"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 13 giugno 2025

Lavitadeglialtri. 97 “Se questo è un bimbo a Gaza”.


A Gaza è Marzabotto tutti i giorni. Ogni giorno – ogni giorno – da 20 mesi ci alziamo alla mattina e sentiamo di un nuovo massacro. Donne e bambini, soprattutto. I medici internazionali (ancora) in servizio a Gaza parlano tutti di cadaveri di piccoli palestinesi colpiti con colpi singoli alla testa o al collo. I bombardamenti avvengono di preferenza in zone indicate ai profughi come sicure: li ammassano per ammazzarli meglio. Scuole che fanno da rifugio vengono incendiate. Gli ospedali vengono colpiti. Le storie singole spuntano ogni tanto dalla mattanza generale, si prendono un titolo, poi si inabissano, si confondono. Anche Auschwitz era pieno di storie singole, affogate nell’orrore collettivo. La fame gestita dall’esercito di invasione e di sterminio è usata come un’arma di guerra, dove non arriveranno le bombe incendiarie arriveranno gli stenti e le malattie. Non c’è acqua, non c’è corrente elettrica, non c’è benzina, le ambulanze e i soccorritori vengono deliberatamente assassinati dall’esercito israeliano. I carnefici sul campo si vantano sui social delle loro imprese criminali, i carnefici della politica, a Tel Aviv, rivendicano le loro decisioni genocide, spingono per la fame e per il massacro, per la deportazione di un intero popolo e per il suo sterminio. Sono cose note da un anno e mezzo, cose che si fingeva di non vedere. Per 20 lunghissimi mesi, qui – qui in Italia – ha trionfato una neo-lingua schifosa e negazionista, quella per cui i palestinesi, misteriosamente, “morivano”, a volte addirittura “uccisi dalla guerra”, come se un genocidio fosse una specie di incidente stradale. Le stragi quotidiane finivano in un trafiletto nascosto, o nelle ultime righe degli articoli, con un penoso trucco giornalistico: “Intanto a Gaza…”. Nel frattempo, la grandissima parte dell’informazione compiva il suo ruolo di appoggio logistico: prima negando (“sono cifre di Hamas…”), poi minimizzando e giustificando (“un incidente…”), poi fingendo di credere alle incredibili spiegazioni dei massacratori (Israele, davanti ai fatti che non riesce a nascondere, dice spesso “Apriremo un’inchiesta”). Chiunque possa raccontare ciò che succede nel campo di sterminio di Gaza viene ucciso: oltre 220 giornalisti sono stati assassinati a Gaza per mano dell’esercito dello sterminio. Solo una piccola parte della società italiana si è ribellata a questo stato di cose. Lo ha fatto rischiando quotidianamente accuse assurde e infamanti. Ora è chiaro e lampante: accusare di “antisemitismo” chi si opponeva al massacro di 20.000 bambini era un’arma miserabile, e oggi quello scudo non funziona più, la strumentalità dell’accusa ha polverizzato ogni briciolo di credibilità. Da qualche giorno, di colpo, i distratti, i colpevoli fiancheggiatori, i simpatizzanti e i negazionisti del genocidio si sono risvegliati, abbondano i riposizionamenti, i risvegli tardivi, si spezzano i silenzi carichi di complicità. Uno degli argomenti più gettonati e più grotteschi è che “Israele così si fa male”. Che è un po’ come andare dalle SS nel ’44, dopo Marzabotto, e dire: “Ehi, ragazzi, state esagerando, così vi fate male da soli”. Chi oggi – bontà sua – chiede la fine del genocidio con 20 mesi di ritardo tenta vergognosamente di ristrutturarsi la coscienza. Quelli che lo hanno sempre detto, censurati, scherniti, infamati, ricorderanno con un certo ribrezzo chi diceva cosa prima e chi dice cosa adesso. Troppo poco, troppo tardi. Intanto, a Gaza, muoiono, anche oggi, anche domani, ci sarà una nuova Marzabotto. (Tratto da “Gaza. Quando è Marzabotto ogni giorno, le coscienze si svegliano tardi” di Alessandro Robecchi pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 28 di maggio 2025).

