“La farfalla
ha fatto il miracolo”, testo inedito di Michela Murgia riportato sul
settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” di ieri, domenica 8 di
giugno 2025: Avevo otto anni quando la mia prima farfalla morì appesa al fondo di un
tavolo in camera di mio fratello Cristiano. Per nessuno di noi due quella era una
farfalla preziosa, perché la sua specie non era rara: le cavolaie, con le loro
dozzinali ali bianco yogurt e quel punto nero così simile a una pupilla
accecata, sono l'incarnazione perfetta della banalità applicata ai lepidotteri.
Sebbene avessimo gusti diversi in materia di insetti volanti, quelle farfalline
bianche le detestavamo entrambi. Lui aveva un debole per le pelose farfalle
notturne dalle antenne radar spesse come pettinini. Non gli importava che non avessero
particolari colori da sfoggiare - le farfalle notturne non ne hanno bisogno -
ma era affascinato dalle strutture robuste dei loro corpi tozzi e dalle loro
ali da macchine leonardesche, con i profili robusti che sembravano fatti di un
qualche misterioso legno sottile. Io preferivo di gran lunga le delicatissime
diurne con le loro livree sgargianti, dai contorni più leggeri di un ricamo su
un aquilone. Mi catturava la grinta cromatica delle maestose macaone, tutte
oro, neri e lapislazzulo, ma ancora di più la sontuosità dei grandi esemplari
della vanessa pavone, così rara da scorgere alle nostre latitudini da farci
gridare in festa ogni volta che ne scorgevamo una. Purtroppo però i loro bruchi
erano delicatissimi e difficili da trovare in numero sufficiente da poterci
sperimentare un allevamento in cattività. Era per questo che avevamo in casa le
larve delle cavolaie, promesse verdi di farfalline da nulla che, come spesso
fanno le nullità, prosperavano ovunque senza particolare bisogno di aiuto.
Nella stanza del ping pong tenevo decine di bruchi di cavolaia ai quali davo da
mangiare vecchie foglie di cavolfiore e cavolo cappuccio, roba di scarto che il
fruttivendolo sotto casa mi dava gratis due volte alla settimana. Il ciclo di
trasformazione delle cavolaie era rapido: dopo aver mangiato fino a tendere
allo spasimo la pelle verde dei loro corpi mollicci, i vermi si spostavano
tutti sotto il piano del tavolo da ping pong e, obbedendo agli ordini perentori
del misterioso architetto d'interni che gli albergava dentro, si appendevano
uno ad uno a testa in giù come surreali impiccati. Succedeva di preferenza al
calare della notte, se la luna e il clima erano favorevoli al mutamento. In
quella fase furtiva della loro vita io e mio fratello non potevamo fare niente.
Mi limitavo a osservarli migrare sul lato inverso del piano di compensato e poi
andavo a letto: al mattino i bruchi erano scomparsi, insaccati nei sarcofaghi
cheratinosi delle crisalidi che si erano costruiti con Dio solo sa quale
sostanza autoprodotta. Non dovevo far altro che aspettare. Ma per una bambina
di otto anni era proprio quella la parte più difficile. Le crisalidi, sebbene
il tempo di muta mi sembrasse infinito, cambiavano di giorno in giorno quasi
impercettibilmente, passando da un iniziale spessore impenetrabile a una
trasparenza madreperlacea sotto alla quale, col trascorrere del tempo, si
intuivano con sempre maggior nitore i contorni contratti di aliene forme di
vita. Per immaginare che dentro quei ventisette tozzetti opalescenti ci fossero
davvero le ali ampie di altrettante farfalle, per quanto vili come la cavolaia,
occorreva tuttavia una fede nel prodigio che al mondo appartiene solo ai
bambini e ai profeti. Io quella fede l'avevo tutta e sapevo che l'avrei vista
premiata in gloria nel giorno in cui si sarebbe schiusa la prima imbozzolata
della mia storia di madre di farfalle. Non mancava molto. Le crisalidi delle
cavolaie si aprirono tutte all'improvviso nel medesimo pomeriggio di aprile,
come per un segnale concordato, richiamandoci a guardarle con gli occhi pieni
di meraviglia. Le contavo trepidamente una ad una mentre il sole che entrava
dal giardino faceva brillare le ali umide delle neonate e la stanza echeggiava
delle grida eccitate di Cristiano a celebrarne ogni movimento minimo. In due
