giovedì 15 maggio 2025

Lavitadeglialtri. 89 “Storie”.


StoriadiDamiano”. “Senza temere l’inconscienza”: I matti vanno contenti tra il campo e la ferrovia e intorno ai treni che non arrivano o non sono mai partiti incontrano tutti quelli che un tetto e un'identità non ce l'hanno più. Il luogo è la Stazione Termini. La città, Roma. Nelle pieghe di queste due entità che, affratellate soltanto dalla fretta, convivono da separate in casa, le pareti invisibili di tende e cartoni che hanno l'estetica della precarietà e la calce del desiderio. C'è chi sogna un piatto di pasta con un bicchiere di vino, chi non ha denti per mangiare, chi si vende senza allegria, chi non può comprare, chi spera di essere amato, chi si sdraia, chi cammina, chi pensa che alzarsi non restituisca premio, chi viaggia e non vede, chi vede e chiude gli occhi. C'è la disperazione e c'è l'estasi, c'è l'allegria che non conosce ragione e la rabbia senza età, c'è la vergogna e c'è l'orgoglio, c'è la speranza e la disillusione e ci sono le immagini che raccontano e quelle che dicono tutto fingendo di non dire nulla. Nel 1975, Alberto Grifi e Massimo Sarchielli girarono Anna. Lo fecero documentando per mesi ciò che sugli schermi italiani non si era mai visto prima, attribuendo allo stato delle cose, tra eroina, pidocchi, solitudine e insensatezza, la brutale matrice dell'indifferenza: la condizione di chi appena adolescente, sui marciapiedi, poggiava testa e cuore, diventava uno specchio in cui nessun elemento della società voleva osservarsi. Mezzo secolo dopo, un ragazzo poco più che trentenne, nato nei giorni in cui crollava il Muro di Berlino, Gregorio Sassoli e il suo coetaneo Alejandro Cifuentes, hanno dato vita a un'opera straordinaria che supera i confini, duella con il modello originario e con la forza della verità abbatte ogni intenzione e ogni sospetto di empito pedagogico per diventare storia. Il documentario, di una poesia e di una sgradevolezza unici al tempo stesso, Zenit e Nadir vertiginosi di ciò che saremmo potuti diventare con meno fortuna navigando per un istante che si trasforma in eternità nell'oblio, si intitola San Damiano. Esattamente come il film di Grifi e Sarchielli, nonostante l'impegno di una distribuzione cinematografica che faticosamente lo proietta in maggio a macchia di leopardo, lo hanno visto in pochissimi. È un peccato perché un film come San Damiano, nel panorama del cinema "civile" che non sempre riesce a soffocare la tentazione del ricatto morale, semplicemente, non esiste. È un soffio di neorealismo senza troupe. Un esperimento che rappresenta il pro-lungamento di un talento che di fronte alla vita non si concede la hybris di sceneggiarla, ma la ripropone senza temere giudizio. Dopo un paio di inverni trascorsi dando una mano da volontari nelle notti senza cuore affacciate sulle tenebre della stazione, immaginando di sviluppare un altro film che non si sarebbe mai fatto, Sassoli e Cifuentes hanno incontrato il loro protagonista quasi per caso. Damiano occupa un angolo delle rovine che si affacciano sulla stazione e da quell'avamposto, da quella vedetta di osservazione prova a dare un senso a tutto ciò che un senso, iniziando dalla sua vita, un senso non ce l'ha. I registi lo accompagnano e poi si fanno accompagnare, cedono lo scettro, lo riprendono felici che la confusione, una volta liberata, diventi ordine, favola, orrore e utopia. La giovinezza, come dice Wilde, sarà anche "l'unica cosa che vale la pena di avere", ma senza coraggio significa poco. Sassoli e Cifuentes ne hanno accarezzato il nucleo senza temere l'impatto con l'in-coscienza. San Damiano è una preghiera laica. La canzone senza note di uno che voleva fare il cantante e si è perso tra le strade e i palazzi di una strada che somiglia all'inferno. Un viaggio senza fermate che con un salto di fantasia, tra le fiamme, prende le sembianze di un paradiso che - in San Damiano lo sanno tutti - può attendere per sempre.