“Se questo è un bimbo a Gaza-Inferno”, testo di Chris Hedger – già corrispondente del “New York Times” – pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 10 di giugno 2025:

Caro bambino. È mezzanotte passata. Sto volando a centinaia di chilometri orari nel buio, a diecimila metri di quota sopra l’oceano Atlantico. Mi sto recando in Egitto. Sarò alla frontiera con Gaza, a Rafah. Vado lì per te. Tu non sei mai salito su un aereo. Non hai mai lasciato Gaza. Conosci solo strade stracolme di gente e vicoli. Le casupole di cemento. Conosci solo le barriere di sicurezza e le recinzioni pattugliate dai soldati che circondano Gaza. Gli aerei ti terrorizzano. I jet da combattimento. Gli elicotteri d’attacco. I droni. Si librano nel cielo sopra di te. Sganciano missili e bombe. Esplosioni assordanti. Il terreno che trema. Edifici che crollano. I morti. Le urla. Le grida soffocate d’aiuto da sotto le macerie. Non c’è tregua. Giorno e notte. Intrappolati sotto i cumuli di calcestruzzo in frantumi. I tuoi compagni di gioco. I tuoi compagni di scuola. I tuoi vicini. In un niente, spariti. Vedi i volti terrei e i corpi flosci quando vengono tirati fuori. Io sono un giornalista. Fa parte del mio lavoro vedere tutto questo. Tu sei un bambino. Tu non dovresti mai vederlo. Il tanfo della morte. I cadaveri che marciscono sotto i pezzi di calcestruzzo. Trattieni il respiro. Ti copri la bocca con un pezzo di stoffa. Cammini più veloce. Il tuo quartiere è diventato un cimitero. Tutto quello che ti era familiare è scomparso. Ti guardi attorno attonito. Ti domandi dove sei. Hai paura. Un’esplosione dopo l’altra. Piangi. Ti aggrappi a tua madre o tuo padre. Ti copri gli occhi. Vedi la luce bianca del missile e aspetti lo scoppio. Perché uccidono i bambini? Che avete fatto di male? Perché nessuno vi protegge? Rimarrai ferito? Perderai una gamba o un braccio? Ti ritroverai cieco o su una sedia a rotelle? Perché sei nato? Perché avessi una vita bella? O perché vivessi questo? Crescerai? Sarai felice? Come farai senza i tuoi amici? Chi sarà il prossimo a morire? Tua madre? Tuo padre? Un fratello o una sorella? Qualcuno che conosci sarà ferito. Presto. Qualcuno che conosci morirà. Presto. La notte giaci al buio su un freddo pavimento di cemento. I telefoni sono staccati. Internet non funziona. Non sai che succede. Ci sono lampi di luce. Le mura tremano per gli scoppi continui. Si sentono urla. Non finisce mai. Quando tuo padre o tua madre vanno a cercare da mangiare o l’acqua per bere, aspetti. Quella morsa terribile nello stomaco. Torneranno? Li vedrai di nuovo? La tua casetta sarà la prossima? Le bombe ti troveranno? Questi sono i tuoi ultimi attimi sulla terra? Bevi acqua sporca e salata. Ti fa star male. Ti duole la pancia. Hai fame.  Le panetterie sono distrutte. Il pane non si trova. Mangi una volta al giorno. Un po’ di pasta. Un cetriolo. Presto questo ti sembrerà un banchetto. Non giochi con la tua palla di pezza. Non fai volare il tuo aquilone di fogli di giornale. Hai visto i giornalisti della stampa estera. Indossiamo giubbotti antiproiettile con la scritta «press». Portiamo un casco. Abbiamo telecamere con noi. Guidiamo jeep. Arriviamo dopo un bombardamento o una sparatoria. Ci sediamo a lungo per un caffè e parliamo con gli adulti. Poi ce ne andiamo. Di solito non intervistiamo i bambini. Ma qualche volta io l’ho fatto, quando a gruppi ci attorniate. Ridendo. Indicando. Chiedendoci di farvi una