Uominiedio. 11 Una certa idea della vita.
E poi ci sarebbe una certa idea
della “vita”. Scrivevo il 5 di febbraio dell’anno 2009 – “Di una vita pienamente umana” -: (…). Scrivo da non credente. A me pare,
semplicemente, che il divario tra il credente ed il non-credente passi per la “visione”
che si ha del concetto proprio di vita. E nella mia riflessione non voglio
assolutamente lasciarmi trascinare dalla mia “educazione scientifica”. La linea
di confine è collocata proprio in quella “visione” della vita: angusta, poiché
rivelatasi nell’occasione irrimediabilmente materialista da parte dei sedicenti
credenti, che legano, nella vicenda della sfortunata Eluana, la loro difesa
della vita alla difesa di “quella vita” ridotta alla sola materialità o meglio,
con minore crudezza, alla sola forma biologica; di grande spessore e che vola
alta invece e come insufflata da un anelito di insperata “spiritualità”, messa
laicamente tra virgolette, la “visione” espressa nell’occasione dai cosiddetti
non-credenti o laici che dir si voglia, che usurpano quasi quella “visione” della
vita che dovrebbe essere propria dei credenti nel senso non solo strettamente
lessicale. E mi fermo a questo punto su quel “citarsi addosso” di
woodyana memoria. Poiché una certa idea della “vita” rientra a buon
diritto nella cosiddetta “sovrastruttura”. Idea che non è
negoziabile. Riporta il teologo Vito Mancuso – sul quotidiano la Repubblica del
13 di settembre ultimo, “Il Papa, i non
credenti e la risposta di Agostino” -: Il cardinal Martini, (…), amava ripetere la
frase di Bobbio: "La vera differenza non è tra chi crede e chi non crede,
ma tra chi pensa e chi non pensa". Il che significa che ciò che più unisce
gli esseri umani è il metodo, la modalità di disporsi di fronte alla vita e alle
sue manifestazioni. Tale modalità può avvenire o con una certezza che sa a
priori tutto e quindi non ha bisogno di pensare (è il dogmatismo, che si
ritrova sia tra i credenti sia tra gli atei), oppure con un'apertura della
mente e del cuore che vuole sempre custodire la peculiarità della situazione e
quindi ha bisogno di pensare (è la laicità, che si ritrova sia tra gli atei sia
tra i credenti). (…). …per quanto si possa essere accomunati dalla volontà di
dialogo e dallo stile rispettoso nel praticarlo, la differenza tra credenti e
non-credenti non viene per questo cancellata, né deve esserlo. (…). È quindi
particolarmente importante rispondere alla domanda sulla vera differenza tra
credenti e non credenti, capire cioè quale sia la posta in gioco nella
distinzione tra fede e ateismo. Ben detto. Che prova a mettere nei
giusti limiti ed al riparo dalle “esagerazioni” del momento gli scambi
epistolari di questo giorni del secolo ventunesimo. Poiché le differenze, pur
su di un piano di parità dialogante, devono pur esserci. Ma avviene, poiché è
sempre avvenuto, che una delle posizioni in dialogo tenti di divenire la
posizione “erga omnes”. Ovvero, una certa visione della “vita”
che annulli le differenze. Scrivevo in quel tempo infuocato da un contesto da
tragedia: Come è possibile porsi a
difensori di una vita che non abbia una “consapevolezza” del proprio “essere”,
del proprio stato, di una vita che non abbia nulla di vita di relazione con gli
altri e con la propria individuale storia? Quei difensori della vita, di una vita
ripeto ridotta allo stadio biologico, dovrebbero, a rigor di logica, erigersi
coerentemente a difensori di tutte le forme di vita biologica; tralasciando le
forme microscopiche per la loro intrinseca non visibilità nel mondo reale dei
sensi ed andando su su per la scala della complessità biologica, dovrebbero
erigersi a strenui difensori dei platelminti, così come dei celenterati, e
degli artropodi, e dei molluschi, per non dire del resto dei vertebrati se non
dei rimanenti mammiferi. Niente di tutto ciò. Istruiti alla parola della
provvidenza che sia divina, abbacinati da un credo che li conduca a ritenersi
creati “a somiglianza” di un’entità assolutamente astratta (dio!), hanno i
credenti occupato il pianeta chiamato
Terra da padroni assoluti e con i comportamenti conseguenti verso tutte le altre
forme di vita biologica. La “sacralità” della vita umana ridotta al solo
aspetto biologico rimasto viene tirata fuori nella vicenda tristissima di
Eluana; quella vita non più umana, ma soltanto biologica, vita difesa con
altisonanti proclami, e manca poco che si invochino le ire e le saette
dell’astratta identità superiore che tutto ha creato. Mi sconcertano queste
tristissime vicende del tempo nostro. È come se gli uni, ovvero i credenti,
avessero perso i connotati loro, il loro anelito alla trascendenza, la loro
visione della vita che travalica, o che dovrebbe travalicare per l’appunto
l’angusta “visione” della vita ridotta allo stato “miserevole” (quante
mortificazioni della carne hanno dovuto assaporare i credenti di questo mondo)
