“
Storiadi
Damiano”.
“Senza temere l’inconscienza”:
I matti
vanno contenti tra il campo e la ferrovia e intorno ai treni che non arrivano o
non sono mai partiti incontrano tutti quelli che un tetto e un'identità non ce
l'hanno più. Il luogo è la Stazione Termini. La città, Roma. Nelle pieghe di
queste due entità che, affratellate soltanto dalla fretta, convivono da
separate in casa, le pareti invisibili di tende e cartoni che hanno l'estetica
della precarietà e la calce del desiderio. C'è chi sogna un piatto di pasta con
un bicchiere di vino, chi non ha denti per mangiare, chi si vende senza
allegria, chi non può comprare, chi spera di essere amato, chi si sdraia, chi
cammina, chi pensa che alzarsi non restituisca premio, chi viaggia e non vede,
chi vede e chiude gli occhi. C'è la disperazione e c'è l'estasi, c'è l'allegria
che non conosce ragione e la rabbia senza età, c'è la vergogna e c'è
l'orgoglio, c'è la speranza e la disillusione e ci sono le immagini che
raccontano e quelle che dicono tutto fingendo di non dire nulla. Nel 1975,
Alberto Grifi e Massimo Sarchielli girarono Anna. Lo fecero documentando per
mesi ciò che sugli schermi italiani non si era mai visto prima, attribuendo
allo stato delle cose, tra eroina, pidocchi, solitudine e insensatezza, la
brutale matrice dell'indifferenza: la condizione di chi appena adolescente, sui
marciapiedi, poggiava testa e cuore, diventava uno specchio in cui nessun
elemento della società voleva osservarsi. Mezzo secolo dopo, un ragazzo poco
più che trentenne, nato nei giorni in cui crollava il Muro di Berlino, Gregorio
Sassoli e il suo coetaneo Alejandro Cifuentes, hanno dato vita a un'opera
straordinaria che supera i confini, duella con il modello originario e con la
forza della verità abbatte ogni intenzione e ogni sospetto di empito pedagogico
per diventare storia. Il documentario, di una poesia e di una sgradevolezza
unici al tempo stesso, Zenit e Nadir vertiginosi di ciò che saremmo potuti
diventare con meno fortuna navigando per un istante che si trasforma in
eternità nell'oblio, si intitola San Damiano. Esattamente come il film di Grifi
e Sarchielli, nonostante l'impegno di una distribuzione cinematografica che
faticosamente lo proietta in maggio a macchia di leopardo, lo hanno visto in
pochissimi. È un peccato perché un film come San Damiano, nel panorama del
cinema "civile" che non sempre riesce a soffocare la tentazione del ricatto
morale, semplicemente, non esiste. È un soffio di neorealismo senza troupe. Un
esperimento che rappresenta il pro-lungamento di un talento che di fronte alla
vita non si concede la hybris di sceneggiarla, ma la ripropone senza temere
giudizio. Dopo un paio di inverni trascorsi dando una mano da volontari nelle
notti senza cuore affacciate sulle tenebre della stazione, immaginando di
sviluppare un altro film che non si sarebbe mai fatto, Sassoli e Cifuentes
hanno incontrato il loro protagonista quasi per caso. Damiano occupa un angolo
delle rovine che si affacciano sulla stazione e da quell'avamposto, da quella
vedetta di osservazione prova a dare un senso a tutto ciò che un senso,
iniziando dalla sua vita, un senso non ce l'ha. I registi lo accompagnano e poi
si fanno accompagnare, cedono lo scettro, lo riprendono felici che la
confusione, una volta liberata, diventi ordine, favola, orrore e utopia. La
giovinezza, come dice Wilde, sarà anche "l'unica cosa che vale la pena di
avere", ma senza coraggio significa poco. Sassoli e Cifuentes ne hanno
accarezzato il nucleo senza temere l'impatto con l'in-coscienza. San Damiano è
una preghiera laica. La canzone senza note di uno che voleva fare il cantante e
si è perso tra le strade e i palazzi di una strada che somiglia all'inferno. Un
