venerdì 6 giugno 2025

MadeinItaly. 49 Zineb Soukrati: «A scuola ero tra le prime della classe, cantavo l'inno di Mameli, conoscevo la Costituzione quasi a memoria. Rispondevo "pizza" ogni volta che mi chiedevano il piatto preferito, e la mia città del cuore è sempre stata e resta Roma. Eppure, non ero italiana».


(…). Tutti danno per scontato che il quorum non sarà raggiunto e, numeri alla mano, è probabilmente vero. Conta il fatto che se ne sia parlato così poco, che il dibattito pubblico sia monopolizzato da altro (perfino da fatti di cronaca vecchi di quasi vent’anni). Pesa, e non poco, anche la circostanza che, in una realtà sempre più frammentata, non ci sia più una società del lavoro e dunque una coscienza diffusa del diritto ad avere diritti. Ciascuno tira a campare, in una rassegnazione collettiva che pare inscalfibile. Sempre più lavoratori poveri, la ricchezza concentrata in sempre meno mai: il lavoro che fonda la Repubblica è lettera morta, ridotto a una data simbolica all’inizio di maggio quando sempre più persone che non si occupano di servizi essenziali sono costrette a lavorare. E si digerisce tutto perché i lavoratori non hanno più leve (e rischiano la galera se protestano). Eppure, come ricordava il professor Brancaccio sull’Unità, le stesse istituzioni che per anni hanno propugnato la deregulation, ammettono che questa politica non crea posti di lavoro: “Già la Banca mondiale nel 2013 riconosceva che ‘l’impatto della flessibilità del lavoro è insignificante o modesto’. Il Fondo monetario internazionale, nel 2016, è giunto alla conclusione che le deregolamentazioni del lavoro ‘non hanno effetti statisticamente significativi sull’occupazione’”. Eppure, a leggere i giornali di queste settimane, è tutto un affannarsi a difendere politiche fallimentari, per interessi di bottega, propri o in conto terzi. Caro papà (avvocato giuslavorista n.d.r.), mi dispiace che abbiamo perso la battaglia per il lavoro come valore costituzionale: era una battaglia per una società più equa e quindi più felice. Speriamo in un miracolo del fine settimana o almeno in un segno forte di risveglio: prima o poi qualcuno dovrà spiegare che in gioco non ci sono solo quei vecchi arnesi novecenteschi che rispondono al nome di uguaglianza e giustizia, ma la sopravvivenza della società. (Tratto da “Una vecchia lezione sul lavoro e i miseri trucchi della premier” di Silvia Truzzi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di ieri, giovedì 5 di giugno 2025).

UnaVitaVissuta”. «Nata in Italia, ho l’inno di Mameli in testa: ma rimango “straniera”», testo di Zineb Soukrati pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 17 di maggio 2025: Sono nata in Italia, nel cuore della Pianura padana, a Legnago in provincia di Verona. A scuola ero tra le prime della classe, cantavo l'inno di Mameli, conoscevo la Costituzione quasi a memoria. Rispondevo "pizza" ogni volta che mi chiedevano il piatto preferito, e la mia città del cuore è sempre stata e resta Roma. Eppure, non ero italiana. Per anni, nonostante fossi nata e cresciuta in questo Paese, lo Stato mi ha trattata come una straniera. Nessuna accoglienza, solo code interminabili, moduli, attese, silenzi. E una domanda che mi ha accompagnata fin da bambina: perché io no? Perché per andare in gita scolastica dovevo esibire un permesso di soggiorno, mentre ai miei compagni bastava una firma dei genitori? Perché dovevo svegliarmi prima dell'alba e fare ore di coda in questura, mentre gli altri dormivano? Perché ero costretta a saltare la scuola per chiedere il diritto di restare nel Paese dove ero nata? Ogni dodici mesi ripetevamo lo stesso rituale: sveglia alle cinque, documenti in borsa, io e mia madre in fila davanti a un portone chiuso, spesso anche sotto la pioggia, sperando che ci fosse posto, che tutto fosse in regola, che nessuno ci dicesse che mancava un timbro. Lo chiamavano "permesso di soggiorno", ma a me sembrava più un "permesso di esistere". E ricordo anche le parole di mia madre, ripetute come una formula magica: "Studia, fai tutto bene. Così nessuno potrà dirti che non te lo meriti”. Per meritarmi cosa? Il diritto di essere riconosciuta dal Paese in cui sono nata? Quando a 17 anni ho finalmente ottenuto la cittadinanza italiana, pensavo che quel momento avrebbe cancellato in un colpo solo le umiliazioni, le attese, le differenze ingiuste, ma non è stato così. Perché nel frattempo avevo già assorbito, dentro di me, quelle differenze. E nessun pezzo di carta può cancellare ciò che hai vissuto, le parole che ti hanno ferita, gli sguardi che ti hanno esclusa, le volte in cui ti hanno detto "tornatene al tuo Paese" senza capire che questo è sempre stato il mio Paese. Avevo imparato a lavorare più degli altri, a chinare la testa, a non sbagliare mai. Bastava un passo falso perché qualcuno dicesse: "Vedi? Sono tutti uguali". Eppure oggi, a 23 anni, lavoro per le istituzioni europee, per l'Italia. Ogni giorno rappresento con orgoglio e senso di responsabilità quel Paese che per troppo tempo ha fatto finta di non vedermi. Non racconto questa storia per orgoglio personale, non è un traguardo da esibire, ma una responsabilità da condividere. Perché so bene che se oggi sono qui lo devo anche al fatto che a un certo punto la cittadinanza l'ho ottenuta. Che ho potuto uscire in tempo da quel limbo burocratico che ancora oggi intrappola centinaia di migliaia di ragazze e ragazzi come me. La mia storia, quindi, non è solo mia: è la storia di chi è nato o cresciuto in Italia, ma che lo Stato continua a considerare straniero. Di chi ha talento, determinazione, voglia di contribuire ma che si scontra con una legge vecchia di 30 anni pensata in un'epoca in cui l’Italia era un Paese molto diverso da quello di oggi. L'8 e il 9 giugno abbiamo una possibilità storica: quella di dire sì a una riforma della cittadinanza più giusta, più moderna, più aderente alla realtà. Non si tratta di "regalare" nulla né di concedere cittadinanze indiscriminate poiché nessuno domani diventerà automaticamente italiano. Parliamo di oltre 2 milioni di ragazzi e ragazze che si sentono italiani, parlano italiano, studiano in Italia, vivono come italiani in tutto, tranne che nei documenti. Parliamo di un sistema che continua a dire loro: aspetta, dimostra, merita, mentre agli altri basta esser nati qui. Votare SÌ a questa riforma è un atto di giustizia, di verità, di buonsenso. È un modo per dire che vediamo la realtà per quella che è, non per quella che era nel 1992. Non è questione di ideologia. È una questione di equità. Di dignità. Di futuro.

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