"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

mercoledì 18 novembre 2020

Memoriae. 22 «I miei finirono a Auschwitz-Birkenau e sono andati in fumo nell’atmosfera».

 

Tra letteratura e Storia. Tra verità ed invenzioni. Ho tratto un brano dallo stupendo volume “La pelle” (1949) di Curzio Malaparte. Ove si narra come di un risveglio all’indomani di una delle più tragiche date che si ricordino nel bel paese, quell’otto di settembre dell’anno 1943 che ha segnato la sconfitta non tanto di un paese, di un popolo, quanto di un modo distorto assai d’intendere i rapporti umani, le cose della democrazia, che abbisognano sempre non tanto di un non discusso consenso – anche quando sia suffragato dalle urne - quanto di una libera fattiva partecipazione di tutti alla costruzione del collettivo benessere. Ed al giovane “liberatore” del brano, che sbarca sulle italiche coste proveniente dall’altra parte dell’Atlantico mare, sorge spontanea ed immediata l’emozione per un luogo che custodisce memorie straordinarie di grandi gesta, gesta compiute sul proscenio di una Storia da non dimenticare, di contro ad una storia minima di quel tempo scritta da uomini piccoli piccoli ma esageratamente gonfi di un io ipertrofico, prorompente assai. Come dire, che la Storia ha un ricorrente bisogno di riproporre tragedie che immancabilmente si accompagnano a grottesche esibizioni. Ebbe a scrivere Curzio Malaparte, una volta riportato dalla Sua attività di corrispondente di guerra alla brutale realtà di un’Europa trasfigurata non tanto dalle distruzioni materiali della guerra quanto dall’abbrutimento degli spiriti degli uomini di quel tempo: «Oggi si soffre e si fa soffrire, si uccide e si muore, si compiono cose meravigliose e cose orrende, non già per salvare la propria anima, ma per salvare la propria pelle. Si crede di lottare e di soffrire per la propria anima, ma in realtà si lotta e si soffre per la propria pelle. Tutto il resto non conta». E così è, e sarà sempre, ogni qual volta gli spiriti piccoli piccoli di uomini piccoli piccoli abbiano a decidere e a guidare le sorti delle genti. Nel racconto di Curzio Malaparte: Quando, all’alba del 9 settembre del 1943, Jack era saltato dalla tolda di un LST sula riva di Pesto, presso Salerno, s’era visto sorgere davanti agli occhi, meravigliosa apparizione, nella rossa nube di polvere sollevata dai cingoli dei carri armati, dagli scoppi delle granate tedesche, dal tumulto degli uomini e delle macchine accorrenti dal mare, le colonne del tempio di Nettuno, sul labbro di una pianura folta di mirti e di cipressi, sullo sfondo dei nudi monti del Cilento simili ai monti del Lazio. Ah, quella era l’Italia, l’Italia di Virgilio, l’Italia di Enea! E aveva pianto di religiosa commozione, buttandosi in ginocchio sulla riva sabbiosa, come Enea quando sbarcò dalla trireme troiana sul lido arenoso alla foce del Tevere, davanti ai monti del Lazio sparsi di castelli e di templi bianchi nel verde profondo delle antiche selve latine. Ma il classico scenario delle colonne doriche dei templi di Pesto nascondeva ai suoi occhi un’Italia segreta, misteriosa: nascondeva Napoli, quella prima terribile e meravigliosa immagine di un’Europa ignota, posta la di fuori della regione cartesiana, di quell’altra Europa di cui egli non aveva avuto, fino a quel giorno, se non un vago sospetto, e i cui misteri, i cui segreti, ora che li veniva a poco a poco penetrando, meravigliosamente lo atterrivano. (…). Ha ricordato Enrica Sermoneta Moscati, sfuggita fortunosamente al rastrellamento compiuto nel ghetto di Roma il 16 di ottobre dell’anno 1943, nel corso dell’intervista contenuta nel documentario “Una storia romana”:“Quella tragica notte eravamo rimasti a dormire a casa di amici tranne mio padre che venne catturato subito. Fino al 21 febbraio riuscimmo a rimanere nascosti a casa finché dei fascisti, pagati 5 mila lire per ogni ebreo, presero mia madre e gli altri miei fratelli”. Enrica Sermoneta Moscati aveva allora solamente 11 anni. Trascrivo di seguito il racconto inedito di Antonio Tabucchi (1943 - 2012) – appena recuperato e pubblicato dalla Feltrinelli editore in un volume (pagg. 256, euro 17) che ha per titolo quello del racconto inedito “Che ora sono da voi?”, volume curato dallo scrittore Paolo Di Paolo - scritto a mano e con inchiostro nero su sedici fogli di un grande taccuino e conservato a Parigi presso la Bibliothèque Nationale de France, riportato sul quotidiano “la Repubblica” del 12 di novembre 2020 con il titolo “Un orologio non fermerà l’orrore”: Lei lo sa cos’è un corpo? Lei ha la coscienza del corpo? Lei ha mai pensato a cosa rappresenta un corpo? Quanta pazienza ci è voluta alla natura per costruire proprio quel corpo, milioni e milioni di anni di preparazione, di aggiustamenti, di combinazioni, un’era geologica dopo l’altra, per sistemare un acido con una base, il verde della clorofilla che diventa un’iride, e il nero della lava di un vulcano che diventa il pigmento di un capello, di un’epidermide, e tutto così va avanti, milioni e milioni di anni, ci pensa?, e poi così, come per miracolo nasce quel corpo, quello unico e irripetibile [...] apparso in quel dato momento storico, dal dodici marzo del ventidue al diciotto gennaio quarantaquattro del secolo XX dell’era cristiana, per esempio, come mia sorella Sara, per esempio, apparsa il dodici di marzo del 1922 e scomparsa il diciotto gennaio del 1944, era il diciotto gennaio, la sera di cui le parlo, e noi eravamo in casa nostra, a Trieste, mi rendo conto che la sto investendo con una valanga di parole, ma io non gliele avrei mai dette, è lei che le è venute a cercare, già, eravamo tutti in casa, io, mia madre, mio padre, mio zio Silvio, che era scapolo e viveva con noi, e mia sorella Sara. Ah sì, dovrei raccontarle di Sara, della mia carissima Sara, ma a che scopo? Perché dire proprio a lei come io amavo la mia sorellina Sara, la mia sorellina più grande, più bella, più tutto di me, e come l’ammiravo, e come la imitavo, perché avrei tanto voluto essere come lei […]. Alle otto in punto, che coincidevano con le otto in punto dell’orologio di papà, l’orologio della sala da pranzo suonava il carillon, erano otto note di un minuetto, la mamma si alzava per prima e noi la seguivamo in sala da pranzo. Quella sera era così, tale e quale alle altre. La mamma parlava di Klee, io ero così felice per Sara che stavo quasi per rivelare tutto il segreto, il babbo tirò fuori il suo orologio dal panciotto, disse: c’è qualcosa che non va, il mio orologio segna le otto e dodici, il carillon non ha suonato, devo essermi dimenticato di dargli la carica. Guardò me e disse: Liba, vai a vedere cosa succede a quell’orologio. E così andai in sala da pranzo, e vidi che l’orologio era fermo, non faceva nessun tic-tac. Segnava esattamente le otto meno cinque. Stavo per chiamare tutti, e per sistemare le lancette, quando si sentirono dei colpi alla porta. Io restai lì, perché i colpi erano troppo forti, mi fecero paura. La mamma andò ad aprire. La porta della sala da pranzo era socchiusa, e dai vetri si vedeva riflesso tutto quello che succedeva in salotto. Erano quattro SS, con i fucili spianati. E li guidavano due giovani repubblichini con la nappa sul cappello. Due ragazzi di Salò, come li chiamano oggi. Tenevano i fucili puntati come