della corporalità. È così che la “sovrastruttura” di una parte
diviene la “sovrastruttura” per tutti. Ecco perché mi appaiono fuor di
luogo gli entusiasmi suscitati, in particolari ambienti di pensiero, da tutte
quelle epistole che sembrano volteggiare sulle nostre teste, sulle nostre
coscienze. In una Sua riflessione – “Perché
non amo il papa pacione” su “il Fatto Quotidiano” del 28 di settembre -
Massimo Fini ha scritto: Nell’evangelizzazione c’è (…), in nuce, il
vizio oscuro di tutta la storia dell'Occidente, il tentativo di reductio ad
unum dell’intero esistente. L’evangelizzazione partorirà molti figli,
apparentemente diversissimi. Il primo sarà l’eurocentrismo, il colonialismo
europeo che si basa, almeno a partire dal XV secolo, sulla distinzione fra
culture “superiori” e “inferiori” e il dovere delle prime di portare la civiltà
alle altre. Il secondo figlio – anche se può apparir strano – sarà
l’Illuminismo che a Dio sostituirà, assolutizzandola, la Dea Ragione. La
Rivoluzione francese e le truppe napoleoniche si incaricheranno di esportare,
sulla punta delle baionette, questa inedita “buona novella”. Il terzo – il che
può apparire ancora più strano – sarà la Rivoluzione sovietica che, sotto il
manto del materialismo scientifico e dell’internazionalismo proletario, tenterà
di ricondurre tutto il mondo sotto il suo modello (…). Il quarto, il più
compiuto e realizzato, è il modello di tipo capitalista. La sua formidabile
espansione si basa su una sorta di evangelizzazione mercantile e tecnologica
che ha al suo fondo la convinzione che questo sia “il migliore dei mondi
possibili”. È in virtù di questa convinzione che ci siamo intromessi in tutte
le altre culture, assimilandole o, quando non è stato possibile, togliendole
brutalmente di mezzo. Dio ha preso le forme della ruspa. Quando Bergoglio
afferma che “senza lavoro non c’è dignità” non so se si renda conto che così si
inserisce, a pieno titolo, nonostante le parole su solidarietà e misericordia,
in questo modello disumano. Un suo predecessore, un po’ più autorevole, San
Paolo, che la Chiesa l’ha fondata, definiva il lavoro “uno spiacevole sudore
della fronte”. Io non sono credente ma, pistola alla tempia, sto con Paolo non
con Bergoglio. Il dito nella
piaga, in quella che l’illustre chiama “evangelizzazione” che è da sempre il tentativo non
taciuto di “reductio ad unum dell’intero esistente”. Anche su quella certa
idea della “vita”. Scrivevo oltre: Ma
lo stato “miserevole” della corporalità non dovrebbe rappresentare per i
credenti solamente uno “stato del passaggio” verso quella vita gaudiosa che li
attenderebbe oltre l’azzurro del cielo? È, quest’ultima, la visione della vita
che manca al non-credente, al laico in quanto tale. In questa tristissima
vicenda di Eluana sembra che le parti si siano invertire, come da un blasfemo
copione. Preciso meglio. Ho sempre creduto e sostenuto che l’unica “singolarità”
che renda l’uomo “veramente umano” sia la sua percezione della inevitabile e
sempre imminente “fine”. Fine della propria corporalità, non della Storia. Solamente
l’uomo veramente “umanizzato” – reso umano sin dall’atto del concepimento,
dallo stadio di zigote o magari oltre? difficile questione assai – ha questa
consapevolezza che lo distingue da tutte le altre forme viventi. Ho sempre
sostenuto come sia impropria se non da considerarsi sommamente “errata” la
tanto abusata espressione “venire al mondo”: “venire al mondo” al pari di un
verme qualsiasi, al pari di una formica qualsiasi ecc. ecc. Tutte le forme
biologiche nascendo “vengono al mondo”. Non per l’essere umano “umanizzato”.
Per l’uomo penso debba valere meglio il suo “venire nel tempo” che sta ad
indicare la sua consapevolezza di essere venuto sì al mondo ed al contempo la
sua consapevolezza di “doverne immancabilmente uscire”. Quale altra specie
biologica condivide con l’umana specie tale consapevolezza? Nessuna specie
biologica che io sappia. Nella scala della complessità biologica le varie forme
viventi hanno sviluppato anche “sensibilità” al dolore, alla familiarità, alla filiazione,
alla sessualità, ma nessuna forma biologica, che io sappia, ha sviluppato la
consapevolezza propriamente umana di “venire nel tempo”, di “essere nel tempo”,
di essere “entrati nel tempo” e di dovere un giorno “uscire dal tempo”. E
fermo a questo punto quelle mie riflessioni. È possibile concedere “sconti” su
questa che è una certa idea della “vita”? È possibile farsi
soverchiare da una certa “sovrastruttura” che neghi, in
determinate, sfortunate circostanze della vita, queste particolarità dell’essere
vivente chiamato uomo, totalmente uomo? Il dialogo è dialogo se non è impari.
Altrimenti ne segue l’assolutismo. E l’assolutismo è la negazione dello stato
di umanità.
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