viaggio senza fermate che con un salto di fantasia, tra le fiamme, prende le
sembianze di un paradiso che - in San Damiano lo sanno tutti - può attendere
per sempre.“StoriadiAtlanta”. “Divina a sua insaputa”: Sono ormai
trascorsi svariati mesi da che i marziani giunsero sulla terra disperdendosi tra
le folle per portare lumi e splendori tra le tenebre ottundenti del nuovo
oscurantismo. La delegazione extraterrestre contava una trentina di figuri,
pare, ma il computo è stato fin da subito approssimativo; di quasi tutti si
sono perse le tracce molto presto. È invero possibile che la maggior parte
degli alieni, delusa dal dogmatismo e classismo terrestri, respinta da un fare
poco o per nulla accogliente, sia volata via alla chetichella, rinunciando alle
fanfare che avevano invece accompagnato l'atterraggio. Oppure può darsi che,
per meglio analizzarci, essi si siano assimilati fino a diventare in qualche
modo inapparenti. L'altro giorno il vostro umile cronista, cui spetta comunque
il compito di scovarli, i marziani, di parlarci e studiarli mentre essi ci studiano
ma non sempre parlano, ricevette un instant message da un numero sconosciuto
con prefisso intergalattico. Latrice dello stesso, la Signora Atlanta Scibilia,
che a una rapida ricerca su Google si è rivelata essere una bricoleur
interculturale impigliata in un perenne loop spaziotemporale. Scrive la
marziana, vergando il messaggio elettronico con un linguaggio consono alle
missive di Lady Mary Wortley Montagu: "Caro Flaccavento, non ci conosciamo
e non è necessario che ci incontriamo, ma vorrei portare alla sua attenzione i
casi che mi sono di recente occorsi, i quali lei potrebbe poi diffondere a
mezzo stampa tra i suoi lettori, per suscitare dibattito, stimolare conoscenza
o far pettegolezzo. A lei la scelta. Le mie tenute a base di crinoline, fez e
fazzoletti contadini, di grembiuli, bloomers, djellaba, kimono, tabi e babbucce
e pompon e molto altro - mi vesto di lacerti perché per me storie e costumi
sono possibilità compresenti - mi ha fatto subito notare nel milieu della moda,
che lei ben conosce. Divenni musa, in un nonnulla. Sodale inveterata del nuovo,
non dovendo, né sapendo, parlare, ma solo essere me stessa, mi sono fatta
irretire. È stato un gravissimo errore. Io che pratico la consonanza di
canoscenze e modi, che scovo sempre continuità e congiunzioni tra mondi
lontanissimi e cose distantissime, mi sono trovata a dover fronteggiare una certa
dogmatica piccineria, e non ero pronta. Non so come sia fuori dall'Italia,
perché io fui avvicinata a Milano da una sedicente studio manager che alla mia
vista strillò DIVINAAA. Forse altrove le cose vanno diversamente ma temo di no.
Mi ritrovai tra color che, un po' alla cieca e prevedibilmente, praticano il
culto di Miuccia e Ponti, rileccati e lustri ma scevri della nozione, vitale e
per nulla scontata, di gusto. Si vedono sempre nei medesimi posti e parlano un
eloquio affettato curando finte esistenze patinate e omologate. Tutto
giudicano, fingono raffinatezze che coprono pochezze. Fui il gingillo della
settimana, ma lessero il mio credere nella sincronia di culture vestimentarie
come la liberatoria per agire con sciocca sventatezza, dimenticando che la
superficie è profonda, ma che i vestiti non sono concetti. Così, fuggii: non
voglio più essere trovata, non voglio ispirare nessuno, non voglio più passare
serate al Bar Basso. Adieu". Il lungo messaggio svanisce appena letto, e
così il numero, impedendomi di rispondere.
N.d.r. Le “storie” sopra riportate sono a firma –
rispettivamente – di Malcom Pagani e di Angelo Flaccavento e sono state
pubblicate sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di maggio
2025.
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