domenica 1 giugno 2025

MadreTerra. 44 Coetzee: «Scimmia di qualità scadente. Smaltitelo. Io gli mostro i denti, così capirà che ho sentito. Smaltire: so che cosa vuol dire. Vuol dire: ti buttano in una fossa con i morti».


“Non amare il florido ramo, non mettere nel tuo cuore la sua immagine sola; esso avvizzisce. Ama l’albero intero, così amerai il florido ramo, la foglia tenera e la foglia morta, il timido bocciolo e il fiore aperto, il petalo caduto e la cima ondeggiante, lo splendido riflesso dell’amore pieno. Ama la vita nella sua pienezza, essa non conosce decadimento”. (J. Krishnamurti, 1895-1986).

“Io, figlio dell’Africa non rinuncerò mai al mio grido di libertà”, testo di J.M. Coetzee pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 28 di maggio 2025: Uno. È un’isola, circondata dall’acqua. Dunque sono in prigione, io e i due piccoli. Siamo arrivati qui con una nave, in una cassa con dei buchi laterali cosicché potevamo vedere quello che ci succedeva. Vedere e respirare gli odori sconosciuti del mare. Una cassa rinforzata da fascette di metallo perché loro hanno paura, non dei piccoli, ma di me, paura che, lasciato libero, affonderò i denti nelle loro gole, gli strapperò le braccia dalle articolazioni. Dal molo ci trasportano per ore, nel cuore dell’isola, poi ci depositano qui, in questo spazio vuoto con un doppio alto recinto intorno. A distanza, con una fune, aprono il lato della cassa per lasciarci uscire.

Due. Dal loro posto protetto, dietro il recinto, ci osservano. Io faccio avanti e indietro e stiracchio le membra irrigidite. Mi avvicino a loro e gli mostro i denti; nella brezza mi arriva una folata di paura, la loro paura. Do un colpo di tosse dalle profondità del petto e mostro loro di nuovo i denti, e adesso l’odore della paura mi arriva come un’onda, dalle loro ascelle, dai loro lombi. Bene.

Tre. Non c’è niente da vedere in questo spazio, nient’altro che la cassa. La cassa sarà la nostra casa, puzzolente di merda, la merda mia e quella dei piccoli. Spingono un serpente verde attraverso il recinto. Dalla bocca del serpente esce uno sgocciolio d’acqua. Non c’è niente da mangiare, nemmeno un filo d’erba. Cautamente i piccoli si avvicinano al serpente e bevono. Viene la notte. I piccoli hanno fame. Mi guardano piagnucolando. Non sono la loro madre, non ho latte ma li stringo a me, per dargli il mio calore.

Quattro. Il secondo giorno. Mettono una scala contro il recinto e mandano una donna su per la scala con un casco di banane. Non sono bravo a contare, ma conto nove banane o forse quindici. Un grosso casco. La donna deve strisciare sul tetto del recinto, attraversare le stecche di legno trascinando le banane. Posso fiutare la sua paura. È una paura giovane, dolce, piacevole. Faccio avanti e indietro sulla nuda terra sotto l’ombra della donna. Se facessi un salto improvviso, lei lancerebbe un urlo e se la farebbe sotto. A un certo punto si ferma e, con dita tremanti, lega le banane in modo che pendano attraverso le stecche sopra di noi. Dopodiché, non vede l’ora di tornare giù dalla scala ed essere di nuovo al sicuro, al sicuro da me. Perché le banane? Perché pensano che io voglia banane? Preferirei che lanciassero nella gabbia qualche piccolo animale terrorizzato, un coniglietto, per esempio, al quale potrei saltare addosso, sventrarlo con le unghie e divorarlo. Mostrando così i miei denti agli osservatori, leccandomeli con la lingua insanguinata. I piccoli, in piedi sulle zampe posteriori, saltano verso le banane. Saltano e continuano a saltare ma le banane sono troppo in alto, non ci arrivano.

Cinque. Più tardi aprono il cancello e, in fretta, buttano nella gabbia tre scatole, una grande, una piccola, e una media, sempre tenendomi a distanza con bastoni, grida e minacce. Poi indietreggiano per osservare. I piccoli girano intorno alle scatole con le code dritte in aria. Quando vedono che sono vuote, perdono interesse e tornano alle banane.

Sei. Dormiamo nella cassa puzzolente, i piccoli raggomitolati contro la mia pancia. Terzo giorno senza cibo. La donna sale sulla scala e sostituisce le vecchie banane con nuove banane. Non hanno rinunciato. I piccoli vengono da me con un’idea. Se mettiamo la scatola grande sotto le banane e mettiamo la scatola media sopra alla grande e la scatola piccola sopra alla media, dicono, forse possiamo raggiungere le banane. Io scuoto la testa. No, dico, non lo faremo. Se lo facciamo sarà il principio della fine. I piccoli mi fissano. Il principio della fine: che cos’è? Vogliono le banane. Farebbero qualsiasi cosa per le banane. Io, al momento, non sono niente per loro. Piccoli come sono, deboli per la fame, cercano di spostare la scatola grande. Spingono e spingono, ma è troppo pesante per loro. Spingono la scatola piccola sotto le banane e si arrampicano sopra alla piccola e saltano, ma le banane sono troppo lontane.

Sette. Scimmia di qualità scadente, dice l’uomo col vetro sopra gli occhi, il capo. Mi indica col dito e ripete le parole: Scimmia di qualità scadente. La donna annuisce, e così pure l’altro uomo. Lui dice le parole e io capisco subito che cosa vogliono dire. Come mai? Non per averle sentite prima, non perché le usi mai io stesso, le parole; ma dal modo in cui l’uomo mi guarda, dal modo in cui punta il dito, dalla tonalità scura e pesante del suono che esce dalla sua gola, dalla sua bocca, tutto è chiaro. Scimmia di qualità scadente. Smaltitelo. Io gli mostro i denti, così capirà che ho sentito. Smaltire: so che cosa vuol dire. Vuol dire: ti buttano in una fossa con i morti. L’uomo vicino a quello con gli occhi di vetro tira su quell’affare, la frusta. Ho visto la frusta in azione nella foresta. Ti prendono di mira con la frusta e quella dice Crac e ti si avvita intorno al cuore e lo fa a brandelli. Lui alza la frusta e me la punta contro. Io sto dritto sulle zampe di dietro, mi scopro il petto, offro la gola e lancio il mio grido contro di loro. Quell’affare fa Crac ma io non ho paura.

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