sabato 7 giugno 2025

Lastoriasiamonoi. 65 Edgar Morin: «L'essere umano non è solo razionale: è anche delirante, simbolico, ludico. Ogni progetto politico deve partire da questa complessità».


“A 103 anni vi dico: resistete!”, testo della “conversazione” tra l’intellettuale francese Edgar Morin ed il corrispondente del quotidiano “la Repubblica” Anais Ginori pubblicata sul settimanale “Robinson” del primo di giugno 2025: (…), Morin ha trascorso la vita cercando di afferrare la «complessità del mondo», come scrive ne La Méthode, l'opera monumentale pubblicata tra il 1977 e il 2006 che gli è valsa il soprannome di "Diderot del Novecento". Ha attraversato guerre, ideologie, catastrofi, illusioni. È stato tutto: sociologo, antropologo, militante, resistente, europeo. Più di quaranta università lo hanno nominato dottore honoris causa. In Francia, ci sono già scuole e centri di ricerca che porta· no il suo nome. L'anno ha perso la sua primavera è un romanzo di formazione e di elaborazione del lutto. «È stata la mia Hiroshima», ha detto più volte Morin a proposito della scomparsa improvvisa della madre. Un dolore acuito dal fatto che fu avvolto in una menzogna, pensata per proteggerlo. Il padre gli disse che Luna era partita per un viaggio. Morin ricostruisce la vita parigina degli anni Trenta nella comunità ebraica sefardita. La scuola, le amicizie, il dolore muto, i sogni come vie di fuga, il cinema come spazio di trasfigurazione. «Tutto ciò che riguarda la mia adolescenza, gli anni del liceo e i miei inizi nella Resistenza è autentico», spiega, precisando però che il finale tragico del protagonista segna il punto di distacco dalla realtà. Il protagonista del romanzo, Albert Mercier, è un alter ego del giovane Edgar Nahoum. Durante la Seconda guerra mondiale, per sfuggire alla Gestapo, cambia cognome scegliendo di ispirarsi a Magnin, un personaggio de L'Espoir, il romanzo di André Malraux. A vent'anni diventa partigiano, impara a muoversi nell'ombra, a sfuggire agli arresti, a comprare soffiate e intuire trappole. Un giorno rinuncia a un incontro a Lione per un presentimento: l'amico che lo attende verrà catturato e ucciso. È in clandestinità che conosce Violette Chapellaubeau, prima moglie e madre delle sue figlie. Il giorno della Liberazione entra a Parigi sventolando una bandiera accanto a Marguerìte Duras, sua amica per la vita. Poi parte per Baden-Baden e scrive L'Anno zero della Germania, il suo primo grande reportage su un mondo in macerie. Il lutto è una presenza costante nel romanzo, come in gran parte dell'opera dell'intellettuale francese. Non a caso, il suo primo saggio di antropologia, pubblicato nel 1951, s'intitolava L'Homme et la Mort. Già in quel testo parlava di "resilienza", quando il termine non era di moda. Ricorda di aver rischiato di scomparire prima ancora di nascere - la madre tentò di abortire -, di aver sfiorato la morte durante la Resistenza, di averla incontrata tra le macerie della Germania, e di aver visto scomparire, uno dopo l'altro, gli amici più cari come Marguerite Duras e il compagno Dionys Pascolo con cui ballava a Saint-Germain-des-Prés, «Non è solo perché ho 103 anni. La morte mi ha accompagnato sempre. E non ha mai smesso di colpire attorno a me», confida, senza che un'ombra affiori sul suo viso. Il titolo del romanzo è una citazione di Pericle. «L'anno ha perso la sua primavera, la gioventù ha perso il suo fiore», disse lo stratega ateniese dopo una disfatta. Per Morin, quella primavera perduta è quella degli amici della Resistenza, ma anche di un'intera generazione spezzata dalla guerra. Parlando della sua adolescenza, lancia un messaggio alla gioventù di oggi. «All'epoca l'imperativo era resistere. Oggi il messaggio è ancora resistere, ma a due nuove barbarie». La prima, più antica, fondata sul dominio e sul disprezzo, continua ad agire nelle guerre e nelle repressioni. La seconda, più insidiosa, è nata dal cuore stesso della nostra civiltà: è la "dominazione del calcolo sul pensiero". «Il calcolo non può comprendere la sofferenza, la gioia, l'estasi, l'amore». Cita l'intelligenza artificiale come emblema di un progresso ambivalente. «Potrebbe essere uno strumento meraviglioso, se guidato dalla coscienza. Ma rischia di guidare noi. È l'incarnazione perfetta delle ambivalenze del progresso. Abbiamo creato meraviglie, ma anche la bomba atomica. Il progresso tecnico non implica progresso morale, anzi: spesso coincide con una regressione etica». Il romanzo si muove tra realismo e incursioni oniriche. «Per me il sogno e l'immaginario sono fondamentali. Non sono sovrastrutture nebulose: fanno parte della realtà umana. Ho scritto che l'immaginario è reale. E i sogni, sia a occhi aperti sia durante il sonno, hanno un ruolo centrale nella mia esperienza». E così anche la letteratura, spiega Morin, è una chiave per decifrare il mondo. «Ho cominciato da ragazzo a leggere romanzi e continuo a farlo ancora oggi. Ritengo che il romanzo illumini più dell'accademia ciò che siamo: individui, società, umanità». (…). Morin osserva con inquietudine il ritorno degli estremismi, dei populismi, delle derive identitarie in Europa. Fenomeni che non considera passeggeri. «Due forze si sono imposte fin dagli inizi del secolo: l'egemonia del profitto su ogni altra logica - sociale, ambientale, umana - e la tragedia di chi subisce i colpi della Storia: guerre, migrazioni, disastri». Non