sbalorditive ore di lavorio le farfalle emersero tutte dai bozzoli, lasciando
sotto il tavolo del ping pong le stalattiti organiche dei carapaci croccanti,
divenuti ormai fragili sculture di carta velina. Davanti alla danza timida e
ancora senza volo dei giovani lepidotteri io e mio fratello ci guardammo con un
impronunciabile senso di onnipotenza. Erano le farfalle dei bruchi che avevamo
scelto. Li avevamo nutriti noi. Li avevamo scaldati, avevamo offerto loro
riparo e sostegno per la trasformazione e avevamo sognato l'eleganza delle loro
ali quando ancora non erano che vermi sgraziati. Le avevamo create noi con la
nostra speranza. Eravamo Dio. Le farfalle presero il volo nella stanza una dopo
l'altra, muovendosi in uno scomposto turbinìo che pian piano si disciplinò,
assumendo per istinto collettivo il verso di una sinusoide ascendente. Man mano
che le ali si asciugavano e la cheratina diventava più rigida, le bestiole
raggiungevano il soffitto con sempre maggiore sicurezza di volo e poi ne discendevano
leggere, come piume sprimacciate di un cuscino. Sapevamo che avremmo dovuto
liberarle in giardino da lì a poco, ma quella nevicata di ali candide era uno
spettacolo troppo inedito per non goderne fino all'ultimo. Solo quando, una
volta aperta la finestra, i lepidotteri uscirono per gettarsi avidi nelle
aiuole del giardino di casa, io e mio fratello ci rendemmo conto che una
farfalla non si era mai alzata in volo, ma era rimasta immobile sulla punta
estrema della sua crisalide con la staticità dispotica di una polena in prua.
Tremava come avevano fatto tutte le altre, ma quel fremito non sembrava
progettuale. Non era il raduno delle forze prima dello slancio coraggioso verso
l'aria. Mio fratello prese la lente di ingrandimento e insieme osservammo con
attenzione la struttura della bestiola e il suo comportamento, trovando quasi
subito la spiegazione della sua immobilità. Per una causa che ci sfuggiva, la
crisalide di quella farfalla era stata danneggiata in una fase della mutazione
in cui le ali erano già formate, fragili al punto che una volta emerse dal
bozzolo una risultava spezzata e adesa al corpo dell'insetto con
un'inclinazione del tutto sbagliata. L'aria l'aveva asciugata così, consolidando
la frattura in modo irreversibile e condannando l'animale a non potersi mai
alzare in volo. La spietatezza di quel destino mi ferì all'improvviso e in modo
feroce; dimenticai di avere davanti una cavolaia come ce n'erano altre mille e
vidi invece la mia farfalla, quella precisa tra mille imprecise, che dentro la
sua culla-tomba si era preparata per settimane un paio d'ali sventurate che non
avrebbe mai sbattuto in volo. Davanti alla condanna di quell'essere vivente
senza colpa sentii il peso di un'ingiustizia profondissima e, pur senza la
pretesa di immaginare in lei un minimo di consapevolezza, lessi nel suo tremore
isterico l'intuizione istintiva di una fine precocissima. Stava morendo di
fame. Lo sforzo di uscire dalla crisalide aveva infatti prosciugato tutte le
sue energie, ma l'impossibilità di volare rendeva inarrivabile il cibo che le
sarebbe stato indispensabile assumere subito. Io e mio fratello sapevamo tutto
di come si nutrono i bruchi, ma nulla potevamo fare per venire incontro al
complicatissimo apparato boccale di quella creatura eterea, così complessa che
degli avanzi delle nostre foglie di cavolo non sapeva assolutamente che
farsene. Innanzi alla durezza della sua condanna, per impedire la quale non
potevo fare niente, scoppiai in un pianto singhiozzante che coinvolse in pochi
istanti anche mio fratello. Insieme ci eravamo creduti Dio e insieme per la
prima volta misuravamo in lacrime la differenza che passa tra il sentirsi onnipotenti
e l'esserlo davvero. Mentre il tremore della farfalla regrediva a sussulto e
gli spasmi delle sue ali bianche spandevano per la stanza un senso di crescente
ineluttabilità, noi ci agitavamo in preda a una frenesia inconcludente e
differenziata. Cristiano sfogliava il libro di entomologia alla ricerca di un
modo accessibile per nutrire le farfalle adulte. Io, stravolta dalla
