"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 21 novembre 2020

Virusememorie. 48 «La pandemia è più forte dei numeri, che la inseguono vanamente senza prenderla».

 

“Echi dalla pandemia” 1. Tratto da “2020” di Giuseppe Genna, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’8 di novembre 2020: I numeri non bastano più a spiegare o a ricordare. 2020 è il numero imperfetto, che segna un limite e implica una persistente assenza di sollievo, ovunque quest’anno lo si viva. Un numero della tensione, un marchio del dolore patito da un intero pianeta. Pare quasi un brand. Nel capolavoro di Foster Wallace, “Infinite jest”, gli anni non sono più connotati dai numeri, ma dalle sponsorizzazioni. La storia si svolge prevalentemente nell’“Anno del Pannolone per Adulti Depend”. Forse dovremmo chiamare il 2020 “Anno delle Doglie”. C’è una differenza rispetto ai grandi anni che finora abbiamo vissuto (il Muro nel 1989, le Torri nel 2001), perché non avevamo mai sperimentato un fatto planetario che tocca la pelle di ciascun vivente. Si potrebbe dire che è l’anno del virus, ma la pandemia è più forte dei numeri, che la inseguono vanamente senza prenderla. Tutto sembra trascinarsi con fatica nel corso di un anno in cui misuriamo non soltanto l’inverno del nostro scontento, poiché qualunque stagione è risultata a suo modo trista. Frammenti interi sembravano crollare di un colpo (crisi finanziarie, clima, guerre), ma col 2020 tocchiamo qualcosa in più: il crollo di una totalità. Che siamo noi. Nell’Apocalisse l’angelo giura che il tempo non esisterà più. È molto giusto, preciso, esatto. Il tempo sembra essersi sospeso nell’affanno con cui lo attraversiamo. Ma è l’infelicità la norma che determina come possiamo abitare questo anno così decisivo? Quando una madre partorisce, lo fa con dolore.

“Echi dalla pandemia” 2. Tratto da “Questa didattica distanzia l’uguaglianza” di Roberto Saviano, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 15 di novembre 2020: Uno dei nodi più discussi del dibattito attorno alla pandemia è se chiudere o meno le scuole. Durante la prima ondata pandemica le scuole italiane sono rimaste chiuse per 15 settimane. Certo, si è tentato di compensare con la didattica a distanza, lo si sta facendo anche ora, con insegnanti eroici che riescono a rimediare alle arretratezze del nostro sistema scolastico, ma come ha sottolineato anche Save The Children, la didattica a distanza ha un grande limite: accentua il divario tra famiglie benestanti e famiglie più povere, perché i bambini che vengono sostenuti in famiglia recupereranno le competenze perse, quelli che invece hanno alle spalle situazioni più fragili non solo resteranno indietro, ma rischiano di abbandonare il loro percorso scolastico, un fenomeno che in Italia riguarda già più del 13% dei ragazzi, soprattutto al Sud. Secondo l’Unicef, a causa del Covid oltre 24 milioni di studenti nel mondo rischiano di abbandonare la scuola. Siamo portati a pensare che la chiusura delle scuole sia una perdita solo per il singolo studente in termini di competenze, di relazioni, di educazione. Ma ci siamo mai chiesti quanto perdiamo tutti noi, come società, se le scuole sono chiuse? Ha risposto l’Ocse, in uno studio pubblicato a settembre, che ha quantificato gli effetti della chiusura delle scuole di questa primavera in una contrazione del Pil globale annuo dell’1,5% fino alla fine del secolo. In termini monetari, circa 14mila miliardi di dollari. Perché acquisire minori competenze oggi significa non solo minor guadagno per i singoli domani, ma anche una minore produttività per la comunità. Non stanno perdendo qualcosa solo gli studenti, stiamo perdendo tutti. E questo è solo dal punto di vista economico, senza considerare il costo psicologico e umano. Con ogni probabilità sono proprio queste valutazioni che hanno portato, nella stragrande maggioranza dei casi, a tenere le scuole aperte e funzionanti. L’importanza capitale della scuola a ogni latitudine e in ogni contesto, soprattutto nelle aree più povere e disagiate, mi ha fatto pensare alla storia di Francesca Cabrini. Francesca era una suora cresciuta tra le famiglie povere del lodigiano a metà dell’800. Era una maestra e iniziò a fondare scuole per ospitare le bambine senza genitori, che essendo rimaste da sole erano destinate alla strada. Lei raccoglie queste bambine e inserisce munizioni nei loro zaini: non sono proiettili, ma conoscenza, numeri, segni, parole… Quelle erano le armi che le avrebbero aiutate a difendersi. Perché Francesca sapeva che l’unico modo di ridisegnare il mondo è l’alfabeto. Nel 1889 viene mandata in missione negli Stati Uniti per portare assistenza agli immigrati italiani. Quando Francesca Cabrini arriva a New Orleans, trova a Little Palermo una comunità italiana per nulla integrata. Del resto, nessuno a Little Palermo parlava inglese, non sapevano farsi capire se non gesticolando, e questo faceva risultare stupido anche il più acuto dei pensieri. E infatti i giornali americani pubblicavano vignette in cui gli italiani erano ritratti con sembianze animalesche, a volte come oranghi altre come topi di fogna. Francesca capisce che la prima cosa da fare per cambiare questa situazione è costruire scuole per insegnare l’inglese agli italiani, così potranno difendersi nei tribunali, contrattare il prezzo di quello che comprano o vendono, far valere i loro diritti. Non solo, Francesca capisce che gli italiani avevano molta difficoltà a imparare l’inglese perché quella per loro rappresentava la lingua dell’umiliazione, del disprezzo subito, delle frustate nei campi. Chi è che familiarizza con una lingua che ti dà soltanto calci? Perciò, prima di ogni lezione, Francesca si mette a lavare e pettinare i bambini, in modo che capiscano che la nuova lingua che stanno per imparare arriva da persone che vogliono prendersi cura di loro. Ma a Little Palermo mancavano gli ospedali, non c’erano le strade, non c’erano fognature, quindi la gente chiedeva a Francesca Cabrini: «Ma perché non costruisci strade e fognature prima di costruire scuole?». E lei rispondeva: «Perché una strada, quando finiscono i soldi, nessuno la ripara, ma se tu formi una testa, quella poi ti può riparare molte strade».

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