StoriadiAtlanta”. “Divina a sua insaputa”: Sono ormai trascorsi svariati mesi da che i marziani giunsero sulla terra disperdendosi tra le folle per portare lumi e splendori tra le tenebre ottundenti del nuovo oscurantismo. La delegazione extraterrestre contava una trentina di figuri, pare, ma il computo è stato fin da subito approssimativo; di quasi tutti si sono perse le tracce molto presto. È invero possibile che la maggior parte degli alieni, delusa dal dogmatismo e classismo terrestri, respinta da un fare poco o per nulla accogliente, sia volata via alla chetichella, rinunciando alle fanfare che avevano invece accompagnato l'atterraggio. Oppure può darsi che, per meglio analizzarci, essi si siano assimilati fino a diventare in qualche modo inapparenti. L'altro giorno il vostro umile cronista, cui spetta comunque il compito di scovarli, i marziani, di parlarci e studiarli mentre essi ci studiano ma non sempre parlano, ricevette un instant message da un numero sconosciuto con prefisso intergalattico. Latrice dello stesso, la Signora Atlanta Scibilia, che a una rapida ricerca su Google si è rivelata essere una bricoleur interculturale impigliata in un perenne loop spaziotemporale. Scrive la marziana, vergando il messaggio elettronico con un linguaggio consono alle missive di Lady Mary Wortley Montagu: "Caro Flaccavento, non ci conosciamo e non è necessario che ci incontriamo, ma vorrei portare alla sua attenzione i casi che mi sono di recente occorsi, i quali lei potrebbe poi diffondere a mezzo stampa tra i suoi lettori, per suscitare dibattito, stimolare conoscenza o far pettegolezzo. A lei la scelta. Le mie tenute a base di crinoline, fez e fazzoletti contadini, di grembiuli, bloomers, djellaba, kimono, tabi e babbucce e pompon e molto altro - mi vesto di lacerti perché per me storie e costumi sono possibilità compresenti - mi ha fatto subito notare nel milieu della moda, che lei ben conosce. Divenni musa, in un nonnulla. Sodale inveterata del nuovo, non dovendo, né sapendo, parlare, ma solo essere me stessa, mi sono fatta irretire. È stato un gravissimo errore. Io che pratico la consonanza di canoscenze e modi, che scovo sempre continuità e congiunzioni tra mondi lontanissimi e cose distantissime, mi sono trovata a dover fronteggiare una certa dogmatica piccineria, e non ero pronta. Non so come sia fuori dall'Italia, perché io fui avvicinata a Milano da una sedicente studio manager che alla mia vista strillò DIVINAAA. Forse altrove le cose vanno diversamente ma temo di no. Mi ritrovai tra color che, un po' alla cieca e prevedibilmente, praticano il culto di Miuccia e Ponti, rileccati e lustri ma scevri della nozione, vitale e per nulla scontata, di gusto. Si vedono sempre nei medesimi posti e parlano un eloquio affettato curando finte esistenze patinate e omologate. Tutto giudicano, fingono raffinatezze che coprono pochezze. Fui il gingillo della settimana, ma lessero il mio credere nella sincronia di culture vestimentarie come la liberatoria per agire con sciocca sventatezza, dimenticando che la superficie è profonda, ma che i vestiti non sono concetti. Così, fuggii: non voglio più essere trovata, non voglio ispirare nessuno, non voglio più passare serate al Bar Basso. Adieu". Il lungo messaggio svanisce appena letto, e così il numero, impedendomi di rispondere.

N.d.r. Le “storie” sopra riportate sono a firma – rispettivamente – di Malcom Pagani e di Angelo Flaccavento e sono state pubblicate sul settimanale “d” del quotidiano “la Repubblica” del 10 di maggio 2025.

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