consapevolezza della morte di cui gli stessi muri mi sembravano impregnarsi
istante dopo istante, prendevo a calci gli oggetti e i mobili, maledicendo il
cielo per quel dolore che mi appariva privo di necessità. Era passata solo
mezz'ora da quando le farfalle sane se ne erano andate, ma a quella con le ali
infrante era stata più che sufficiente per avvicinarsi pericolosamente allo
stato di immobilità. A testa in giù sotto il tavolo del ping pong, non aveva
più neppure le forze per tremare e tutte le sue energie si erano concentrate
sulla respirazione finale. (…). Quando la farfalla morì non lo capimmo con
precisione, perché non cadde mai dalla crisalide: le zampe erano rimaste
artigliate al carapace per tutta l'agonia, con un ossessivo senso di appartenenza
che non cessò neppure nella stasi della morte. Davanti al suo cadavere a testa
in giù fummo travolti da un inspiegabile senso di colpa. Fu con quella sensazione
addosso che sussurrai a mio fratello: - Seppelliamola. Con un lampo di sollievo
negli occhi lui annuì e si mise all'opera. La fase organizzativa lo distrasse
rapidamente dal dispiacere per la perdita dell'animale. - In fondo erano
ventisette, una su ventisette non è tanto, lo udii mormorare quasi
giustificandosi. Ma quella considerazione statistica, che a lui sembrava
alleggerire il peso dei fatti, a me parve invece una bestemmia imperdonabile,
come se il tremore ossessivo di cui eravamo stati testimoni non fosse in fondo
niente altro che una mera questione contabile. Tutto compreso nel compito di
arredatore funebre, mio fratello mi propose la scelta della bara tra una
scatola vuota di fiammiferi svedesi e la capsula porta-sorpresina di un ovetto
Kinder. Senza pensare indicai la scatola, poi mi distesi sul letto fissando il
soffitto con gli occhi ancora gonfi di pianto, gelosa di quello che non avevo
ancora gli strumenti per definire come il primo lutto della mia vita. Mentre
mio fratello raccoglieva in giardino i fiori di campo con cui foderare il
sacello della cavolaia, io progettavo preghiere come vendette. Mia madre e mio
padre non erano credenti particolarmente efficienti, ma io per fortuna ero
cresciuta con mia nonna, una matriarca devotissima sostenuta da una fede tanto
più forte quanto vaghe erano le fondamenta teologiche su cui poteva radicarla
una donna senza neanche la terza elementare. Per mia nonna i problemi di fede
si risolvevano nel credere con tutte le forze a poche cose inconfutabili: Dio è
buono e giusto, i buoni risorgeranno, i cattivi andranno all'Interno e nessuno
scamperà al giudizio. Nell'economia di quella religione elementare, la forza
performativa dell'irrazionalità era superiore a qualunque evidenza: se la
preghiera si fosse avverata secondo le aspettative, la fede di mia nonna ne
sarebbe uscita rafforzata; ma se pure la preghiera non avesse dato i risultati
richiesti, mia nonna non avrebbe tentennato di un solo millimetro, attribuendo
il fallimento della sua prece all'incomprensibilità del piano altissimo e
divinissimo di Dio. Per quel che mi era dato di capire a otto anni, così
congegnato il sistema funzionava. Chiusi dunque gli occhi e mi giocai tutta
l'innocenza dell'infanzia, l'unica arcadia che ci è dato attraversare in vita,
in una preghiera che era insieme determinata e illogica: chiesi a Dio che la
mia cavolaia risorgesse. Non avevo mai domandato niente all'Essere Perfettissimo
Creatore e Signore del Cielo e della Terra e in quel momento mi sembrava un
merito, come se avessi un conto in attivo di richieste inevase che mi dava il
diritto di pretendere priorità d'ascolto rispetto a chi lo molestava
quotidianamente. Neanche per un attimo mi venne in mente che avrebbe potuto non
esaudirmi. Non smisi di pregare per la resurrezione della farfalla neanche
quando mio fratello mi chiamò in giardino per dirmi che era tutto pronto per il
funerale. Continuai a chiederlo mentre insieme scavavamo la buca per la
scatola. Mio fratello mi fissava. Intensificai la richiesta mentre dicevamo
l'Ave Maria per la farfalla, prima di gettare sulla bara di cartoncino il
