lunedì 9 giugno 2025

MadreTerra. 47 Michela Murgia: «Le arcadie dell'anima finiscono sempre per troppa verità, per l'ansia tutta adulta di segnare la distanza tra ciò che è stato e ciò che si desiderava potesse essere».


“La farfalla ha fatto il miracolo”, testo inedito di Michela Murgia riportato sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 8 di giugno 2025: Avevo otto anni quando la mia prima farfalla morì appesa al fondo di un tavolo in camera di mio fratello Cristiano. Per nessuno di noi due quella era una farfalla preziosa, perché la sua specie non era rara: le cavolaie, con le loro dozzinali ali bianco yogurt e quel punto nero così simile a una pupilla accecata, sono l'incarnazione perfetta della banalità applicata ai lepidotteri. Sebbene avessimo gusti diversi in materia di insetti volanti, quelle farfalline bianche le detestavamo entrambi. Lui aveva un debole per le pelose farfalle notturne dalle antenne radar spesse come pettinini. Non gli importava che non avessero particolari colori da sfoggiare - le farfalle notturne non ne hanno bisogno - ma era affascinato dalle strutture robuste dei loro corpi tozzi e dalle loro ali da macchine leonardesche, con i profili robusti che sembravano fatti di un qualche misterioso legno sottile. Io preferivo di gran lunga le delicatissime diurne con le loro livree sgargianti, dai contorni più leggeri di un ricamo su un aquilone. Mi catturava la grinta cromatica delle maestose macaone, tutte oro, neri e lapislazzulo, ma ancora di più la sontuosità dei grandi esemplari della vanessa pavone, così rara da scorgere alle nostre latitudini da farci gridare in festa ogni volta che ne scorgevamo una. Purtroppo però i loro bruchi erano delicatissimi e difficili da trovare in numero sufficiente da poterci sperimentare un allevamento in cattività. Era per questo che avevamo in casa le larve delle cavolaie, promesse verdi di farfalline da nulla che, come spesso fanno le nullità, prosperavano ovunque senza particolare bisogno di aiuto. Nella stanza del ping pong tenevo decine di bruchi di cavolaia ai quali davo da mangiare vecchie foglie di cavolfiore e cavolo cappuccio, roba di scarto che il fruttivendolo sotto casa mi dava gratis due volte alla settimana. Il ciclo di trasformazione delle cavolaie era rapido: dopo aver mangiato fino a tendere allo spasimo la pelle verde dei loro corpi mollicci, i vermi si spostavano tutti sotto il piano del tavolo da ping pong e, obbedendo agli ordini perentori del misterioso architetto d'interni che gli albergava dentro, si appendevano uno ad uno a testa in giù come surreali impiccati. Succedeva di preferenza al calare della notte, se la luna e il clima erano favorevoli al mutamento. In quella fase furtiva della loro vita io e mio fratello non potevamo fare niente. Mi limitavo a osservarli migrare sul lato inverso del piano di compensato e poi andavo a letto: al mattino i bruchi erano scomparsi, insaccati nei sarcofaghi cheratinosi delle crisalidi che si erano costruiti con Dio solo sa quale sostanza autoprodotta. Non dovevo far altro che aspettare. Ma per una bambina di otto anni era proprio quella la parte più difficile. Le crisalidi, sebbene il tempo di muta mi sembrasse infinito, cambiavano di giorno in giorno quasi impercettibilmente, passando da un iniziale spessore impenetrabile a una trasparenza madreperlacea sotto alla quale, col trascorrere del tempo, si intuivano con sempre maggior nitore i contorni contratti di aliene forme di vita. Per immaginare che dentro quei ventisette tozzetti opalescenti ci fossero davvero le ali ampie di altrettante farfalle, per quanto vili come la cavolaia, occorreva tuttavia una fede nel prodigio che al mondo appartiene solo ai bambini e ai profeti. Io quella fede l'avevo tutta e sapevo che l'avrei vista premiata in gloria nel giorno in cui si sarebbe schiusa la prima imbozzolata della mia storia di madre di farfalle. Non mancava molto. Le crisalidi delle cavolaie si aprirono tutte all'improvviso nel medesimo pomeriggio di aprile, come per un segnale concordato, richiamandoci a guardarle con gli occhi pieni di meraviglia. Le contavo trepidamente una ad una