“A 103 anni
vi dico: resistete!”, testo della “conversazione” tra l’intellettuale
francese Edgar Morin ed il corrispondente del
quotidiano “la Repubblica” Anais Ginori pubblicata sul settimanale “Robinson” del
primo di giugno 2025: (…), Morin ha trascorso la vita cercando di
afferrare la «complessità del mondo», come scrive ne La Méthode, l'opera
monumentale pubblicata tra il 1977 e il 2006 che gli è valsa il soprannome di
"Diderot del Novecento". Ha attraversato guerre, ideologie,
catastrofi, illusioni. È stato tutto: sociologo, antropologo, militante,
resistente, europeo. Più di quaranta università lo hanno nominato dottore
honoris causa. In Francia, ci sono già scuole e centri di ricerca che porta· no
il suo nome. L'anno ha perso la sua primavera è un romanzo di formazione e di
elaborazione del lutto. «È stata la mia Hiroshima», ha detto più volte Morin a
proposito della scomparsa improvvisa della madre. Un dolore acuito dal fatto
che fu avvolto in una menzogna, pensata per proteggerlo. Il padre gli disse che
Luna era partita per un viaggio. Morin ricostruisce la vita parigina degli anni
Trenta nella comunità ebraica sefardita. La scuola, le amicizie, il dolore
muto, i sogni come vie di fuga, il cinema come spazio di trasfigurazione.
«Tutto ciò che riguarda la mia adolescenza, gli anni del liceo e i miei inizi
nella Resistenza è autentico», spiega, precisando però che il finale tragico
del protagonista segna il punto di distacco dalla realtà. Il protagonista del
romanzo, Albert Mercier, è un alter ego del giovane Edgar Nahoum. Durante la
Seconda guerra mondiale, per sfuggire alla Gestapo, cambia cognome scegliendo
di ispirarsi a Magnin, un personaggio de L'Espoir, il romanzo di André Malraux.
A vent'anni diventa partigiano, impara a muoversi nell'ombra, a sfuggire agli
arresti, a comprare soffiate e intuire trappole. Un giorno rinuncia a un
incontro a Lione per un presentimento: l'amico che lo attende verrà catturato e
ucciso. È in clandestinità che conosce Violette Chapellaubeau, prima moglie e
madre delle sue figlie. Il giorno della Liberazione entra a Parigi sventolando
una bandiera accanto a Marguerìte Duras, sua amica per la vita. Poi parte per
Baden-Baden e scrive L'Anno zero della Germania, il suo primo grande reportage
su un mondo in macerie. Il lutto è una presenza costante nel romanzo, come in
gran parte dell'opera dell'intellettuale francese. Non a caso, il suo primo
saggio di antropologia, pubblicato nel 1951, s'intitolava L'Homme et la Mort.
Già in quel testo parlava di "resilienza", quando il termine non era
di moda. Ricorda di aver rischiato di scomparire prima ancora di nascere - la
madre tentò di abortire -, di aver sfiorato la morte durante la Resistenza, di
averla incontrata tra le macerie della Germania, e di aver visto scomparire,
uno dopo l'altro, gli amici più cari come Marguerite Duras e il compagno Dionys
Pascolo con cui ballava a Saint-Germain-des-Prés, «Non è solo perché ho 103
anni. La morte mi ha accompagnato sempre. E non ha mai smesso di colpire
attorno a me», confida, senza che un'ombra affiori sul suo viso. Il titolo del
romanzo è una citazione di Pericle. «L'anno ha perso la sua primavera, la
gioventù ha perso il suo fiore», disse lo stratega ateniese dopo una disfatta.
Per Morin, quella primavera perduta è quella degli amici della Resistenza, ma
anche di un'intera generazione spezzata dalla guerra. Parlando della sua
adolescenza, lancia un messaggio alla gioventù di oggi. «All'epoca l'imperativo
era resistere. Oggi il messaggio è ancora resistere, ma a due nuove barbarie».
La prima, più antica, fondata sul dominio e sul disprezzo, continua ad agire
nelle guerre e nelle repressioni. La seconda, più insidiosa, è nata dal cuore
stesso della nostra civiltà: è la "dominazione del calcolo sul
pensiero". «Il calcolo non può comprendere la sofferenza, la gioia,
l'estasi, l'amore». Cita l'intelligenza artificiale come emblema di un
progresso ambivalente. «Potrebbe essere uno strumento meraviglioso, se guidato
dalla coscienza. Ma rischia di guidare noi. È l'incarnazione perfetta delle
ambivalenze del progresso. Abbiamo creato meraviglie, ma anche la bomba
atomica. Il progresso tecnico non implica progresso morale, anzi: spesso
coincide con una regressione etica». Il romanzo si muove tra realismo e
incursioni oniriche. «Per me il sogno e l'immaginario sono fondamentali. Non
sono sovrastrutture nebulose: fanno parte della realtà umana. Ho scritto che
l'immaginario è reale. E i sogni, sia a occhi aperti sia durante il sonno,
hanno un ruolo centrale nella mia esperienza». E così anche la letteratura,
spiega Morin, è una chiave per decifrare il mondo. «Ho cominciato da ragazzo a
leggere romanzi e continuo a farlo ancora oggi. Ritengo che il romanzo illumini
più dell'accademia ciò che siamo: individui, società, umanità». (…). Morin
osserva con inquietudine il ritorno degli estremismi, dei populismi, delle
derive identitarie in Europa. Fenomeni che non considera passeggeri. «Due forze
si sono imposte fin dagli inizi del secolo: l'egemonia del profitto su ogni
altra logica - sociale, ambientale, umana - e la tragedia di chi subisce i
colpi della Storia: guerre, migrazioni, disastri». Non si tratta, per lui, di
crisi isolate. «Viviamo un'epoca pericolosa. Per la prima volta, la Storia è