terriccio per coprirla. Con le lacrime agli occhi strinsi la spalla di
Cristiano mormorando: - Vedrai, risorgerà. Tu ci credi alla resurrezione? Lui
non rispose, ma io non avevo fretta di offrirgli le prove che fosse tutto
fondato. Sapevo che a volte le preghiere non si avverano subito. Avrei atteso
la notte e poi al mattino sarei andata a cercare nella scatola di fiammiferi il
corpo della farfalla, certa di trovare la terra rimossa e la tomba vuota come
quella di Gesù il lunedì di Pasqua. Tornammo in casa, ripulimmo il fondo del
tavolo dalle crisalidi vuote ancora attaccate e riportammo la stanza nelle
condizioni per poter accogliere la nuova nidiata di bruchi di cavolaia, ma io
pensavo continuamente all'indomani mattina. Mio fratello mi fissava e io gli
sorridevo fiduciosa. Il giorno dopo spalancai gli occhi con la stessa elettrica
aspettativa di una mattina di Natale. Ancora in pigiama corsi in giardino alla
tomba della cavolaia e con immenso stupore vidi che la terra ne era stata rimossa
e la scatola aveva il cassettino aperto, pieno solo di fiori avvizziti. La
farfalla non c'era più. Lanciai un grido gioioso e corsi in camera di mio
fratello con i piedi nudi sporchi di terra, incurante delle impronte di cui mia
madre mi avrebbe rabbiosamente chiesto conto. Cristiano mi fissò torvo tra le
coperte assonnato e incredulo, poi si alzò e venne malvolentieri con me in
giardino, fermandosi a pochi passi dal luogo della tomba. Fissando con
attenzione le prove evidenti di quella che non poteva essere altro che una resurrezione,
esclamò: - Incredibile. È un miracolo... Andammo a scuola sovreccitati e io
raccontai a tutti i miei compagni e alle maestre incredule che la mia farfalla
era risorta. Pranzai con nonna in preda a una felicità senza pari, sentendomi
in piena confidenza con il potente e misericordioso Signore dell'Universo che
risvegliava a comando i voli di una farfalla e i sogni ambiziosi di una
bambina. Non misi ma più in dubbio le storie di miracoli che nonna la sera mi
raccontava, confidando nella mia voglia di emulazione del successo spirituale
dei santi. Quando i miei compagni dopo la cresima abbandonarono la parrocchia
per non tornarci prima delle nozze o di qualche dipartita familiare, io invece
ci rimasi volentieri, feci l'animatore dell'oratorio e non saltai nemmeno un,
messa domenicale. Passarono quattordici anni prima che mio fratello durante una
litigata feroce a margine di un Natale di quelli in cui ti svegli senza più
aspettarti niente, mi gridasse in faccia che la farfalla non era mai risorta L'aveva
dissotterrata lui, l'aveva tolta lui dalla scatola di fiammiferi e l'aveva
buttata lui di nascosto nel l'immondizia avvolta in un tovagliolino di carta,
perché io trovassi la tomba vuota e non smettessi di credere ai miracoli. Me lo
gridò dandomi dell'ingrata, come se davvero gli sembrasse nobile dirmi che il
conto della mia fiducia in Dio dovevo pagarlo con la mia fiducia in lui. A
farmi male non fu la rivelazione in sé: che la cavolaia fosse risorta era una
cosa a cui dovevo per forza aver smesso di credere durante la mia giovinezza,
in uno di quegli istanti cinici in cui la fede nell'inverosimile si stacca dai
ricordi del vero per restare indietro e non raggiungerli più. Non è tanto grave
scoprire che alcune delle cose che ti hanno fondato, quelle sulle quali hai
edificato interi castelli di convinzioni e di scelte, sono in realtà dei falsi
ideologici. Quello che davvero fa male è perdere i complici della propria
innocenza, gli unici che possono testimoniare che siamo dei sopravvissuti,
perché abbiamo attraversato un mondo parallelo e magico in cui il tempo poteva
essere fermato con la volontà, i mostri degli armadi si sconfiggevano con
un'abat-jour, le api parlavano una lingua comprensibile, i genitori avevano
tutte le risposte necessarie e le farfalle, anche le più insulse, risorgevano
dalle tombe. Le arcadie dell'anima finiscono sempre per troppa verità, per
l'ansia tutta adulta di segnare la distanza tra ciò che è stato e ciò che si
desiderava potesse essere.
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