mentre il sole che entrava dal giardino faceva brillare le ali umide delle neonate e la stanza echeggiava delle grida eccitate di Cristiano a celebrarne ogni movimento minimo. In due sbalorditive ore di lavorio le farfalle emersero tutte dai bozzoli, lasciando sotto il tavolo del ping pong le stalattiti organiche dei carapaci croccanti, divenuti ormai fragili sculture di carta velina. Davanti alla danza timida e ancora senza volo dei giovani lepidotteri io e mio fratello ci guardammo con un impronunciabile senso di onnipotenza. Erano le farfalle dei bruchi che avevamo scelto. Li avevamo nutriti noi. Li avevamo scaldati, avevamo offerto loro riparo e sostegno per la trasformazione e avevamo sognato l'eleganza delle loro ali quando ancora non erano che vermi sgraziati. Le avevamo create noi con la nostra speranza. Eravamo Dio. Le farfalle presero il volo nella stanza una dopo l'altra, muovendosi in uno scomposto turbinìo che pian piano si disciplinò, assumendo per istinto collettivo il verso di una sinusoide ascendente. Man mano che le ali si asciugavano e la cheratina diventava più rigida, le bestiole raggiungevano il soffitto con sempre maggiore sicurezza di volo e poi ne discendevano leggere, come piume sprimacciate di un cuscino. Sapevamo che avremmo dovuto liberarle in giardino da lì a poco, ma quella nevicata di ali candide era uno spettacolo troppo inedito per non goderne fino all'ultimo. Solo quando, una volta aperta la finestra, i lepidotteri uscirono per gettarsi avidi nelle aiuole del giardino di casa, io e mio fratello ci rendemmo conto che una farfalla non si era mai alzata in volo, ma era rimasta immobile sulla punta estrema della sua crisalide con la staticità dispotica di una polena in prua. Tremava come avevano fatto tutte le altre, ma quel fremito non sembrava progettuale. Non era il raduno delle forze prima dello slancio coraggioso verso l'aria. Mio fratello prese la lente di ingrandimento e insieme osservammo con attenzione la struttura della bestiola e il suo comportamento, trovando quasi subito la spiegazione della sua immobilità. Per una causa che ci sfuggiva, la crisalide di quella farfalla era stata danneggiata in una fase della mutazione in cui le ali erano già formate, fragili al punto che una volta emerse dal bozzolo una risultava spezzata e adesa al corpo dell'insetto con un'inclinazione del tutto sbagliata. L'aria l'aveva asciugata così, consolidando la frattura in modo irreversibile e condannando l'animale a non potersi mai alzare in volo. La spietatezza di quel destino mi ferì all'improvviso e in modo feroce; dimenticai di avere davanti una cavolaia come ce n'erano altre mille e vidi invece la mia farfalla, quella precisa tra mille imprecise, che dentro la sua culla-tomba si era preparata per settimane un paio d'ali sventurate che non avrebbe mai sbattuto in volo. Davanti alla condanna di quell'essere vivente senza colpa sentii il peso di un'ingiustizia profondissima e, pur senza la pretesa di immaginare in lei un minimo di consapevolezza, lessi nel suo tremore isterico l'intuizione istintiva di una fine precocissima. Stava morendo di fame. Lo sforzo di uscire dalla crisalide aveva infatti prosciugato tutte le sue energie, ma l'impossibilità di volare rendeva inarrivabile il cibo che le sarebbe stato indispensabile assumere subito. Io e mio fratello sapevamo tutto di come si nutrono i bruchi, ma nulla potevamo fare per venire incontro al complicatissimo apparato boccale di quella creatura eterea, così complessa che degli avanzi delle nostre foglie di cavolo non sapeva assolutamente che farsene. Innanzi alla durezza della sua condanna, per impedire la quale non potevo fare niente, scoppiai in un pianto singhiozzante che coinvolse in pochi istanti anche mio fratello. Insieme ci eravamo creduti Dio e insieme per la prima volta misuravamo in lacrime la differenza che passa tra il sentirsi onnipotenti e l'esserlo davvero. Mentre il tremore della farfalla regrediva a sussulto e gli spasmi delle sue ali bianche spandevano per la stanza un senso di crescente ineluttabilità, noi ci agitavamo in preda a una frenesia inconcludente e differenziata. Cristiano