"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 19 marzo 2021

Leggereperché. 68 «L'eredità di mio padre è inestimabile: una testa e le istruzioni per usarla, uno spirito critico e la leggerezza per temperarlo».

A lato. "Lisbona" (2020), penna ed acquerello di Anna Fiore.

Oggi ricorre il San Giuseppe dei credenti. Posseduto da una visione “laica” della vita ho telefonato a Giuseppe (detto “Peppuccio”) L. per gli auguri dell’occasione. Ma contrariamente all’abitudine me ne sono uscito con un augurale “buona festa dei papà anche per te”. Sorpreso Giuseppe (detto “Peppuccio”) mi ha ribattuto: “ma io non sono un papà”. Giuseppe è stato un maestro eccezionale, tenero, e maestro felice di esserlo fino in fondo.

Mi è venuto spontaneo rispondergli: - ma caro “Peppuccio”, sei stato un papà per decine, cosa dico, per centinaia e centinaia di bimbi, un papà per i tuoi alunni. Non un “papà” per via naturale, certo, ma un “papà” dall’animo buono e dalla intelligenza pronta ed efficace -. Ho sentito nel telefono la sua voce come incrinarsi e tirar su come per un improvviso “moccolo” nasale. Certamente “Peppuccio”, dopo aver spento il suo telefonino, avrà pianto. Tratto da “Guarda, mamma: un giorno tutto questo sarà mio” di Claudia de Lillo – in arte “Elasti” – pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 19 di marzo dell’anno 2016: Sai cosa voglio fare da grande, mamma?».

«Fino a poco tempo fa dicevi che volevi fare il tagliaerba, il maestro dell'asilo e il poliziotto, se non ricordo male».

«Sì, ma io adesso sto parlando della mia vita».

«Qualche tempo fa mi avevi detto che volevi restare qui a casa, insieme a me».

«Sì, è vero. Ma io intendo dopo ancora. Dopo che tu… dopo di te, insomma».

«Ah, che allegria. No, non so quello che vorrai fare dopo… di me. Però non è fondamentale che tu me lo racconti ora. Cioè, se non vuoi, non ti senti… Mi sembrano pensieri un po' tristi… forse».

«No, no. Non sono pensieri tristi. E te li voglio raccontare. Io, che sono il più giovane, me ne starò bello solo. Guiderò la nostra macchina che sarà mia e starò in questa casa, mia pure lei».

«Ecco, bene».

«E userò tutti gli armadi. Perché anche gli armadi saranno miei. E le calze che ci sono dentro».

«Mi sembra un programma bellissimo. Tu, gli armadi, le calze…».

«Già».

Il cinismo di mio figlio minore che, come un avvoltoio, se ne sta appollaiato sopra le nostre teste aspettando, dall'alto della sua età acerba, che noi uno a uno togliamo il disturbo, mi inquieta e mi fa ridere. E, mentre lui aspetta di diventare signore e padrone del nostro regno di armadi e calze al primo piano, io mi interrogo sull'eredità, nell'accezione più ampia e astratta possibile, sul diritto di riceverla e sul dovere di lasciarla. Mio padre era uomo di sogni, di pensieri, di visioni e di curiosità. Sapeva sedurre e incantare, raccontare storie e condividere passioni, far ridere e riflettere. Di lui, tangibili, annusabili, guardabili, ho centinaia di libri, una giacca impermeabile, primaverile che indossa in una fotografia di qualche anno fa, scattata ai giardini pubblici, con mio figlio in braccio, una targa con la scritta «Preside» e il suo nome sotto, appesa alla porta del suo ufficio e faticosamente rimossa, in un cupo pomeriggio d'inizio estate. Nessuna casa, nessun armadio colmo di calze e dobloni d'oro, nessuna cassaforte o materasso farcito di banconote e gioielli. Eppure l'eredità di mio padre è inestimabile: una testa e le istruzioni per usarla, uno spirito critico e la leggerezza per temperarlo, l'ironia al servizio di se stessi in primis, la gentilezza, la curiosità, mani e piedi uguali ai suoi. Lasciti così non si improvvisano. Richiedono anni di lavoro, dedizione, impegno quotidiano, un progetto di vita che investa sul presente e guardi lontanissimo, un'aspirazione d'inossidabile longevità, esempio, parole, confronti e scontri, pazienza e passione. «Sarà tutto mio: anche la scarpiera con le scarpe dentro. E pure la doccia con i saponi e lo shampoo», prosegue il piccolo sciacallo che sto crescendo, evidentemente con enormi tare educative che mi inchiodano alla mia inadeguatezza genitoriale. «Già che ci sei prenditi anche il balsamo. Così avrai i capelli morbidi, oltre che puliti». Cosa vorrei lasciare, a lui e ai suoi fratelli, oltre alle chiome setose grazie a un sapiente uso del balsamo? Vorrei lasciar loro un paio di occhiali a testa, che consentano di vedere i colori, il lato bello del mondo, le sfumature di grigio, lo spessore e la densità del prossimo, la complessità come ricchezza, la diversità come un tesoro. Vorrei lasciare una risata, da tenere in tasca e tirar fuori quando si prendono troppo sul serio. Vorrei passar loro il testimone della leggerezza, che mi ha dato mio padre, perché, planandoci sopra, la vita è un viaggio magnifico. Vorrei dotarli di un radar per scoprire i talenti e le passioni, perché tutti ne abbiamo. Il difficile sta nel riconoscerle e inseguirle come un faro, come se intorno ci fosse solo il buio. E infine vorrei dar loro spalle larghe e un baricentro solido, la consapevolezza di sé che si coltiva da piccoli per crescere rigogliosa da grandi. «E, comunque, noi due siamo infiniti. E di queste stupidaggini, mamma, non ce ne deve importare niente», conclude lui, guardandomi con la sicumera dei supereroi. E dei bambini.

1 commento:

  1. Grazie, Aldo, per questo stupendo post così coinvolgente,perché tanto ricco di emozioni vere e profonde, che commuovono... I genitori continuano sempre a vivere nei figli, soprattutto quando riescono a scrivere le pagine più belle sul libro della loro anima. Ciò che lasciano sono perle incastonate nello scrigno del cuore dei propri figli, che sicuramente resteranno lì per sempre. Grazie ancora e buona continuazione.

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