se la mamma, il babbo, mia sorella Sara e lo zio Silvio fossero dei pericolosi assassini. Non dissero niente, dissero solo: raus! Uno dei repubblichini dette un’occhiata ai due scatoloni che la mamma aveva preparato, sui quali c’era il nuovo indirizzo, e disse a bassa voce: volevate scappare a Vienna, carini? La mamma guardò verso di me, e trovò il mio sguardo nello specchio della porta. Lei fece un cenno rapido, imperioso, con la testa, indicandomi il terrazzo che stava alle mie spalle. Io obbedii, senza sapere quello che facevo. Le tende erano tirate, uscii sul terrazzo e chiusi la porta dal di fuori. Da fuori riuscivo a vedere dentro, perché la stanza era illuminata, ma da dentro non si poteva vedere attraverso le tende, perché fuori era buio. Però da lì io non riuscivo più a vedere il salotto, sentivo solo rumori, e ordini in una lingua sconosciuta che mi arrivavano indeboliti dai vetri. Riuscivo solo a vedere l’orologio, e lo guardavo fissamente, perché mi sembrava che quel quadrante mi guardasse. E allora mi misi a parlare con lui. Le sembra strano? Guardi che non è poi così strano. Parlare mentalmente, voglio dire. E gli dicevo, dentro di me: dai, stupido orologio, rimettiti a funzionare, fai girare le tue lancette alla svelta, questo giorno non è mai esistito perché tu non l’hai mai misurato, ora io ti fisso e quelle tue stupide lancette fanno due giri completi e siamo già a domani […]. Ma quell’orologio non si mosse. Il suo quadrante mi guardava con aria ottusa, e immobile. Poi vidi due ombre che si muovevano nella stanza, due mani afferrarono l’orologio e se lo portarono via, erano i giovani italiani, ma li vidi solo di schiena, e anche se li avessi visti in faccia sarebbe uguale, non trova? E poi qualcuno spense la luce. Restai sul terrazzo per non so quanto tempo. È difficile calcolare il tempo quando il tempo sembra inghiottito in un gorgo. Uscii e traversai una Trieste deserta. Come vede potei arrivare a Vienna, dove qualcuno mi dette ricovero. I miei finirono a Auschwitz-Birkenau e sono andati in fumo nell’atmosfera. Io non mi sono mai sposata. Che cosa avrebbe mai fatto nella vita una ragazzina così impreparata?, si chiedeva mia madre. Lei, caro signore, cosa avrebbe fatto? Ho vissuto, come si può vivere. Un impiego alle poste, anzi al telegrafo, e ora sono in pensione. I gatti con i quali vivo li ho chiamati Mamma, Papà, zio Silvio, Sara. Quando ne muore uno lo sostituisco con uno uguale e gli metto lo stesso nome. Nel palazzo mi tollerano, anche se la portiera mi detesta e mi chiama sprezzantemente La Vecchia dei Gatti. Probabilmente l’avrà detto anche a lei quando è venuto a cercarmi. La descrizione dell’orologio che mi ha fatto è sufficiente, non importa che mi mostri le fotografie che ha avuto la gentilezza di portare con sé. Quell’orologio è fermo sulle otto meno cinque perché così lo consegnarono a suo padre e nessuno lo ha più caricato. Io non lo rivoglio. Né lo voglio più rivedere. Che sia un oggetto di un certo valore, non ne discuto, ma sa cosa le propongo?, le propongo di regalarlo, perché io quel quadrante non lo voglio più vedere. Potrebbe fare una donazione all’Italia, per esempio, il Paese il cui re firmò le leggi grazie alle quali il nostro orologio è finito in mano sua. A chi, scelga lei: il politico adatto, il ministro adatto, il giornalista adatto, lo storico adatto non mancherà. Il massimo che io posso fare è aggiungere un bigliettino a mio nome. Sarebbe un bigliettino assai semplice, tipo questo: per me questo orologio segna le otto meno cinque del diciotto gennaio del 1944. Che ore sono da voi?

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