diventata globale. Eppure, la coscienza della nostra interdipendenza è più
fragile che mai». L'idea di una "comunità di destino", teorizzata in
Terra-Patria, resta schiacciata da una moltiplicazione di paure. «La gente si
rifugia nelle appartenenze particolari e perde la visione dell'insieme»,
avverte. È un riflesso di difesa che chiama "reazione immunitaria del
mondo", e che rischia di alimentare proprio le patologie che vorrebbe
respingere. La moglie Sabah, che ha quasi quarant'anni meno di lui, lo invita a
fare una pausa, temendo che si stanchi. Lui continua a parlare. «Solo un
umanesimo rigenerato può salvarci. Un pensiero capace di unire invece che
dividere, di accogliere la complessità invece di negarla». Legge la stampa ogni
giorno, scrive, risponde ai messaggi. Ha aperto un account X, dove pubblica
riflessioni aforistiche. «Caos: decomposizione o genesi. O entrambe,
indissociabilmente», ha scritto di recente. Come se, anche nel disordine del
presente, fosse ancora possibile intravedere una forma nascente, un seme di
metamorfosi. È da questa urgenza che nasce anche il suo sguardo preoccupato
sull'evoluzione politica dell'Occidente. Interrogato su Donald Trurnp, Morìn
non si sottrae. Il presidente americano è, secondo lui, il simbolo del
disfacimento geopolitico e della crisi delle alleanze nate nel 1945. Per Morin,
la vera minaccia all'Europa non viene tanto dalla Russia - «che ha fallito a
conquistare l'Ucraina» - quanto dalla deriva interna: l'erosione lenta, ma
costante, delle istituzioni democratiche sotto la pressione di leader
autoritari con "facciata democratica". «È la crisi della democrazia.
Rigenerarla è difficile: servirebbe una vitalità che i partiti non hanno più. E
non si tratta di resuscitare la vecchia sinistra, ma di costruire una nuova
forma di pensiero politico, capace di superare tanto la socialdemocrazia quanto
il comunismo. L'essere umano non è solo razionale: è anche delirante,
simbolico, ludico. Ogni progetto politico deve partire da questa complessità». Ha
creduto nel Sol dell'Avvenire, e non lo rimpiange. «Sono stato un comunista di
guerra, perché ho dato la priorità alla lotta contro il nazismo, trascurando
perciò i difetti dello stalinismo. Ma in tempo di pace, appena sono
incominciati i processi e le epurazioni, ho stracciato la mia tessera». Nel
1951 era stato definitivamente espulso dalla dirigenza del Pcf per aver
criticato in un articolo il Gran Timoniere Mao Tse Tung. Il partito era come
una chiesa, ha ricordato. Morìn scrive Autocritique, memorie di un ex
comunista. Nel suo album personale conserva foto con molti dei leader della
sinistra francese, da Maurice Thorez a François Mitterrand, con i quali ha
spesso polemizzato. Negli ultimi anni, Morin ha cambiato spesso casa. Rue
Saint-Claude nel Marais, poi rue Vavin a Montparnasse, infine Montpellier,
sempre in cerca del sole. «Ci sono ancora scatoloni», si scusava, come se ogni
trasloco fosse il riflesso di una mente in movimento. A volte riceveva nei suoi
uffici del Cnrs, davanti a un asino di cartapesta riportato dai suoi viaggi in
America Latina, dove aveva vissuto gli anni Settanta con la modella canadese
Johanne Harelle. «Sono molto affezionato a questo ciucco spelacchiato»,
sorrideva. Un altro asino, vero, gli è stato regalato in Marocco. L'ha battezzato
Platone. Parla volentieri dell'Italia, degli editori e degli amici di lunga
data. Si esprime in un "fritagnol" disinvolto, miscuglio affettuoso
di francese, italiano e spagnolo. A chi gli chiede il segreto della sua
longevità non offre ricette miracolo. «E l'amore di mia moglie» dice con un
sorriso. Gli amici che lo frequentano, come Régis Debray, guardano con
curiosità al cocktail di vitamine ed erbe mandate dall'America Latina che
prende ogni giorno. Se un segreto esiste, è forse quello della sua inesauribile
curiosità, con sempre un libro in corso, un'analisi da condividere. Di recente
ha pubblicato Ya-t-il des leçons de l'Histoire?, una riflessione sugli
insegnamenti - spesso ignorati dei grandi sconvolgimenti del passato. «Le
tragedie si susseguono con differenze e trai comuni. Ciò che si ripete è
l'inconsapevolezza e sonnambulismo dei governanti e dei popoli quando si vive e
si subisce la corsa verso i disastri». Poi a giunge una nota di ottimismo. «Un
evento inatteso può prodursi e salvarci. Nel dicembre del 1941, l'esercito
nazista era alle porte di Mosca e sembrava non fosse più alcuna speranza per
l'Urss. Eppure, tutto cambiò con la prima offensiva vittoriosa russa che liberò
Mosca e con l'entrata in guerra degli Stati Uni1 La Germania, che pareva
destinata a dominare l'Europa, cominciò a essere minacciata dalla sconfitta Non
bisogna mai cedere alla disperazione. La speranza non è una probabilità, è una
possibilità». Morin si proietta ancora in avanti. «Sto preparando una
riflessione sulla situazione del mondo attuale, sui processi che ci stanno
trascinando verso catastrofi possibili. Non so ancora se sarà un saggio breve o
un libro. Ma la vedo come la mia ultima opera sul mondo contemporaneo». Alla
festa dell'Eliseo, per suoi cento anni, aveva concluso il discorso con ironia e
disincanto: «Ho passato la mia vita a essere un, studente. A riflettere su cosa
significhi essere vivi».
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