine? «Un'insofferenza per tutto ciò che è paludoso e inerte. E un'interrogazione costante sul senso del vivere. Un giorno le chiesi "mamma, hai qualche rimpianto?". Lei non ci pensò molto: "Avrei voluto una vita fisicamente più piena". Io la guardai maliziosa. "Ma che hai capito?", mi fulminò. "Non è quello che pensi tu. Avrei voluto nuotare, correre, giocare a tennis: non l'ho potuto fare!"».

Le lettere d'amore a tuo padre, Umberto Scalia, tradiscono un grande trasposto. «Credo fossero molto innamorati. Li teneva insieme la comune militanza nel Pci, entrambi funzionari del partito in Abruzzo. Ma credo che mamma l'abbia scelto perché Umberto era bello: alto, spalle possenti, lineamenti alla Gregory Peck. Erano però molto diversi: lui un uomo antico, cresciuto nella durezza del mondo contadino, incapace di esprimere i sentimenti, lei figlia di due grandi artisti, formata in un ambiente intellettualmente libero ed emancipato. Per entrambi non deve essere stata una convivenza facile. E la separazione fu molto cruenta. Mio padre aveva scoperto la relazione di Miriam con Giancarlo Pajetta. Non la prese bene: i miei genitori non si sarebbero più rivolti la parola».

Per Pajetta era un amore antico. «S'erano conosciuti subito dopo la guerra e lei era rimasta molto affascinata dal compagno Nullo. Poi la consapevolezza dell'attrazione arriva quando lei diventa cronista parlamentare per l'Unità, prima donna a cui viene affidato quell'incarico: Pajetta comincia a corteggiarla con biglietti e inviti a cena. Uomo di grande ironia e straripante affettività».

Lei si difende da questa esondazione sentimentale. Lo rivelano le pagine del diario scritte dopo la morte di Pajetta, quando si sente più libera di manifestargli la sua tenerezza, "senza il timore di una continua richiesta di altro affetto, di altra tenerezza". «Sì, si sentiva libera di dire il suo amore per lui senza rischiare di esserne fagocitata. E non è un caso che solo allora riprenda in mano il vecchio diario sul quale aveva l'abitudine di annotare i pensieri più intimi, prima che Pajetta interrompesse questa abitudine con il rimprovero canzonatorio "I comunisti non tengono il diario"».

Lui voleva sempre di più, lei temeva di perdersi. «Ti racconto un episodio. Fine anni Settanta, prime mie confessioni a mamma di un sentimento che cominciavo a provare per il ragazzo che sarebbe diventato mio marito. Squilla il telefono, era lui. E io chiudo la telefonata con l'espressione da estasi di Santa Teresa. "Chi era?", mi fa lei, un po' allarmata. "Mamma, ma quanto è bello sentirsi amati...". E lei, severa: "Dipende dal prezzo che si paga"».

Miriam ricalcò un modello di maternità ereditato dalla madre Antonietta Raphaél, a cui pure aveva rimproverato assenza e distrazione. Prima dei figli e della famiglia, metteva sé stessa, che però non era un io narcisistico ma un mondo: il partito, il giornale, le battaglie civili in cui si lanciava. «Si rimproverava di essere stata una madre disattenta. In realtà non lo era: era distante fisicamente, presa dai suoi impegni, ma mai distratta dai nostri bisogni e dalla nostra crescita. E poi c'era quel magistero morale a cui alludevi: non stava fuori di casa per vanità ma perché ci credeva. Per anni avremmo riso del suo eccentrico esercizio materno, di quella volta che aveva lasciato solo a casa Luciano treenne dentro il box, o di noi figli abbandonati in collegio o dagli zii quando con mio padre andò a vivere a Parigi. "Ma che ne sapevamo noi dei traumi che potevamo procurarvi?". È rimasto nel nostro lessico famigliare l'epiteto coniato da Luciano: "Severa ma ingiusta"».

Vi ha insegnato tante cose. «Sì, ci ha insegnato soprattutto a morire. Lei citava sempre un verso di Belli che Luciano ha voluto incidere nella lapide: Er tutto è nnun tremà cquanno se more».

Lei non ha tremato. «Stava molto male, consumata da un tumore terminale, si accordò con i medici per essere addormentata. Era lucidissima, a un certo punto spalancò gli occhi: "Ma allora domani non vi vedo più... ". Ebbi l'impressione come di un ripensamento. "Mamma, possiamo sospendere in qualsiasi momento". Lei, tenerissima, mi disse: "No, Saretta, va bene così". Un momento molto duro».

Fino alla fine è stata lei. «Col suo senso dell'umorismo. Vicina al capezzale era anche la zia Giulia, sua sorella, che negli ultimi anni s'era immersa nella religione ebraica da cui provenivano. "Sei la nostra jewish mother", cominciò a dire enfatica, interrotta da Miriam apparentemente assopita: "E che palle!". Riuscì a farci ridere fino alla fine. Come quando ci chiamò nella stanza e, roteando lo sguardo sulle pareti cariche di quadri, sussurrò con un filo di voce: "Sappiatelo: questi non valgono un cazzo"».

Hai consegnato ad Annalisa Cuzzocrea le carte più intime di tua madre. Ora come ti senti? «Liberata dalla condizione di figlia, che è strettamente legata al monumento. Quando di tua madre ti viene restituita un'immagine non più monolitica, ma piena di chiaroscuri, ti senti più leggera. E capisci che finalmente puoi lasciarla andare».

Nessun commento:

Posta un commento