“IeriOggiDomani”. “Io, il primo faccendiere”, testo della conversazione tra il
giornalista Ettore Boffano e il “faccendiere” Adriano Zampini pubblicata sul
periodico “Millennium” de’ “il Fatto Quotidiano” dell’8 di giugno dell’anno
2024: L'esordio sarebbe quasi bersaniano, da antica sapienza contadina, come
un'altra "mucca in corridoio". Solo che, questa volta, si parla di
politici e di corruzione: "Sul latte si è rifatta la panna e tutti
vogliono mangiarla". Adriano Zampini, che oggi ha 75 anni, fu "il
faccendiere" di Torino: il primo a fregiarsi di quel titolo nell'Italia
delle tangenti. "Nelle intercettazioni telefoniche, io ero l'Omino delle
noci che dispensava il denaro. Le noci, appunto". Accadde a mezzogiorno
del 2 marzo 1983: il sindaco rosso di Torino, Diego Novelli, sedeva nella
platea del 16° congresso del Pci a Milano ad ascoltare la relazione di Enrico
Berlinguer. Un vigile della sua scorta si avvicinò sussurrandogli poche parole
e Novelli si alzò di scatto per rientrare in fretta nel Palazzo di Città
torinese. Sapeva tutto il sindaco: era stato lui a mandare un ingegnere in
Procura. A raccontare che, nella sua giunta di comunisti e socialisti, c'era
qualcuno che rubava. Ma non si aspettava che il giorno prima, appena arrestato,
l'Omino delle noci avesse già svelato traffici e pagamenti ai pm. E che avesse
scelto "di cantarsela", come scrissero allora i giornali applicando
un modo di dire della "nera" a quello che stava diventando un nuovo
genere del giornalismo italiano: la cronaca politico-giudiziaria. Crollarono la
giunta comunale social-comunista e anche quella regionale che si reggeva sulla
stessa maggioranza; il vicesindaco del Psi, Enzo Biffi Gentili, finì in manette
e con lui, in cella, si ritrovarono assessori regionali socialisti e
capi-gruppo del Pci ma anche della Dc che stava all'opposizione. Un
"martirologio" trasversale di ordini di cattura e di comunicazioni
giudiziarie, in una sorta di superpartito subalpino delle mazzette. Il Jurassic
Park di Tangentopoli, le prove generali di un sistema che esisteva già, ma che
per la prima volta usciva allo scoperto. Con una conferma: che nel Psi craxiano
le tangenti fossero di casa, e però anche con una grande sorpresa. Che pure tra
i comunisti della "questione morale" ci fosse chi apprezzava l'Omino
delle noci. Per ritrovare il "geometra" Zampini, bisogna andare dalle
parti della sua Verona, a San Martino Buon Albergo, e riscoprire così i sorrisi
maliziosi e le ironie un po' contadine e un po' da guascone. E quel vezzo di
fare citazioni dotte messe da parte negli anni, tirandole fuori dagli articoli
delle grandi firme che avevano parlato di lui: Enzo Biagi, Giampaolo Pansa. «Sa
che cosa diceva Clemenceau?» ti interroga subito. «Che non esiste democrazia
senza un po' di corruzione. Pansa poi aggiungeva che io avevo il muso di un
giovane lupo». O di immaginare di scrivere un libro sulla propria vita «che
ricordi le Confessioni del cavaliere d'industria Felix Krull di Thomas Mann». Velleità subito esorcizzate, però, raccontando che la laurea honoris causa in
scienze politiche dell'Universidad de Buenos Aires, la carica di console
onorario del Kenya a Torino e la nomina a generale di Gran Croce dell'Ordine
sovrano dei cavalieri di Malta e a guardiano del Sacro Sepolcro di Gerusalemme,
gli costarono 33 milioni di lire. «Una bazzecola, se ci pensa. Alla fine ho
contato che, quando c'era ancora la lira, ho versato ai politici 6,8 miliardi».
E dopo? «Dopo basta. Quando ti bruci con l'acqua calda, devi smettere e puntare
a fare altro». Che cosa? «Andai in Brasile, con una barca di soldi che mi
diedero a Torino per farmi stare zitto». Il colpo di "cincin". Adesso, però, come preferisce farsi chiamare il geometra che fu anche capitano
degli alpini e che non manca mai a un raduno delle penne nere? Dottore honoris
causa, cavaliere del Sacro Sepolcro o faccendiere? «A quest'ultima definizione
ci tengo molto, l'ho inaugurata io. È una sorta di copyright. Ma, alla fine, va
bene geometra». E come fu la prima volta? «Sembra assurdo, ma fu proprio a
Genova a metà degli anni '70 e riguardò il nuovo Palazzo di Giustizia: lo
stesso dove oggi ci sono gli uffici dei magistrati che indagano su Toti e
Spinelli. In realtà, allora io fui solo una sorta di spettatore non pagante.
