Sopra. “Resurrezione di Lazzaro” affresco (Giotto, 1303-1305 circa) del ciclo della Cappella degli Scrovegni a Padova.
«Appena Maria fu giunta dov'era Gesù e
l'ebbe visto, gli si gettò ai piedi dicendogli: "Signore, se tu fossi
stato qui, mio fratello non sarebbe morto". Quando Gesù la vide piangere e
vide i Giudei che erano venuti con lei piangere anch'essi, fremette nello
spirito, si turbò e disse: "Dove l'avete posto?". Essi gli dissero:
"Signore, vieni a vedere!" ... Gesù, dunque, fremendo di nuovo in sé
stesso, venne al sepolcro. Gesù pianse.... Gridò ad alta voce: "Lazzaro,
vieni fuori!". Il morto uscì, avendo i piedi e le mani legati da fasce e
il viso coperto da un sudario. Gesù disse loro: "Scioglietelo, e
lasciatelo andare"» (Giovanni 11, 32-34, 43-44). Le mani prodigiose del
Giotto degli Scrovegni ci fanno testimoni oculari di questo momento struggente:
Gesù, profondamente commosso, resuscita il suo amico Lazzaro. Tutto è vero,
tridimensionale, tangibile: il peso dei corpi torna nell'arte europea. E il
corpo di Lazzaro torna vivo portando ancora impressi i segni atroci della
morte, e della decomposizione (il cui terribile odore induce gli astanti a
coprirsi il naso e la bocca): il sudario che lo nascondeva ora lo restituisce
all'aria e alla luce. Nella nostra vita non potremo più guardare questo
affresco di Giotto senza pensare ai sudari di Gaza: perché, come ha scritto
Paola Caridi, «i sudari di Gaza fanno parte, ormai, degli oggetti comuni del
nostro tempo crudele. Tempo di genocidio. Teli bianchi che inondano da un anno
e mezzo Gaza, in mezzo alle macerie, alle case e alle decine di ospedali
distrutti. Inondano Gaza come - al contrario - non si sono fatte strada acqua e
cibo, gasolio e medicine, per dare da mangiare agli affamati. Da bere, da bere
acqua, semplice acqua, agli assetati. I sudari di Gaza contengono, accolgono,
proteggono, abbracciano i corpi dei palestinesi uccisi in questo anno e mezzo
di follia militare e politica, israeliana e internazionale». I palestinesi
avvolti nei sudari - e in tutto ciò che ha preso il posto dei sudari, presto
esauriti in questa mattanza senza misura e senza regole - non hanno un Cristo
che li resusciti. Anzi, non hanno nemmeno un amico che si turbi, che pianga,
che "frema dentro sé stesso". Almeno non tra i governi, tra i
potenti: li hanno tra i poveri cristi, che non resuscitano nessuno. E ancora
una volta i corpi, e i sudari, descrivono il mondo: con la stessa esattezza
morale di Giotto. E ancora una volta noi stiamo a guardare: come se fosse solo
una storia dipinta. (Tratto da “Lazzari
senza speranza di resurrezione” di Tomaso Montanari pubblicato sul
settimanale “il Venerdì di Repubblica” di ieri, 30 di maggio 2025).
“Contabilità
di una vita spazzata dalle bombe”, testo di Rita Baroud pubblicato sul
quotidiano “la Repubblica” del 28 di maggio 2025: Il 7 ottobre ero nella mia
stanza, stavo rileggendo gli appunti di una lezione universitaria, quando la
prima esplosione ha fatto tremare la casa. La terra ha vibrato sotto i nostri
piedi e ho capito subito che si stava consumando una tragedia. Sono corsa dai
miei fratellini e ci siamo toccati i volti per essere sicuri di essere ancora
vivi. Non sapevo, allora, che in quel momento iniziava una nuova vita, fatta di
paura. Da quando abbiamo perso la nostra casa, distrutta il terzo giorno di
guerra, mi sento senza dimora. Da quel giorno mi sposto da un luogo all’altro
come un’estranea. Mi sveglio senza sapere dove sono. La patria per me non è più
una mappa, è una sensazione scomparsa, sepolta sotto le macerie. In questi 600
giorni, sono stata sfollata 17 volte. Dal nord di Gaza fino all’estremo sud, a
Rafah, passando per Deir al-Balah, Gaza City e Khan Younis. Mi sono spostata da
un luogo all’altro con una piccola borsa sulle spalle e un peso immenso nel
petto. Ogni volta pensavo di aver raggiunto lo “sfollamento finale” ma la
guerra continuava a inseguirci. Abbiamo vissuto in case sovraffollate, in
rifugi fatiscenti, nelle abitazioni di parenti lontani, e alcune notti abbiamo
dormito all’aperto. L’ultima cosa che ho fatto è stata lasciare Gaza. Portavo
con me solo i documenti e le lacrime bloccate in gola. Sapevo di lasciare con
il corpo, ma il mio cuore restava indietro. Ho perso la mia amica Sarah, la
persona a me più vicina. Non era solo un’amica, era la sorella che mia madre
non ha mai partorito. L’area in cui si trovava è stata bombardata, e tutto ciò
che hanno trovato sono state macerie che non somigliavano a nessuna parte del
suo volto. Ho perso amici. Ho perso parenti. Alcuni sono stati sepolti prima
che potessi vederli. Alcuni sono diventati solo nomi, foto su un telefono. E ci
sono altri che non so nemmeno se siano ancora vivi. La mia vita in questi mesi
è stata è un permanente stato di collasso. Costante. La fame e la paura sono
stati i miei onnipresenti compagni in questo viaggio. Mangiavamo una volta al
giorno e a volte mentivamo ai bambini, dicendo che stavamo digiunando, per
nascondere loro la dolorosa verità: non avevamo cibo. Ho lasciato Gaza dopo 570
giorni di genocidio. Sono fuggita a una morte che mi inseguiva perfino nei
sogni. Sono passata attraverso i checkpoint con le lacrime che mi inondavano il
viso, e ogni passo mi sembrava un tradimento, come se stessi lasciando i miei
cari nel fuoco per salvarmi da sola. E ora sono a Marsiglia. Da trenta giorni
vivo l’esilio in tutte le sue forme: disorientamento, crollo, una morte
diversa, lenta, senza bombardamenti, ma con un’agonia silenziosa. L’esilio qui
non è solo un luogo straniero. È un grido interiore: «Dove sono? Chi sono dopo
tutto ciò che ho perso?». Ogni notte guardo il soffitto e mi chiedo: sono
davvero sopravvissuta? Gaza non mi lascia mai. È nella mia memoria, nel mio
sangue, in ogni dettaglio della mia giornata. A Marsiglia tutto è diverso - ma
porto Gaza nel petto come una croce pesante: non è solo un ricordo è la mia
vita rubata. E oggi, dopo tutto questo tempo, porto con me il mio passaporto
palestinese - un documento che dice che non sono libera, neppure fuori dai
confini di Gaza. Non mi sento libera. Perché la vera libertà non è attraversare
un checkpoint, è quando il tuo cuore non è carico di colpa per essere fuggita,
per essere viva Quando la tua patria non è sotto assedio. Quando la tua famiglia
non vive in una tenda.
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