"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 20 novembre 2020

Storiedallitalia. 89 «L'emergenza straccia un velo in cui spesso, per non vedere ciò che preferiamo ignorare, ci avvolgiamo».

 

Ha scritto Massimo Fini in “Se è una guerra, bisogna censurare i dati horror” pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 18 di novembre 2020: (…). Gli idolatri della Costituzione non si sono accorti (…) che la Costituzione così come fu concepita e dettata dai nostri Padri fondatori non esiste più da tempo, sostituita da una “costituzione materiale” che si viene via via elaborando basandosi sui fatti nel loro incessante cambiare, fottendosene dei principi, così come scrive Giovanni Sartori sulla cui democraticità non è ammissibile avere dubbi (Democrazia e definizioni). Anche Norberto Bobbio che ha dedicato tutta la sua lunga vita allo studio della Democrazia, essendone un fervente partigiano, ammette che la Democrazia non è una democrazia, ma una poliarchia, cioè l’organizzazione di gruppi di potere di vario genere sui quali l’influenza dei cittadini è minima se non nulla. Un esempio di questa trasformazione della Costituzione propriamente detta in “costituzione materiale” e della Democrazia in poliarchia è dato dal potere assunto nel tempo dai partiti. Dei partiti si occupa un solo articolo della Costituzione, il 49, che così recita: “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. È esperienza di tutti noi che i partiti partendo da questo unico articolo hanno debordato in quasi tutti gli altri 139, assumendo poteri fuorvianti in tutto il settore pubblico, ma anche in parte di quello privato. Senza l’appoggio di un partito, quale che sia, non si vive in Italia. Quello che era un diritto è diventato un obbligo. Non si tratta naturalmente di prendere una tessera, questo lo fanno solo gli sprovveduti, ma di dichiarare la propria fedeltà a un capo partito o a un sottocapo, così come in altri ambiti di quel potere “poliarchico” di cui parla Bobbio, a clan diversi, a lobby, a mafie di ogni genere, allo stesso modo in cui in epoca medievale il valvassore dichiarava la propria fedeltà al feudatario e costui al Re. (…). Su questa desolante ma purtroppo realistica rappresentazione dello stato delle cose per la nostra democrazia un contributo prezioso lo ha offerto, alla stessa data, Gustavo Zagrebelsky in un Suo intervento sul quotidiano “la Repubblica” che ha per titolo “La democrazia d’emergenza”. Mi sento di sostenere a lettura fatta che questa “democrazia d’emergenza” sia ben antecedente alla pandemia in corso, confortato in ciò proprio da un passaggio del prezioso scritto di Zagrebelsky laddove scrive che “la democrazia è (divenuta n.d.r.) il regime (…) del consenso a tempi brevi, tra un'elezione l'altra; o a tempi brevissimi, tra un sondaggio e un altro”. Uno snaturamento profondo e gravissimo dell’istituzione democratica che distorce, nei responsabili della cosa pubblica, qualsivoglia priorità e qualsivoglia visuale operativa o di scelta purché esse siano non già a vantaggio di tutta una comunità ma ad un presente che nell’immediato renda al massimo i suoi frutti elettorali. Ha scritto ancora Gustavo ZagrebelskY: Nelle fasi tranquille e ripetitive della vita le domande di fondo stanno, per l'appunto, nel fondo. "Emergenza" sta a dire che vengono a galla. Denudano le deboli o false idee che ci fanno riposare nei momenti tranquilli. I momenti difficili sono "archeologici", mostrano verità prime. L'arché è ciò che sta in principio e ha la sua verità che dura nel tempo, anche quando l'abitudine, il conformismo e la pigrizia impediscono di vederla. L'emergenza straccia un velo in cui spesso, per non vedere ciò che preferiamo ignorare, ci avvolgiamo. Questa premessa è forse un po' troppo ampollosa, volendo parlare di queste due questioni politiche: il bene e il male del regionalismo, la capacità e l'incapacità di prevenzione. Questioni diverse che confluiscono, però, in domande sulla democrazia. (…). L'emergenza-virus ha svelato l'illusione e la realtà. Si incomincia a pronunciare quella che, fino a non molto tempo fa, sarebbe stata una bestemmia, che non mancherebbe di argomenti: altro che buon governo delle Regioni; aboliamole piuttosto! Tuttavia, invece che inseguire questa utopia, la lezione da trarre dalle emergenze è che, al di là della buona o cattiva volontà di questo o quel "governatore", ma per ragioni strutturali di consenso, è che esse sono "divisive", paralizzanti. Nelle emergenze sanitarie, ecologiche o finanziarie, le misure necessarie sono necessariamente restrittive: limitano diritti e impongono doveri. Sono dolorose e impopolari. L'impopolarità, che si misura nelle elezioni e nei sondaggi, è l'incubo non solo per il populismo d'ogni genere ma anche per le democrazie che, più d'ogni altro regime, hanno bisogno di consenso. Quando i governanti sono deboli e non sanno suscitare le passioni civili positive che sono tanto necessarie nella cattiva sorte, ecco manifestarsi la fuga dalle responsabilità: spetta a te, non a me. Normalmente, nella dialettica tra potere centrale e poteri decentrati, avviene il contrario: spetta a me, non a te. Ma solo se si tratta di distribuire benefici, non quando si tratta di imporre sacrifici. La prevenzione. Le catastrofi non sono affatto un privilegio del nostro tempo. Collasso s'intitola un gran libro di Jarret Diamond che trova testimonianze numerose nello spazio e nelle epoche storiche; Chiara Frugoni ci apre gli occhi (letteralmente, attraverso un'iconografia meravigliosa e terrificante) sulle Paure medievali - Epidemie, prodigi, fine del tempo - . Questo per dire che non c'è nulla di nuovo sotto il sole? Non del tutto. Noi viviamo in un tempo in cui possiamo essere preveggenti (perfino di terremoti e disastri idro-geologici) e potremmo immaginare e preparare difese e rimedi. "Potremmo" ma quasi mai ci riusciamo. Qui stanno la nostra angoscia e la nostra frustrazione. Psicologicamente, sarebbe perfino meglio che si dovesse ammettere d'essere nelle mani del fato o dell'ira divina. Almeno, ci si rassegnerebbe oppure si celebrerebbero novene e processioni penitenziali per i nostri peccati. Non ci si avvilupperebbe nel sentimento distruttivo di potenza impotente e di risentimento verso coloro (scienziati e politici) che immaginiamo dispongano degli strumenti adatti per difenderci ma non lo fanno. Anche a questo proposito abbondano le parole: drammi e dolori che si trasformano in parole. Non c'è programma di partito o di governo che non parli di piani, promesse, investimenti e li metta tra le "priorità". Ma sono per lo più chiacchiere. Il linguaggio lo certifica: "Serve" questo e "serve" quest'altro. Siamo un Paese meraviglioso, per questo dobbiamo proteggerlo e, a tale fine, "servono" tantissime cose. Tra le parole che non si dovrebbero pronunciare, e invece sono sulla bocca di tutti, politici, intellettuali, commentatori, c'è questa. Siamo il "bel Paese là dove il 'serve' suona"; sì, ma a vuoto. Perché è così difficile passare dalle parole ai fatti? Ancora una volta, per ragioni strutturali. La democrazia è il regime non solo, genericamente, del consenso, ma del consenso a tempi brevi, tra un'elezione l'altra; o a tempi brevissimi, tra un sondaggio e un altro. È democrazia, anzi iper-democrazia, ma impotente di fronte a problemi che, quando ci sono stati, non ci sono più e, quando non ci sono, potrebbero non esserci mai. L'uomo politico che vive tra questi tempi effimeri che non ci sono più e non ci sono ancora (o magari non ci saranno mai) può pensare di chiedere sacrifici ai suoi elettori? Se lo facesse, con prelievi fiscali supplementari, con mancate sovvenzioni, con restrizioni di servizi, con obblighi di comportamenti insoliti o divieto di comportamenti abituali, potrebbe aspirare a passare alla storia come un eroe preveggente, ma sarebbe un aspirante suicida nei tempi brevi. Questo è un tarlo che rode la democrazia, la sua contraddizione. Nell'oggi si occulta il domani e nel domani si recriminerà su ieri. Nel tempo delle difficoltà, si rischia di girare a vuoto. Tempo e democrazia: ecco un tema costituzionale che gli Antichi conoscevano bene e noi ignoriamo bellamente. Dovremmo preoccuparcene, come se anch'esso fosse - e in effetti è - una questione di emergenza.

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