"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 3 novembre 2020

Ifattinprima. 95 «Solo a lui poteva venire in mente di nascere e morire lo stesso giorno, il 2 novembre».

Mi sono lambiccato per tutto il pomeriggio ove collocare la notizia del trapasso di Gigi Proietti, ovvero in quale delle “rubrichette” collocarne il ricordo. Una rubrichetta che fosse all’altezza di quel genio, “protagonista” del giorno. Alla fine mi sono risolto a parlarne in “ifattinprima” poiché Gigi è stato uno straordinario osservatore dei “fatti” vissuti dalla “ggente”, ne ha saputo cantare quegli aspetti più straordinari che in quei “fatti” riusciva sempre brillantemente a scoprire e mostrare a tutti gli altri, questi ultimi disattenti o superficiali i più. Un primato questo come quell’altro primato di Gigi stabilito proprio ieri, per come sempre avviene per i “pre-destinati” (come per quell’altro “Bardo”): nascere e morire nello stesso giorno, ovvero, per Gigi nostro, il 2 di novembre. Ha scritto Michele Serra in “Uno da fargli una statua” sul quotidiano “la Repubblica” di oggi: Non è per niente facile cantare nun me rompe er ca' per cinque minuti filati senza mai un'ombra di volgarità. Gigi Proietti ci riusciva, la sua maniera al tempo stesso virile e leggera, spavalda ed elegante, gli consentiva questo e altri lussi. E stava prendendo per i fondelli Brel, un vero mostro sacro, mica un ministro qualunque come si fa al Bagaglino. Il secolare cinismo romano non genera sempre di questi giganti, e anzi produce sovente macchiette burine largamente eccedenti il fabbisogno. Ma ne basterebbe uno solo, lui, Proietti, per benedire il secolare cinismo romano. Quella velocità di sguardo e dunque di battuta, quel sorriso impunito, quell'accumulo di disillusioni che ancora, in quello che resta della Roma popolare, produce testi e personaggi da grande teatro comico. Se ne va con lui un pezzo della Roma profonda, della sua voce e pure della sua faccia. Forse solo Anna Magnani e Mario Scaccia ebbero una faccia tanto romana quanto la sua: antica, così antica da essere l'intuibile replica di quelle che circolavano per la città duemila anni fa, ottanta generazioni fa, quando sicuramente un Proietti identico a questo, con lo stesso sorriso impunito, lo stesso naso forte, la stessa voce ben temprata nel baccano metropolitano, modulava nun me rompe er ca' (nella versione latina) all'amico centurione. Che rideva. Proietti è uno da fargli una statua, tanto fisica fu la sua arte. Sta a Roma come Lucio Dalla a Bologna, ci sarà sempre un'eco, in certi angoli, sotto certe case, della loro voce. Lo ha ricordato Marco Travaglio in “Il cavaliere nostro”, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi 3 di novembre 2020: (…). Ora che questo 2020 di merda ci ha portato via anche lui, proprio mentre un inutile cinquantenne twittava sull’inutilità degli ottantenni, si affollano i ricordi di un’amicizia nata grazie al Fatto. Proietti ci leggeva per primi, poi telefonava per commentare, suggerire, soprattutto sghignazzare (“Chi non sa ridere mi insospettisce”). Ogni tanto ci mandava uno stornello, un sonetto in romanesco (“Se pubblichi, non mi firmare: metti ‘Agro Romano’…”). Una volta, alla nostra festa all’isola Tiberina, doveva essere un’intervista e invece portò il suo pianista Mario e fece uno spettacolo intero col meglio del suo repertorio (“aggràtise”): da Nun me rompe er ca’ a Pietro Ammicca, dal Cavaliere nero a Toto nella saùna (con l’accento sulla u), dal vecchietto delle favole sconce all’addetto culturale pieno di tic al prof che declama La pioggia nel pineto in barese. Il meglio di A me gli occhi please, poi travasato in Cavalli di battaglia, che doveva andare una sera sola all’Auditorium e diventò un tour infinito, sempre