Che rapporto ha con questa terra? «C'è l'Etna che dona fertilità e l'acqua cristallina che vi scorre accanto. Qui la montagna ci mette al riparo dalle spallate del vento. Su una fascia lunga 25 chilometri possiamo piantare qualsiasi cosa. E ho avuto la fortuna di esservi nato. Qui ogni cosa che realizzo mi dice che l'alleanza tra la natura e l'artificio è stata un'impresa possibile».
Fino a quando questa alleanza potrà funzionare? «Fino a quando l'uomo sarà in grado di progettare con rispetto ciò che il mondo naturale gli mette a disposizione. Da sempre questo rapporto è stato dato per scontato: piantare un albero, vederlo crescere, curarlo se si ammalava erano considerati gesti ordinari. La botanica era vista come la più ovvia delle classificazioni. Perfino la parola "vegetale" è stata usata per indicare una persona incapace di reagire, priva di stimoli, né viva né morta».
Cosa le ha insegnato la botanica? «Non ho nessuna competenza e non pretendo di addentrarmi in un territorio ricco di storie scientifiche che non riuscirei a raccontare. Ma so che molte delle cose che ho realizzato vanno nella direzione della bellezza e della sua salvaguardia. So che una pianta o un albero possono aspirare a quella dignità della vita per lungo tempo riservata al solo regno animale».
Ci sono studiosi che si sono spinti fino a riconoscere una sorta di intelligenza al mondo vegetale. «Ne sento spesso parlare e non saprei cosa dire. Non saprei come interpretare questa intelligenza. Le piante ci capiscono, come noi possiamo capire loro? Ci amano come noi possiamo amarle? Hanno un pensiero come io posso averne uno in questo momento? Non lo so. Non so affrontare i loro sì e i loro no silenziosi. E se a volte mi riesce è perché credo in un'energia cosmica che ritroviamo in ogni singolo vivente. Ma non mi spingerei oltre. Anche le parole hanno le loro stagioni, come gli alberi anch'esse perdono le foglie e allora preferisco tacere».
Cos'è la semplicità per lei? «È fare le cose che ho sempre fatto. Alzarmi tutte le mattine, non importa con quale tempo, e girare per i diciotto vivai. Incontrare le persone che vi lavorano. Ciascuno con il proprio compito. Sentire cosa hanno da dirmi, guardare le loro mani, perché le mani parlano più della lingua, più della voce, più delle intenzioni. È semplice sapere che c'è un giorno dopo per continuare a prendersi cura di quello che è stato fatto il giorno prima».
Cosa ricorda del suo primo vivaio? «Parliamo di tantissimi anni fa. Era un piccolo appezzamento di 600 metri quadrati, che mi donò mia madre. È come il nichelino di Paperone o il francobollo che conservo nella memoria. Se penso che attualmente l'azienda ospita un migliaio di specie vegetali, erbe aromatiche e più di cinquemila varietà di piante mediterranee allora mi viene da concludere che la nostra impresa è una straordinaria enciclopedia botanica. Siamo il vivaio più grande in Europa di piante mediterranee. Le esportiamo in tutto il mondo: in Francia, Germania, Spagna, Olanda. In Oriente. Perfino nei paesi arabi, dove ci richiedono delle palme che crescono bene da noi».
Che genere di piante? «All'inizio erano alberi da frutta, poi siamo passati alle piante ornamentali. In seguito, dopo una crisi subita nel 2008, abbiamo reimmesso alberi da frutta. Aggiunti a tutto il resto».
E la crisi a cosa fu dovuta? «A una sovrapproduzione di piante ornamentali. Ai crack finanziari provocati dal fallimento mondiale di alcune banche. Come impresa perdevamo un milione l'anno. Le sto parlando di semplice contabilità. Ma un'azienda così particolare è anche altro».
Altro in che senso? «Per la logica uno più uno fa due. Per la passione la stessa somma può fare tre. Ecco il dilemma. Come raggiungere il tre senza contraddire il due. Credo che ogni atto inventivo, ogni creazione, ogni rinnovamento debba tenere conto di questa specie di paradosso. La malattia del nostro tempo è la contabilità del mondo, la cura è la sua cantabilità. Il fatto che io mi sia occupato per tutta la vita di una parte importante del mondo naturale mi ha permesso di comprendere e accettare quel paradosso. Mi ha consentito di dare un senso al futuro e con esso di affrontare il rischio dell'azzardo».
Ha viaggiato? «Sì, l'ho fatto per curiosità e per necessità. Pur non conoscendo le lingue, mi sono arrangiato come potevo. Non mi è andata male. Mio padre non amava viaggiare. Non è mai uscito dalla Sicilia, tranne la volta in cui fu chiamato a fare il militare. Voleva che studiassi e che diventassi tutto quello che non era stato. Ma ho fatto fino alla quinta elementare. Il giorno stesso dell'ultima pagella gli dissi che non sarei più andato a scuola. Avevo 11 anni. E che vuoi fare? Sei pazzo! Rispose. Voglio lavorare per te, dissi».
