Antonio Scurati: Genocidio. Partiamo da qui. Da questo neologismo coniato nel 1944 dall'Occidente per comprenderne la storia altrimenti incomprensibile e ridefinirsi. Israele è accusato di genocidio contro la popolazione palestinese della Striscia di Gaza da due commissioni indipendenti delle Nazioni Unite, da numerose Ong per i diritti umani, nonché dalla relatrice speciale delle Nazioni unite sui Territori palestinesi occupati Francesca Albanese, da numerosi Stati e da diversi storici esperti di genocidio e Olocausto, tra cui eminenti storici israeliani. Nonostante ciò, i governi di numerosi altri Stati occidentali (tra cui Italia e Stati Uniti) si rifiutano drasticamente di riconoscere il genocidio. Con loro, milioni di cittadini. Lei fornisce una spiegazione semplice e terribile per questo disconoscimento: genocidio è una parola vincolante. Se la si usa, si è obbligati ad agire per fermarla.
Omar El Akkad: Non penso che la mia sia una tesi particolarmente controversa. Il caso dello sterminio del popolo palestinese per mano di Israele non è unico. La stessa riluttanza a definirlo genocidio si è vista praticamente in tutti i massacri che si sono susseguiti nel corso della mia vita, proprio perché la parola genocidio comporta un obbligo - non solo di opporsi a quello che sta succedendo ma, ancor prima, di impedire che avvenga. In questo caso specifico, alla riluttanza si unisce il fatto che lo stato responsabile del massacro è un alleato dell'Occidente, mentre le vittime non lo sono.
A.S.: «Per ogni generazione arriva un momento di totale disgusto che ci lascia totalmente svuotati. La storia è un cimitero di questi momenti». Tu affermi che vedere il leader della più potente nazione del mondo - nominalmente alfiere del liberalismo occidentale mainstream (Biden) - che avalla e finanzia un genocidio suscita una presa di distanza definitiva: «Non voglio averci più niente a che fare». Siamo davvero al punto di rottura definitivo? Ma non è paradossale che a rompere, cocentemente delusi, con le illusioni della democrazia liberale debbano essere proprio quelli che hanno sinceramente creduto in essa e lottato per essa?
O.E.A.: Lo trovo non soltanto paradossale e ironico, ma anche sconcertante. Quando parlo di chi ha creduto in questo genere di democrazia liberale, non intendo persone lontane: parlo di me. C'è stato un periodo, non molto tempo fa, in cui questo tipo di liberalismo esibito mi sarebbe andato bene. Ma ho visto troppi bambini trucidati per riuscire ad accettare ancora questa farsa. Non posso più fingere, e non penso di essere l'unico ad aver raggiunto questo punto di non ritorno. Ciò detto, non mi aspetto in alcun modo che i fascisti pronti a prendere il potere possano in qualche modo migliorare le cose. In America l'amministrazione Trump ne è la prova innegabile. La differenza è che non mi aspetto niente di meglio dai fascisti. Ma quando un politico si fa eleggere sostenendo di avere a cuore i principi della democrazia liberale, sono tenuto ad aspettarmi qualcosa di meglio.
A.S.: Veniamo all'analisi di questa fine dell'illusione liberale. Lo sterminio dei reporter palestinesi è l'emblema, secondo te, del crollo di uno dei pilastri del liberalismo: l'idea della libera informazione. Sull'altro versante, infatti, anche giornali simbolo della stampa indipendente praticherebbero secondo te una metodica «alterazione della lingua mirata a sterilizzare la violenza» di Israele.
O.E.A.: Anche in questo caso, non mi sembra un'affermazione particolarmente controversa. Quando la Russia bombarda un ospedale ucraino, è difficile immaginare che i media occidentali presentino la storia come se l'ospedale si fosse misteriosamente fatto saltare in aria da solo. Eppure, abbiamo visto che è la norma quando si parla dello sterminio dei palestinesi per mano di Israele. Se anche qualcuno non avesse a cuore la sorte del popolo palestinese, dovrebbe comunque ricordare che un'intera generazione è testimone in tempo reale di questa manifesta ipocrisia, che porterà i giovani a fidarsi sempre meno dei media in generale, una sfiducia che li accompagnerà per tutta la vita. Nell'ultimo anno e mezzo, l'industria dell'informazione ha arrecato danni incalcolabili al proprio futuro.
A.S.: Altra menzogna disgustosa è quella della reiterata professione di fede nei cosiddetti valori occidentali. Gli esponenti più brutali della destra trumpiana e israeliana manifestano aperto disprezzo per i palestinesi assassinati in quanto considerati sub-umani ma anche i democratici americani non sono da meno: la strage quotidiana di bambini innocenti non impedisce loro, al di là dei proclami retorici, di continuare a sostenere Israele, così come non impedisce a milioni di cittadini comuni di perseverare in quel sistema di vita che avalla la strage.
O.E.A.: Penso che siano due i fattori fondamentali che contribuiscono a questo sostegno bipartisan - o perlomeno a questa ambivalenza - nei confronti dello sterminio del popolo palestinese. Il primo è che, dal punto di vista politico, i palestinesi non hanno nessun peso nei centri del potere occidentale. Semplicemente, se si decide di fare qualcosa per aiutarli non si guadagna nulla in termini politici. Certo, questa situazione sta cominciando a cambiare, ma solo e unicamente grazie all'enorme pressione delle manifestazioni popolari. Il secondo fattore è che sia i democratici che i repubblicani, a livello istituzionale, devono rispondere agli stessi finanziatori di grandi imprese. Di conseguenza, la loro capacità di fare qualcosa per i più vulnerabili - e non parlo solo dei palestinesi, ma anche dei cittadini più fragili del Paese in cui vivo - è fortemente limitata. In questo modo, abbiamo due partiti che condividono un'enorme fetta di priorità politiche e di bilancio, e concordano sul servire i miliardari e i loro interessi a spese praticamente di tutti gli altri, scontrandosi poi solo in patetiche scaramucce sugli slogan esibiti su cartelli e spillette. È a dir poco esasperante.