sold out. Frammenti di memoria e lampi di genio si mischiano alle lacrime. Il nasone fin sopra la fila di denti bianchi. Gli occhi che roteano. Il vocione cavernoso da fumatore. La risata aperta e la gioia di strapparne agli altri. Sempre in scena, anche per strada e in trattoria. L’opposto del cliché del grande comico, allegro sul palco e sul set, cupo e depresso in privato: a lui ridere piaceva un sacco, almeno quanto far ridere. Lui nel camerino del Globe Theatre a villa Borghese, qualche estate fa, esausto e zuppo di sudore dopo due ore di Edmund Keane con 30 e passa gradi: “Che fate, annate a cena da Dante? Io nun so se me la sento, stasera avrò perso cinque chili…”. Poi si presenta al ristorante e ci ammazza di barzellette e aneddoti su Gassman, Bene, Fabrizi e Stoppa fino alle tre di notte, lui fresco come una rosa, noi tramortiti. “Questa la sapete senz’altro…”. “Questa è troppo feroce… che faccio, la racconto?”. “Marché, famme fa’ ’n tiro de sigaretta, mentre Sagitta nun guarda. E dammene ’n’artra de frodo, che me la fumo quanno tutti dormono…”. Ancora domenica mattina, in rianimazione, con la compagna di sempre Sagitta, le figlie Carlotta e Susanna, il manager Alessandro Fioroni, parlava di lavoro. (…). Dei progetti futuri: rivoleva un teatro tutto per sé, dopo lo scippo del Brancaccio a opera di Costanzo&C., progettava con Renato Zero un nuovo teatro tenda come quello degli anni 70-80 (“Renato fa i concerti e io metto in scena tutto Molière, sto convincendo Corrado Guzzanti e Verdone ad alternarsi con me, tu mi fai il teatro-giornale e magari rimetto su la scuola di teatro che la Regione mi ha chiuso”; seguiva imitazione irresistibile del funzionario dell’assessorato che gli comunica, a gesti e a grugniti, le ragioni dello stop). Un anno fa viene a vedere Ball Fiction e alla fine, in camerino, si accorge di aver perso il portafogli. La nostra Amanda si precipita in sala e lo trova sulla sua poltrona. “Vedi, Gigi, i nostri amici sono tutti onesti!”. “Ma va, penzano che nun ci ho ’na lira!”. All’ultima festa del Fatto, in streaming dal giardino della redazione, doveva venire alla serata di apertura: “Magari chiacchieriamo di come nascono le barzellette, che molti considerano umorismo di serie B perché non le sanno raccontare, non hanno i tempi, la faccia. Il mistero umano di come scocca la scintilla della risata è un tema affascinante. Potrebbe nascerne uno spettacolo, ho letto anche dei saggi molto pensosi…”. Perché era coltissimo, come lo sono quelli che lo dissimulano e si fanno beffe dei colleghi engagé (“Natale in casa Latella”) o “di ricerca (“‘Sospendete immediatamente le ricerche!’, diceva Gassman quando li vedeva”). Ma stava già male (“Famo ’st’altr’anno”). Un paio di mesi fa feci una battuta in un pezzo sugli orrori di stampa: “Se tornasse Il Male con un falso giornalone dal titolo ‘Arrestato Gigi Proietti: è il capo dell’Isis’, tutti commenterebbero: embè?”. Ed ecco puntuale il suo sms: “Salam da Rebibbia! Speravo di passare inosservato, poi invece arriva Travaglio. E scusa: il turbante non lo trovo, acc…”. Lo inseguivamo da due settimane per l’intervista degli 80 anni. Silenzio. Poi, sabato sera, l’sms: “Caro Marco, purtroppo al momento non sono in grande forma e l’intervista temo non si possa fare, poi ti racconterò. Ci sentiamo con calma. Ti abbraccio”. Solo a lui poteva venire in mente di nascere e morire lo stesso giorno, il 2 novembre. Che per un comico non è niente male. Anche Shakespeare ci era riuscito, ma il 23 aprile, non il giorno dei morti. Si dice che far ridere sia impresa molto più difficile che far piangere. E Gigi ne era la prova vivente. Ma ieri, con quell’uscita di scena, è riuscito nelle due imprese insieme. 

Nessun commento:

Posta un commento