foto. Io sono stato bombardato dai caccia a Gaza. Sono stato bombardato in altre guerre, guerre avvenute prima che tu nascessi. Anch’io ho avuto tanta, tanta paura. Ancora me lo sogno. Quando vedo le immagini di Gaza, queste guerre mi tornano in mente con la forza di un tuono e dei lampi. Penso a te. Tutti noi che l’abbiamo conosciuta odiamo la guerra sopra ogni altra cosa per quello che fa ai bambini. Io ho cercato di raccontare la vostra storia. Ho cercato di dire al mondo che quando si mostra crudeltà verso delle persone, settimana dopo settimana, mese dopo mese, anno dopo anno, decennio dopo decennio; quando si negano la libertà e la dignità delle persone; quando le si umilia e le si intrappola in un carcere a cielo aperto; quando le si uccide come fossero bestie: le persone si inferociscono. Fanno agli altri quello che è stato fatto a loro. L’ho detto ripetutamente. L’ho detto per sette anni. Pochi hanno ascoltato. E ora eccoci qui. Ci sono coraggiosissimi giornalisti palestinesi. Dall’inizio di questi bombardamenti ne sono stati uccisi più di cento. Sono eroi. Così come i medici e gli infermieri nei vostri ospedali. Così come gli operatori delle Nazioni Unite, oltre duecento dei quali morti. Così come gli autisti delle ambulanze e i paramedici. Così come le squadre di soccorritori che sollevano le lastre di calcestruzzo con le mani. Così come le madri e i padri che vi fanno scudo dalle bombe. Ma noi non siamo lì con voi. Non questa volta. Non possiamo entrare. Siamo bloccati fuori. Giornalisti di tutto il mondo stanno arrivando al posto di frontiera con Gaza. Stiamo venendo lì perché non possiamo rimanere a guardare questa carneficina senza fare niente. Stiamo venendo perché ogni giorno muoiono centinaia di persone, compresi molti bambini. Stiamo venendo perché questo genocidio deve finire. Stiamo venendo perché abbiamo dei figli piccoli. Come voi. Preziosi. Innocenti. Amati. Stiamo venendo perché vogliamo che viviate. Spero che un giorno potremo incontrarci. Tu sarai un adulto. Io sarò un vecchio, anche se rispetto a te sono già vecchissimo. In sogno ti vedo libero e al sicuro e felice. Nessuno cercherà di ucciderti. Volerai su aerei pieni di persone, non bombe. Non sarai intrappolato in un campo di concentramento. Vedrai il mondo. Crescerai e avrai dei figli. Diventerai vecchio. Ricorderai queste sofferenze, ma saprai che significano che devi aiutare gli altri che soffrono. Questa è la mia speranza. La mia preghiera. Noi non siamo stati capaci di proteggervi. Questa è la colpa terribile che ci portiamo appresso. Ci abbiamo provato. Ma non a sufficienza. Verremo a Rafah. Molti di noi. Noi giornalisti. Staremo alla frontiera con Gaza per protestare. Scriveremo e faremo riprese. Questo sappiamo fare. Non è molto. Ma è qualcosa. Racconteremo di nuovo la vostra storia. Magari sarà sufficiente per guadagnarci il diritto di chiedervi perdono.

1 commento:

  1. Bellissimo articolo. Io come monaco della comunità di don Giuseppe Dossetti vivo in una delle comunità del Medio Oriente e in questo momento vivo in Cisgiordania dove il popolo palestinese è oppresso e vessato. Ma la nostra comunità madre è collocata sull'Appennino Bolognese e precisamente a Monte Sole, nel comune di Marzabotto, proprio nel luogo dove è avvenuta la strage e il monastero di fratelli e di sorelle vive nelle case delle famiglie trucidati dai nazifascisti.

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