Lavoravo come impiegato per la Sele Arredo di Walter Leto, segretario regionale
in Liguria del Movimento Sociale Italiano. So che ci fu una tangente del 2 per
cento per un funzionario regionale che di soprannome faceva Cincin. L'unico
magistrato a portarsi da casa sua una scrivania impero fu il procuratore
generale Francesco Coco, poi ucciso dalle Brigate Rosse. La Liguria è sempre
stata all'avanguardia nelle tangenti: nel 1983, poco dopo il mio scandalo in
Piemonte, ci fu quello di Alberto Teardo, il socialista già presidente della
Regione», L'apprendistato delle ruberie politiche fu rapidissimo, così come il
trasferimento a Torino dove c'era una dependance della Sele Arredo. «Li pagai davvero
la mia prima mazzetta. La versai, anche in quel caso, a un funzionario
regionale. La cifra non me la ricordo, ma i soldi erano in una busta gialla e
la consegnai a un casello autostradale». Intanto, il geometra fonda una sua
società, la Juppiter, e soprattutto capisce che le nomenclature della
burocrazia regionale non bastano più se vuoi fare soldi alla grande. «Serviva
la politica e, questa credo sia stata la mia vera intuizione, non solo quella
di chi comanda, ma anche di chi sta all'opposizione». All'inizio, il veneto
trapiantato nella città della Fiat non sa come orientarsi. «Venivo da una
famiglia di contadini, timorata di Dio, da giovane ero stato nelle Acli e
quando studiavo all'istituto tecnico mi ero avvicinato allo Psiup». Una
militanza che Zampini racconta adesso con una delle improvvisazioni del suo
storytelling autoprodotto: «Avevo dieci in pagella in tutte le materie, tranne
che in condotta: nel 1968 minacciai di buttare il preside dalla finestra perché
non ci faceva occupare la scuola. A Torino, però, realizzai che bisognava
avvicinare il Psi. Il mio referente fu Enzo Biffi Gentili che avevo conosciuto
quando era un giovane nel Pri di La Malfa: gli avevo arredato l'ufficio. Veniva
da una famiglia importante e suo padre era stato Procuratore Generale del Re.
Poi passò al Psi e divenne vicesindaco nella giunta rossa di Diego Novelli. Fu
lui a introdurmi con tutti i partiti. Nacque lì la nostra formula magica per i
soldi: il 3 per cento al Psi che l'aveva inventata, il 2 per cento al Pci e alla
Dc invece, che era all'opposizione, l'1 per cento». Già, i comunisti. Fu quello
il vero shock dopo le rivelazioni del 2 marzo 1983. Che anche il Pci potesse
avere dei corrotti e tutto questo nonostante il fatto che a denunciarli fosse
stato proprio un comunista, Diego Novelli. Poi accusato, nel suo stesso
partito, di "moralismo" e lentamente emarginato. «Vuole che gliela
dica tutta? Rispetto alle tangenti non ci fu nessuna differenza con gli altri
partiti. Avevano solo qualche imbarazzo in più: loro, all'inizio, erano persone
che stavano male anche solo a parcheggiare l'auto in seconda fila. Ma poi, poco
alla volta, entravano nel meccanismo e non avevano più difficoltà a essere culo
e camicia con il finanziamento illecito. In quegli anni, sembra un paradosso,
avvertivo più resistenze tra alcuni esponenti della sinistra del Psi». Insomma,
non c'era del marcio in tutto il partito socialista: con il senno di poi, oggi
sembra quasi impossibile. «Sì, però era davvero così. Io riuscii a infrangere
quel tabù quando si trattò di formare la nuova giunta regionale. Avevo bisogno
che l'Urbanistica, da cui dipendeva uno dei miei progetti miliardari, il
Cartografico regionale, andasse al professor Giovanni Astengo, un luminare
dell"architettura italiana con cui avevo buoni rapporti. Allora chiamai
Nerio Nesi e gli dissi che bisognava puntare su Astengo e aggiunsi: la campagna
elettorale dei candidati della sinistra del Psi l'ho pagata tutta io. Lui cadde
dalle nuvole: non ne sapeva nulla. Ma alla fine Astengo divenne assessore».
