“Il gioco del falco mi ha svelato l’incanto del mondo”, testo dell’intervista di Antonio Gnoli al veterinario Massimo Vianelli pubblicata sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del primo di giugno 2025: (…). …il falco pellegrino di J.A. Baker, edito ora dal Saggiatore in una nuova traduzione di Aimara Garlaschelli. Si tratta di un libro che ha esercitato un grande potere seduttivo sul regista Werner Herzog, che lo considera imprescindibile per chiunque voglia occuparsi di cinema oltre che di letteratura. Baker - un anonimo impiegato di un'agenzia di assicurazioni - girò in bicicletta per circa dieci anni nella contea dell'Essex studiando le azioni predatorie del falco pellegrino. «Un testo visionario, ossessivo, e fondamentale per chiunque voglia capire cosa si nasconda nel volo di questo rapace», mi dice Massimo Vianelli, un passato da veterinario e oggi considerato uno dei falconieri italiani più importanti.
Perché il libro di Baker è considerato un cult del birdwatching? «Forse perché è molto di più della semplice osservazione degli uccelli. Sembra di leggere il testamento dell'ultimo uomo rimasto sulla terra, uno che per tutto il libro demolisce il nostro comodo paesaggio antropizzato e ci dice: gli uccelli erano sul pianeta prima dell'arrivo dell'essere umano, resisteranno all'ombra della nostra tirannia e torneranno a volare nel sole, quando non ci saremo più».
Erano gli anni Sessanta quando scriveva quelle cose. «Erano gli anni in cui la catastrofe si pensava arrivasse da una guerra nucleare. Baker vedeva più lontano. Imputava all'azione umana un atteggiamento criminale verso la natura e in particolare verso gli uccelli. Lo sterminio sarebbe partito da lì. Ancora una volta da una terra devastata dall'inquinamento».
E da un cielo troppo fragile per potersi difendere. «Un filosofo inglese ha detto che il libro di Baker è abitato da un misticismo senza Dio».
Aveva una scrittura molto poetica e poco etica. «Non poteva esserci etica perché troppo forte nella sua scrittura è l'immedesimazione con i suoni, i colori, i rumori e, soprattutto, con la crudeltà della natura. L'indifferenza sovrana a ogni dolore e sofferenza umana».
Incredibile che quest'uomo solo, abitato da un'unica passione smodata, sia riuscito a restituirci il senso di una tragedia incombente. «A me sembra quasi di vederlo: deporre la bicicletta e arrancare a fatica sui pendii, marciare nelle paludi, infilarsi tra gli arbusti, sdraiarsi sulle le rocce, e restare immobile per ore in attesa che il cielo mostrasse le veloci traiettorie del falco pellegrino. Uno spettacolo sfinente e grandioso. Solo un pazzo poteva assistervi».
Il suo palcoscenico era la contea dell'Essex. «Dove il Tamigi diventa estuario e crea altri fiumi. Baker era nato e ha sempre vissuto a Chelmsford, una città non distante da Londra. Il suo racconto universale si racchiude in un centinaio di chilometri quadrati».
Quel libro le ha aperto un mondo. «Me lo ha confermato e arricchito. In realtà già prima i rapaci mi avevano appassionato. Ma facendo il veterinario non avevo il tempo per dedicarmici. Frequentai un corso e fu una folgorazione. Avevo una quarantina di anni. Oggi ne ho 6'7 e sebbene la passione sia cresciuta, non ho mai voluto che diventasse una malattia, un'ossessione. Ma il rischio a volte lo si corre».
Come è accaduto per Baker. «La sua ossessione è servita agli altri. Ma Baker era unico. In un certo senso "parlava" con il falco e poteva farlo solo immaginando di essere lui stesso l'animale che osservava. La sua fu una scoperta sciamanica».
Lei invece cosa ha scoperto? «Il senso della meraviglia per un evento che non mi aspettavo così potente. Ero con un istruttore la prima volta che ho tenuto un falco "al pugno". Ho sentito un'energia che non avevo mai provato e da quel momento è iniziata la mia avventura».
Definisca "al pugno". «L'animale è appoggiato su un guantone, ha due braccialetti con un anello dentro il quale è inserita la stringa che viene passata all'interno della mano e poi fissata con un gancio al guanto».
Una specie di guinzaglio. «Serve a insegnargli i movimenti da "fermo" prima che spicchi il volo».
Che animale è il falco? «È un essere speciale, che se ne può andare in ogni momento oppure decidere di rimanere con te».
Non si affeziona dopo che è stato addestrato? «È un'illusione pensare che un falco si affezioni. Diciamo che si stabilisce un rapporto di reciproca collaborazione tra il falco e il falconiere. Il falco impara a riconoscerti. Ma non sarà mai come un cane».
Un rapporto non proprio alla pari. «Posso capire la sua obiezione. Ma la caccia al falco è un'arte riconosciuta dall'Unesco come patrimonio immateriale. L'essenza della falconeria è di essere un'arte estatica. Richiede una certa dose di contemplazione».
Incuriosisce il confronto con il cane. «Un cane che non risponde o sbaglia può essere richiamato. Un falco no. Se fa qualcosa che non va bene significa che gli si è dato un messaggio sbagliato. Se lo spaventi lui se ne va».
