giovedì 2 marzo 2023

Dell’essere. 69 Ray Banhoff: «I social network sono dei totem di valori che modificano il nostro comportamento e la nostra cultura».

                Sopra. "Murano" (2023), penna ed acquerello di Anna Fiore.

SanRemoedintorni”. Ha scritto Luigi Manconi in “La vita prevale sulla politica” (la Sua “prosa” è ispirata, ché quasi si sente nascere il personale rimorso di non avere rafforzato la nutrita schiera di “italioti” che immancabilmente, ad ogni ricorrenza del Sanremoshow, ne presidiano la sceneggiatura “nazional-popolare” ed ancor più la sarabanda del politichese, tanto per rendere ragione alla ispirazione del Nostro) pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 10 di febbraio 2023:

(…). Penso, in altre parole, che la rassegna canora di Sanremo andrebbe imposta come materia di studio obbligatoria a quanti rivestano qualsiasi mansione pubblica. (…). Il Festival di Sanremo è stato, nella storia nazionale del secondo Dopoguerra, una categoria dello spirito e del corpo destinata a contenere e a manifestare tutti i segni e i segnali di una società in rapido mutamento: i sintomi più visibili, che increspano la superficie dei gesti e delle parole, e quelli più profondi e sotterranei. Due esempi. Nel pieno dell'esplosione dei movimenti giovanili e studenteschi, il primo febbraio del 1968, Sergio Endrigo cantava: "La festa appena cominciata è già finita/il cielo non è più con noi", quasi annunciando una prossima e dolorosa sconfitta. Due anni dopo Adriano Celentano e Claudia Mori interpretavano Chi non lavora non fa l'amore: non una canzone "reazionaria", come si disse, bensì la prova di quanto "l'autunno caldo" e la lotta operaia avessero condizionato i rapporti sociali e le stesse relazioni interpersonali, riproducendosi in ambito familiare e nel conflitto tra i generi. Il termine gramsciano "nazional-popolare", ancorché abusato, si confà perfettamente - nonostante l'insignificanza di tante edizioni - al Festival, in quanto espressione di un insieme di caratteri distintivi della cultura di un popolo, o di ciò che ne resta, e in quanto rappresentativo di qualcosa che richiama una identità, una idea di sé e, se non altro, una immagine. (…). Fatto sta che, almeno in Italia, il carattere nazional-popolare non è assumibile né riproducibile all'interno di una forma politica guidata dalla destra e da Fratelli d'Italia, che pure ha ottenuto il 26 per cento dei consensi elettorali. E fatto sta che le pulsioni e le passioni che percorrono il corpo del Paese sono assai più inquiete e indocili della sua presunta proiezione conservatrice sul piano politico-culturale. È quanto sta accadendo in questi giorni a Sanremo. La pressione esercitata dalla forza dei diritti che prendono la parola sul palco non è controllabile, in quanto corrisponde a movimenti di corpi, a bisogni in carne e ossa, a desideri che hanno nomi e cognomi e volti. E dunque alla domanda di libertà delle donne iraniane e dei minori detenuti a Nisida. (…). Certo, tutto (…) viene rappresentato nel Festival in maniera spesso primitiva e sempre superficiale, ed è destinato, nella gran parte dei casi, a esaurirsi rapidamente, senza quasi lasciare traccia. Ma il Festival deve tenerne conto. (…). Insomma, nonostante l'ossessiva cura nel proporre una diversa mentalità e una differente identità (a partire dall'insistenza su quel Nazione) tutto sembra confermare che in Italia non esista lo spazio per una espressione nazional-popolare di destra; e se vi fosse, dovrebbe prendere in prestito voci e segni, interpreti e simboli della parte avversa. In altre parole, la minorità culturale della destra italiana sembra destinata a perpetuarsi. Nonostante i successi elettorali e gli scoppi di stizza. Di seguito, “Si stava meglio attaccando poster in cameretta” di Ray Banhoff – che guarda e vede aldilà del “nazional-popolare” del Nostro e più acutamente intuisce, anche per il Sanremo come per tanti aspetti del vivere, un soggiacere all’imperativo di “una strategia subdola di posizionamento e marketing - pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 26 di febbraio ultimo: (…). Un po’ ci hanno detto che il Covid ha deteriorato i rapporti, un po’ la coppia è in crisi e il matrimonio non ne parliamo. Però qualcosa manca nella narrazione, perché mai come ora siamo stati pervasi e invasi da immagini sessualizzate. Tv, media, Instagram, il sesso esce da tutte le parti. E non è mai un’entrata in scena in grande stile, un richiamo al sano desiderio o a qualcosa di davvero proibito, ma piuttosto una strategia subdola di posizionamento e marketing. Ho ancora negli occhi le immagini dell’ultimo Sanremo e c’è qualcosa che non capisco: come mai gli artisti devono essere dei sex symbol? Perché è così importante non solo essere belli ma anche ammiccanti o arrapanti? Bisogna tenere tutti incollati allo schermo, tutti a fare like all’ultimo video, altrimenti si scompare. Pensate a com’era ingenua la Carrà che cantava di far l’amore da Trieste in giù e poi visualizzate i Måneskin sempre nudi come in uno spettacolo di addio al celibato per sciure di tutto il mondo; Elodie in versione Beyoncé ma non posso; Levante che canta una canzone sulla gioia di masturbarsi; il bacio tra Fedez e Rosa Chemical. Il messaggio, dal look ai temi delle canzoni, è una provocazione continua. Non c’è niente di male e le celebrità fanno sicuramente bene a fare il loro gioco. Credo solo che i loro video arrivino nei telefoni di persone comuni, che invece sono piene di complessi, di ansia da prestazione e ne vengono devastate. Il New York Times dice che ci sentiamo soli e non facciamo più sesso e sfido chiunque a dire che la comunicazione dei social non è una causa peggiore del Covid. È molto più semplice fare sesso online o grazie a un algoritmo, non investire emotivamente in una relazione, nemmeno nell’amicizia. L’eterno presente in cui viviamo è tutto talmente fondato sulla tutela di sé che la relazione è ormai un pericolo. Dilagano la paura della fusione simbiotica, ovvero di entrare in contatto con l’altro e non sapersi più svincolare, e l’idea che la coppia sia una rinuncia all’autonomia, al nostro successo. Quindi piuttosto non investo, vado contro le mie pulsioni e faccio tutto da solo, mi isolo, (…), ma almeno non mi sento rifiutato o risucchiato. Poi c’è il disagio sociale: e se l’altro mi rifiuta? E se faccio cilecca? E se non sono figo come l’immagine del tizio famoso che mi arriva? Non si possono più considerare i social network come una forma di intrattenimento e basta, ormai sono dei totem di valori che modificano il nostro comportamento e la nostra cultura. Sì, lo facevano anche il cinema e la tv, ma lì non eri mai tu il protagonista. Adesso più sei provocante più sei esposto. Senza essere nostalgico, penso che si stesse meglio quando si attaccavano i poster degli altri sul muro della cameretta, invece che il nostro.

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