si tratta, per lui, di crisi isolate. «Viviamo un'epoca pericolosa. Per la prima volta, la Storia è diventata globale. Eppure, la coscienza della nostra interdipendenza è più fragile che mai». L'idea di una "comunità di destino", teorizzata in Terra-Patria, resta schiacciata da una moltiplicazione di paure. «La gente si rifugia nelle appartenenze particolari e perde la visione dell'insieme», avverte. È un riflesso di difesa che chiama "reazione immunitaria del mondo", e che rischia di alimentare proprio le patologie che vorrebbe respingere. La moglie Sabah, che ha quasi quarant'anni meno di lui, lo invita a fare una pausa, temendo che si stanchi. Lui continua a parlare. «Solo un umanesimo rigenerato può salvarci. Un pensiero capace di unire invece che dividere, di accogliere la complessità invece di negarla». Legge la stampa ogni giorno, scrive, risponde ai messaggi. Ha aperto un account X, dove pubblica riflessioni aforistiche. «Caos: decomposizione o genesi. O entrambe, indissociabilmente», ha scritto di recente. Come se, anche nel disordine del presente, fosse ancora possibile intravedere una forma nascente, un seme di metamorfosi. È da questa urgenza che nasce anche il suo sguardo preoccupato sull'evoluzione politica dell'Occidente. Interrogato su Donald Trurnp, Morìn non si sottrae. Il presidente americano è, secondo lui, il simbolo del disfacimento geopolitico e della crisi delle alleanze nate nel 1945. Per Morin, la vera minaccia all'Europa non viene tanto dalla Russia - «che ha fallito a conquistare l'Ucraina» - quanto dalla deriva interna: l'erosione lenta, ma costante, delle istituzioni democratiche sotto la pressione di leader autoritari con "facciata democratica". «È la crisi della democrazia. Rigenerarla è difficile: servirebbe una vitalità che i partiti non hanno più. E non si tratta di resuscitare la vecchia sinistra, ma di costruire una nuova forma di pensiero politico, capace di superare tanto la socialdemocrazia quanto il comunismo. L'essere umano non è solo razionale: è anche delirante, simbolico, ludico. Ogni progetto politico deve partire da questa complessità». Ha creduto nel Sol dell'Avvenire, e non lo rimpiange. «Sono stato un comunista di guerra, perché ho dato la priorità alla lotta contro il nazismo, trascurando perciò i difetti dello stalinismo. Ma in tempo di pace, appena sono incominciati i processi e le epurazioni, ho stracciato la mia tessera». Nel 1951 era stato definitivamente espulso dalla dirigenza del Pcf per aver criticato in un articolo il Gran Timoniere Mao Tse Tung. Il partito era come una chiesa, ha ricordato. Morìn scrive Autocritique, memorie di un ex comunista. Nel suo album personale conserva foto con molti dei leader della sinistra francese, da Maurice Thorez a François Mitterrand, con i quali ha spesso polemizzato. Negli ultimi anni, Morin ha cambiato spesso casa. Rue Saint-Claude nel Marais, poi rue Vavin a Montparnasse, infine Montpellier, sempre in cerca del sole. «Ci sono ancora scatoloni», si scusava, come se ogni trasloco fosse il riflesso di una mente in movimento. A volte riceveva nei suoi uffici del Cnrs, davanti a un asino di cartapesta riportato dai suoi viaggi in America Latina, dove aveva vissuto gli anni Settanta con la modella canadese Johanne Harelle. «Sono molto affezionato a questo ciucco spelacchiato», sorrideva. Un altro asino, vero, gli è stato regalato in Marocco. L'ha battezzato Platone. Parla volentieri dell'Italia, degli editori e degli amici di lunga data. Si esprime in un "fritagnol" disinvolto, miscuglio affettuoso di francese, italiano e spagnolo. A chi gli chiede il segreto della sua longevità non offre ricette miracolo. «E l'amore di mia moglie» dice con un sorriso. Gli amici che lo frequentano, come Régis Debray, guardano con curiosità al cocktail di vitamine ed erbe mandate dall'America Latina che prende ogni giorno. Se un segreto esiste, è forse quello della sua inesauribile curiosità, con sempre un libro in corso, un'analisi da condividere. Di recente ha pubblicato Ya-t-il des leçons de l'Histoire?, una riflessione sugli insegnamenti - spesso ignorati dei grandi sconvolgimenti del passato. «Le tragedie si susseguono con differenze e trai comuni. Ciò che si ripete è l'inconsapevolezza e sonnambulismo dei governanti e dei popoli quando si vive e si subisce la corsa verso i disastri». Poi a giunge una nota di ottimismo. «Un evento inatteso può prodursi e salvarci. Nel dicembre del 1941, l'esercito nazista era alle porte di Mosca e sembrava non fosse più alcuna speranza per l'Urss. Eppure, tutto cambiò con la prima offensiva vittoriosa russa che liberò Mosca e con l'entrata in guerra degli Stati Uni1 La Germania, che pareva destinata a dominare l'Europa, cominciò a essere minacciata dalla sconfitta Non bisogna mai cedere alla disperazione. La speranza non è una probabilità, è una possibilità». Morin si proietta ancora in avanti. «Sto preparando una riflessione sulla situazione del mondo attuale, sui processi che ci stanno trascinando verso catastrofi possibili. Non so ancora se sarà un saggio breve o un libro. Ma la vedo come la mia ultima opera sul mondo contemporaneo». Alla festa dell'Eliseo, per suoi cento anni, aveva concluso il discorso con ironia e disincanto: «Ho passato la mia vita a essere un, studente. A riflettere su cosa significhi essere vivi».

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