E lui? «È facile che te ne pentirai ma non potrai tornare indietro, mi ammonì, E io resistetti. Allora mi regalò una moto Ape. Era di seconda mano e piena di ruggine ma ame sembrava un gioiello. Tutte le mattine mi alzavo alle quattro. Raccoglievo la frutta, caricando le cassette di gelsi e di albicocche. E la portavo al mercato. Poi passai alle piante di agrumi. Gli anni correvano senza che me ne accorgessi. Raggiunto il diciottesimo comprai il mio primo camion. Giravo per le campagne e acquistavo la frutta direttamente sugli alberi. Poi un giorno mi venne l'idea delle piante ornamentali».
Come accadde? «Ero a Pistoia, dove ci sono i vivai più importanti d'Italia. Era novembre e conobbi un signore che mi portò a visitare il suo vivaio. C'era una quantità sterminata di abeti, si avvicinava il Natale e pensai che il commercio di quegli alberi fosse una buona idea. Non avevo molti soldi, non avevo camion per il trasporto. Marino Cioni si fidò di me e a Firenze reclutai un camionista cui diedi le piante. Fu la mia prima grande occasione, nata dalla fiducia di una persona che neppure mi conosceva. Marino è rimasto per tantissimi anni il mio fornitore. Gli sarò sempre grato».
A chi altri deve dire grazie? «A mia moglie Carmela. C'è lei dietro ogni decisione importante. Carmela cura l'ospitalità, le persone che vengono a trovarci e a visitarci. E poi ci sono i miei figli: Mario di cui ho già detto e Michele. Ma voglio dire grazie a una persona che è rimasta con me per 43 anni. La presi giovanissima dall'istituto di agraria. Alfio è stato importantissimo per l'azienda. Ora è in pensione. Ha deciso di andarci. Ma so che lui c'è sempre per me. E questo va oltre il rapporto di lavoro ed entra nella sfera dell'amicizia».
Ha guadagnato molto con i vivai? «Tutto quello che ho guadagnato l'ho reinvestito. Non sputo sul profitto. Ma credo che non vada dissipato. Un'azienda può crescere o avvizzire come una pianta. Devi curare entrambe. In tutte le loro parti».
Offre un'immagine molto armonica di sé e del suo lavoro. «Nei 65 anni del mio impegno non avrei fatto quello che ho realizzato senza un principio di coerenza e di fedeltà alla terra. Non ho mai ossequiato la natura, semmai ho provato ad amarla».
Fin dove si è spinta la sua coerenza? «Fino al punto di rimanere quello che sono nonostante il successo o le difficoltà, senza lasciarmi corrompere dalle lusinghe del potere o del denaro. Io so che in ogni lavoro c'è sempre il rischio di smarrirsi».
Come è stato possibile evitarlo? «Per me che ogni volta parto dal seme è impossibile dimenticare da dove vengo; e poi le mie "radici" mi ricordano di essere nato umile. La coerenza è anche questo, una forma di salvezza pratica».
La salvezza è anche una speranza religiosa. «Io la vedo come il risultato della cura per ciò che amiamo. Le racconto un piccolo episodio. Ero in macchina nel ragusano. Giravo per stradine polverose cercando un posto. Quando improvvisamente vidi un contadino su una scala che stava segando i rami di un vecchio carrubo. Mi fermai e gli chiesi che cosa stava facendo. Mi rispose che voleva fare legna da quell'albero per poi venderla. Gli proposi che gli avrei dato il doppio se mi avesse venduto l'albero integro».
E il contadino? «Stupito accettò. Aveva altri due carrubi dietro la casa. Comprai anche quelli. Il più vecchio aveva 1200 anni. A suo modo un testimone unico di una lunga storia siciliana. Li ho trapiantati qui a Giarre. Anche questo è un piccolo esempio di come possiamo non dico salvare il mondo ma renderlo impercettibilmente migliore. Se un giorno, quando non ci sarò più, i miei figli dovessero o volessero vendere l'azienda, cosa ovviamente che non mi auguro, metterò per iscritto che i tre alberi e il parco di Radicepura restino alla famiglia».
Perché? «Non è romanticismo. È il buon esempio. Se si parla di radici, di storia e di memoria non puoi strapparle dopo esserti riempito la bocca di bei discorsi immaginari».
Che cos'è il buon esempio? «Sapere che la vita di un bosco può lasciare qualche prezioso consiglio alla vita della comunità. Le piante non conoscono l'ostilità. Una pianta non preda e non uccide, non odia. Ha bisogno di luce, di acqua, di terra. Un albero può vivere migliaia di anni e forse non dovremmo chiamarlo albero ma con il suo nome: carrubo, ulivo, arancio. I nomi sono importanti. I nomi creano il bene più prezioso: l'identità e la diversità».
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