sfogliava il libro di entomologia alla ricerca di un modo accessibile per nutrire le farfalle adulte. Io, stravolta dalla consapevolezza della morte di cui gli stessi muri mi sembravano impregnarsi istante dopo istante, prendevo a calci gli oggetti e i mobili, maledicendo il cielo per quel dolore che mi appariva privo di necessità. Era passata solo mezz'ora da quando le farfalle sane se ne erano andate, ma a quella con le ali infrante era stata più che sufficiente per avvicinarsi pericolosamente allo stato di immobilità. A testa in giù sotto il tavolo del ping pong, non aveva più neppure le forze per tremare e tutte le sue energie si erano concentrate sulla respirazione finale. (…). Quando la farfalla morì non lo capimmo con precisione, perché non cadde mai dalla crisalide: le zampe erano rimaste artigliate al carapace per tutta l'agonia, con un ossessivo senso di appartenenza che non cessò neppure nella stasi della morte. Davanti al suo cadavere a testa in giù fummo travolti da un inspiegabile senso di colpa. Fu con quella sensazione addosso che sussurrai a mio fratello: - Seppelliamola. Con un lampo di sollievo negli occhi lui annuì e si mise all'opera. La fase organizzativa lo distrasse rapidamente dal dispiacere per la perdita dell'animale. - In fondo erano ventisette, una su ventisette non è tanto, lo udii mormorare quasi giustificandosi. Ma quella considerazione statistica, che a lui sembrava alleggerire il peso dei fatti, a me parve invece una bestemmia imperdonabile, come se il tremore ossessivo di cui eravamo stati testimoni non fosse in fondo niente altro che una mera questione contabile. Tutto compreso nel compito di arredatore funebre, mio fratello mi propose la scelta della bara tra una scatola vuota di fiammiferi svedesi e la capsula porta-sorpresina di un ovetto Kinder. Senza pensare indicai la scatola, poi mi distesi sul letto fissando il soffitto con gli occhi ancora gonfi di pianto, gelosa di quello che non avevo ancora gli strumenti per definire come il primo lutto della mia vita. Mentre mio fratello raccoglieva in giardino i fiori di campo con cui foderare il sacello della cavolaia, io progettavo preghiere come vendette. Mia madre e mio padre non erano credenti particolarmente efficienti, ma io per fortuna ero cresciuta con mia nonna, una matriarca devotissima sostenuta da una fede tanto più forte quanto vaghe erano le fondamenta teologiche su cui poteva radicarla una donna senza neanche la terza elementare. Per mia nonna i problemi di fede si risolvevano nel credere con tutte le forze a poche cose inconfutabili: Dio è buono e giusto, i buoni risorgeranno, i cattivi andranno all'Interno e nessuno scamperà al giudizio. Nell'economia di quella religione elementare, la forza performativa dell'irrazionalità era superiore a qualunque evidenza: se la preghiera si fosse avverata secondo le aspettative, la fede di mia nonna ne sarebbe uscita rafforzata; ma se pure la preghiera non avesse dato i risultati richiesti, mia nonna non avrebbe tentennato di un solo millimetro, attribuendo il fallimento della sua prece all'incomprensibilità del piano altissimo e divinissimo di Dio. Per quel che mi era dato di capire a otto anni, così congegnato il sistema funzionava. Chiusi dunque gli occhi e mi giocai tutta l'innocenza dell'infanzia, l'unica arcadia che ci è dato attraversare in vita, in una preghiera che era insieme determinata e illogica: chiesi a Dio che la mia cavolaia risorgesse. Non avevo mai domandato niente all'Essere Perfettissimo Creatore e Signore del Cielo e della Terra e in quel momento mi sembrava un merito, come se avessi un conto in attivo di richieste inevase che mi dava il diritto di pretendere priorità d'ascolto rispetto a chi lo molestava quotidianamente. Neanche per un attimo mi venne in mente che avrebbe potuto non esaudirmi. Non smisi di pregare per la resurrezione della farfalla neanche quando mio fratello mi chiamò in giardino per dirmi che era tutto pronto per il funerale. Continuai a chiederlo mentre insieme scavavamo la buca per la scatola. Mio fratello mi fissava. Intensificai la richiesta mentre dicevamo l'Ave Maria per la farfalla, prima