Torniamo ai comunisti e a quell'indifferenza davanti alle tangenti ricostruita
dal faccendiere del 1983. Che, alla fine, qualcosa di quella
"diversità" sfregiata dallo scandalo adesso la salva: «Diciamo che
gli altri si tenevano una parte delle tangenti, anche sino al 50 per cento, i
comunisti invece facevano arrivare tutto al partito». La proto-tangentopoli,
giunti a questo punto, ora assume i contorni di una spy story da anni '80,
quando Parigi, un viaggio all'estero o una meta lontana esercitavano ancora un
fascino che ai nostri giorni si è un po' appannato. «Nella banlieue della
capitale francese, avevo affittato un piccolo appartamento a Bobigny. Li c'era
una cassaforte con i soldi per ciascun partito. La cassaforte, me lo ricordo
ancora, era di fabbricazione austriaca. I politici, quelli fidati che rappresentavano
anche gli altri, avevano ciascuno una copia delle chiavi per andare a ritirare
le mazzette». La primogenitura socialista del "sistema Zampini"
valeva invece qualcosa di molto più importante, per quantità di denaro e per
coperture all'estero: «Per il Partito socialista i soldi non erano a Parigi, ma
in Svizzera: nascosti in una banca che faceva riferimento a Nino Rovelli e che
si trovava in un posto con un nome profetico, Paradiso, vicino a Lugano. Il
deposito era arrivato sino a 20 miliardi di lire. Quelli non li ho mai
restituiti». Bettino Craxi, quando l'Omino delle noci cominciò la sua
collaborazione con i pm, lo fece attaccare su l'Avanti! Allora si denigrava il
"pentito" che smascherava la corruzione, oggi invece si mettono alla
berlina i magistrati. «Fu di lì che nacque la voce che io fossi legato ai
servizi segreti. Sul giornale socialista scrissero che ero amico di Amos
Spiazzi, coinvolto nel golpe Borghese. In realtà, ricordo solo che la notte tra
il 7 e l'8 dicembre 1970, da capitano degli alpini, comandavo la caserma Cesare
Battisti di Aosta. Ci avevano detto di stare all'erta, ma senza spiegarci
perché. Poi non accade nulla e ce ne dimenticammo». "Adesso è pure più
facile". Qualcosa, i servizi segreti, che rispuntò anche nelle settimane
precedenti il suo arresto a Torino. «Ci giunse una voce: state attenti a usare
i telefoni. Un altro avvertimento mi arrivò da un agente segreto che conoscevo:
un colonnello dei carabinieri. Venne da me il giorno prima degli arresti e mi
disse: "Scappa in Svizzera, domani ti acchiappano. Prendi subito un
treno". Io non lo feci, avevo capito che tutto ormai stava crollando». Da
quel momento, al telefono il geometra e i suoi amici politici cominciarono a
usare parole in codice segnate da una disarmante ingenuità: «Una raffica di
nomignoli, modi dire, allusioni. Io, per esempio, ero Zamps o Zampucchio e soprattutto
l'Omino delle noci. Biffi Gentili era diventato Enzino, l'arganasso era l'affare
su cui rubare, il bubalo era la mazzetta. Novelli lo chiamavamo Penna Bianca.
Il mio capolavoro fu l'incrocio a pettine: era il modo per dirci che su una tangente
eravamo riusciti a mettere assieme il diavolo e l'acqua santa, il Pci e la Dc».
Che cosa serviva per affascinare i politici e gli amministratori di 40 anni fa?
Era poi così diverso da oggi, quando spopolano weekend di massaggi, di compagnie
femminili e di regali di lusso per mogli, fidanzate e amanti? «No, allora non
era il sesso a fare da collante. Diciamo che quello era un personale politico
di un livello superiore. Avevano tutti un'ideologia, credevano nella politica e
cercavano quasi sempre i soldi solo per finanziare la politica. Il vero fascino
in quell'epoca erano ancora i viaggi all'estero per conoscere le aziende da
coinvolgere negli affari. Ho portato comitive di politici e amministratori del
Comune di Torino e della Regione Piemonte in Canada, in Svezia, in Germania e
negli Stati Uniti. In Canada, tutto ciò che mi chiesero fu questo: se c'è un
momento libero, andiamo a vedere le cascate del Niagara? Per il resto eravamo
tutte persone serie, lavoravamo sodo e ci impegnavamo. Io guadagnavo, loro
prendevano le tangenti, null'altro. Eravamo tutti affidabili». Il primo
processo finì con 18 condanne, quasi tutte poi cancellate in appello e dalla
Cassazione. Zampini si prese 15 mesi, ma restò in prigione solo 20 giorni.
Durante il dibattimento, però, cambiò difensore e si presentò una mattina a
fianco di un vero principe del foro, il professor Gian Domenico Pisapia.
«Parcelle stratosferiche, ma mi aiutò a pagarle chi in quella città contava
moltissimo: per farmi stare zitto. Nomi di aziende o di manager di allora non
ne faccio: non ho voglia, a 75 anni, di tornare in un'aula di tribunale». Nel
1983, comunque, il faccendiere aveva trascinato sul banco degli imputati anche
il responsabile dei rapporti con gli enti locali della Fiat, poi assolto.
«Oggi, mentre leggo le cronache di Genova, penso che adesso la politica è fatta
da terze, quarte file rispetto ai politici di allora. Straccioni, gente davvero
da poco. È proprio vero che ciò che viene dopo, persino nella corruzione, è
sempre il peggio». L'Omino delle noci, però, è ormai solo un reperto
archeologico o saprebbe muoversi anche adesso? «Mi dia dei connotati nuovi e un
nome falso e vedrà che saprei ricominciare benissimo. E credo che sarebbe anche
più facile di allora: glielo ripeto, i politici di oggi sono pessimi e cercano
il denaro soprattutto per se stessi. Così pagarli diventa quasi una scampagnata
o, meglio: un weekend a Montecarlo per un massaggio». Qualcuno le hai mai detto
no? «Un geometra come me. Lavorava al Consorzio Agrario di Torino. Io
nascondevo le mazzette dentro delle scatole di cioccolatini. Lui mi rimandò
indietro i soldi, ma si mangiò i cioccolatini».
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