Cosa minaccia la vita di un falco? «L'uso sconsiderato dei pesticidi è stato uno dei fattori di rischio per la sua estinzione. In America il Peregrin Fund una ventina di anni fa ha promosso una campagna di allevamento in cattività e ha rintrodotto così il falco in natura, salvandone la specie. Resta comunque un dato impressionante: solo un terzo dei falchi in natura sopravvive al primo anno di vita».
Tra le cause di morte? «I pesticidi certo. Ma soprattutto molti falchi pellegrini muoiono predati da altri rapaci, o di fame».
Accennava all'arte della falconeria. «Qualcosa di molto antico, è un'arte sostenuta da un codice preciso che stabiliva una gerarchia. L'aquila reale era appannaggio dell'imperatore. Il girifalco, considerato l'animale più bello, era del re, poi il pellegrino e lo sparviero appartenevano ai membri della corte. Nel Medioevo l'arte della falconeria sanciva le divisioni castali, Federico II vide nell'arte della falconeria una nuova concezione del potere. Non più, o non soltanto, l'esercizio della forza ma anche un esempio di armonia del buon governo».
La tradizione del falco è però antecedente al Medioevo. «C'è chi la fa risalire ai nomadi che attraversavano le sterminate pianure della Mongolia. Gengis Khan era considerato un provetto falconiere. Da lì si sarebbe propagata tra le terre arabe. Probabilmente Federico II importò la caccia al falco dopo le conquiste arabe nell’Italia del sud. La sua importanza è aver fissato il canone della falconeria con il celebre trattato De arte tenandi cum ambus (L'arte di cacciare con gli uccelli)».
Una sorta di Bibbia. «Direi un manuale che insegna a maneggiare un falco per ammansirlo, come gestirlo dal punto di vista alimentare e sanitario».
È il primo del genere o esistono precedenti? «Sembra che l'opera di Federico II derivi da un testo arabo».
Come si è tramandata nel tempo la tradizione? «In passato, fino agli inizi del Novecento, è stata un'arte d'élite che veniva trasmessa da falconiere a falconiere. Poi quell'arte decadde, con l'impiego diffuso delle armi da fuoco. Il fucile sostituì il falco. Ma la falconeria sopravvisse grazie alle poche persone che ne protessero il significato più profondo. Oggi è considerata una caccia ecologicamente sostenibile».
Nel senso? «Su dieci attacchi del falco alla preda ne vanno a segno un paio».
Quindi l'importanza della caccia non è nel risultato, cioè nel numero di prede che si cacciano? «Questo è l'aspetto meno importante. Ciò che davvero conta è il lento processo di autocoscienza che porta il falconiere a una sorta di simbiosi con il falco. Il legame può però rompersi a causa della disattenzione e della, scarsa cura. Il falconiere deve, in un certo senso, "pensare" come il falco. Torniamo così nuovamente a Baker»,
Baker non amava la caccia con il falco. Amava il falco. «È una storia affascinante la sua dedizione e nevrosi, fanatismo e ossessione. Nella vita faceva l'impiegato. Quando scoprì la passione per il birdwatching aveva superato i trent'anni. Partiva con la sua bicicletta, la colazione in una sacca e il binocolo nell'altra, a esplorare il territorio dell'Essex, a una trentina di miglia da Londra. Baker era nato e viveva a Chelmsford. Era un uomo molto appartato. Non si hanno molte notizie di lui. Si sa che soffriva di artrite ed era miope, ma tutto questo non gli impediva di trascorrere intere giornate a osservare e ad annotare i movimenti del falco, a interpretarne il volo».
Fu un impegno che lo assorbì per un decennio. «È incredibile come la sua vita si fosse adeguata ai ritmi della natura, alle immagini anche violente e terribili di cui era testimone».
Robert Macfarlane nell'introduzione ricorda la netta distinzione che Baker fa tra l'uccidere dell'uomo e l'uccidere dell'animale. «Baker non aveva una grande opinione dell'essere umano. Lo riteneva responsabile dei numerosi danni, spesso irreparabili, sia verso il mondo naturale che quello animale. Guardava al falco come a un'opera d'arte e insieme a una perfetta macchina da guerra che ghermiva le prede non per scelta ma per istinto. Sapeva e accettava che la natura oltre che idilliaca può essere crudele».
Con quali conseguenze? «La natura non può essere giudicata in base a scelte etiche. La nostra etica può aiutarci a difenderla non da lei stessa ma dagli altri nostri simili».
Nella vita lei è stato veterinario. Curava gli animali, non li uccideva. «Vero, anche se la morte era nelle possibilità, soprattutto dove la cura non avrebbe funzionato. Quando ho deciso di diventare falconiere non è stato perché improvvisamente ho scoperto l'eccitazione della caccia ma per quello che la contemplazione del volo era in grado di insegnarmi. La mia passione è osservare il volo, non l'uccisione della preda. Dico sempre: non porto il falco a volare, vado con il falco a volare».
Perché scelse di fare il veterinario? «L'ho deciso a sei anni. Credo di essermi quasi sempre sentito meglio con gli animali che con gli umani. Lì non esistono né menzogne né avidità. Da giovane sono stato molto religioso. Ma la vera religione è lo spettacolo che la natura mette sotto i nostri occhi inducendomi a pensare che ci sia un Dio che abita o si nasconde nelle piccole cose».
Anche in un falco? «Tutto in lui sembra un prodigio dell'evoluzione. Perfino la sua indifferenza sovrana mi appare come l'espressione più compiuta di una teologia naturale».
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