di gettare sulla bara di cartoncino il terriccio per coprirla. Con le lacrime agli occhi strinsi la spalla di Cristiano mormorando: - Vedrai, risorgerà. Tu ci credi alla resurrezione? Lui non rispose, ma io non avevo fretta di offrirgli le prove che fosse tutto fondato. Sapevo che a volte le preghiere non si avverano subito. Avrei atteso la notte e poi al mattino sarei andata a cercare nella scatola di fiammiferi il corpo della farfalla, certa di trovare la terra rimossa e la tomba vuota come quella di Gesù il lunedì di Pasqua. Tornammo in casa, ripulimmo il fondo del tavolo dalle crisalidi vuote ancora attaccate e riportammo la stanza nelle condizioni per poter accogliere la nuova nidiata di bruchi di cavolaia, ma io pensavo continuamente all'indomani mattina. Mio fratello mi fissava e io gli sorridevo fiduciosa. Il giorno dopo spalancai gli occhi con la stessa elettrica aspettativa di una mattina di Natale. Ancora in pigiama corsi in giardino alla tomba della cavolaia e con immenso stupore vidi che la terra ne era stata rimossa e la scatola aveva il cassettino aperto, pieno solo di fiori avvizziti. La farfalla non c'era più. Lanciai un grido gioioso e corsi in camera di mio fratello con i piedi nudi sporchi di terra, incurante delle impronte di cui mia madre mi avrebbe rabbiosamente chiesto conto. Cristiano mi fissò torvo tra le coperte assonnato e incredulo, poi si alzò e venne malvolentieri con me in giardino, fermandosi a pochi passi dal luogo della tomba. Fissando con attenzione le prove evidenti di quella che non poteva essere altro che una resurrezione, esclamò: - Incredibile. È un miracolo... Andammo a scuola sovreccitati e io raccontai a tutti i miei compagni e alle maestre incredule che la mia farfalla era risorta. Pranzai con nonna in preda a una felicità senza pari, sentendomi in piena confidenza con il potente e misericordioso Signore dell'Universo che risvegliava a comando i voli di una farfalla e i sogni ambiziosi di una bambina. Non misi ma più in dubbio le storie di miracoli che nonna la sera mi raccontava, confidando nella mia voglia di emulazione del successo spirituale dei santi. Quando i miei compagni dopo la cresima abbandonarono la parrocchia per non tornarci prima delle nozze o di qualche dipartita familiare, io invece ci rimasi volentieri, feci l'animatore dell'oratorio e non saltai nemmeno un, messa domenicale. Passarono quattordici anni prima che mio fratello durante una litigata feroce a margine di un Natale di quelli in cui ti svegli senza più aspettarti niente, mi gridasse in faccia che la farfalla non era mai risorta L'aveva dissotterrata lui, l'aveva tolta lui dalla scatola di fiammiferi e l'aveva buttata lui di nascosto nel l'immondizia avvolta in un tovagliolino di carta, perché io trovassi la tomba vuota e non smettessi di credere ai miracoli. Me lo gridò dandomi dell'ingrata, come se davvero gli sembrasse nobile dirmi che il conto della mia fiducia in Dio dovevo pagarlo con la mia fiducia in lui. A farmi male non fu la rivelazione in sé: che la cavolaia fosse risorta era una cosa a cui dovevo per forza aver smesso di credere durante la mia giovinezza, in uno di quegli istanti cinici in cui la fede nell'inverosimile si stacca dai ricordi del vero per restare indietro e non raggiungerli più. Non è tanto grave scoprire che alcune delle cose che ti hanno fondato, quelle sulle quali hai edificato interi castelli di convinzioni e di scelte, sono in realtà dei falsi ideologici. Quello che davvero fa male è perdere i complici della propria innocenza, gli unici che possono testimoniare che siamo dei sopravvissuti, perché abbiamo attraversato un mondo parallelo e magico in cui il tempo poteva essere fermato con la volontà, i mostri degli armadi si sconfiggevano con un'abat-jour, le api parlavano una lingua comprensibile, i genitori avevano tutte le risposte necessarie e le farfalle, anche le più insulse, risorgevano dalle tombe. Le arcadie dell'anima finiscono sempre per troppa verità, per l'ansia tutta adulta di segnare la distanza tra ciò che è stato e ciò che si desiderava potesse essere.

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