"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

domenica 4 ottobre 2020

Virusememorie. 39 «La carriera del SARS-CoV-2 fino a questo momento, in termini darwiniani, è una grande storia di successo».

Non finiranno di stupirci i cosiddetti “esperti” chiamati a dipanare la matassa del Covid. A parte quelli che vivono perennemente sul piccolo schermo e che ad ogni loro “strambata” pubblicano un ponderoso testo che pochi o pochissimi leggeranno, tutti gli altri si barcamenano sulle ipotesi più o meno plausibili su di un Covid divenuto “diverso”, più “buono” e via discorrendo.

Pochi, anzi pochissimi, sono stati quelli che ad ogni assalto degli interroganti pseudo-esperti abbiano avuto il coraggio e l’onestà intellettuale di rispondere perentoriamente: “Non ne sappiamo nulla di questo Covid”. Punto e basta. Tra questi annovero il professor Massimo Galli dell’Ospedale “Luigi Sacco” di Milano, la ricercatrice virologa Ilaria Capua e la dottoressa Maria Rita Gismondo, direttrice di “microbiologia clinica e virologia” sempre dell’Ospedale “Luigi Sacco”. Per il restante campionario dei cosiddetti “esperti”, uno sconforto. Nella vicenda del Covid avere scartato i molto telegenici “esperti” mi ha aiutato a non credere alle fandonie a larghe mani disseminate ed in pari tempo ad attingere a quelle figure professionalmente valide dispensatrici di sapere non finalizzato al lucro a tutti i costi. È stata la dottoressa Gismondo che proprio ieri, 3 di ottobre, su “il Fatto Quotidiano” ha voluto allargare gli orizzonti proponendo molto pacatamente un nuovo “sguardo” sul Covid in un “pezzo” che ha per titolo “E se fosse una sindrome e non una pandemia?”: Richard Horton, il 26 settembre, ha pubblicato su Lancet un articolo che non rimarrà inosservato. Il titolo è già eloquente, COVID-19 is not a pandemic (“il Covid-19 non è una pandemia”). L’autore sostiene che l’approccio nella gestione della diffusione, ma soprattutto della patologia sia sbagliato, perché la crisi sanitaria è stata affrontata come determinata dalla malattia infettiva. Affermazione scioccante che mina alla base otto mesi di gestione del fenomeno. Horton non è un matto, è uno degli editorialisti più quotati di Lancet. Con qualsiasi altra firma avremmo abbandonato l’articolo con una smorfia sarcastica. Invece è Horton. Certamente non è un “negazionista”, ma uno che ha un orizzonte sempre “più in là”. Condanna i governi che hanno gestito la crisi solo come una catena di contagio virale da interrompere. Sostiene che, in realtà, interagiscono due categorie di malattie: l’infezione dovuta a SARS-CoV-2 e una serie di malattie non trasmissibili. Queste condizioni si raggruppano all’interno dei gruppi sociali secondo modelli di disuguaglianza profondamente radicati nelle nostre società. Secondo Horton non è una pandemia, ma una sindrome (più elementi patologici). Significa che è necessario un approccio più sfumato. Limitare il danno richiederà un’attenzione maggiore alle malattie non trasmissibili e alla disuguaglianza socioeconomica. Le sindemie sono caratterizzate da interazioni biologiche e sociali tra condizioni e stati, interazioni che aumentano la suscettibilità di una persona a danneggiare o peggiorare i loro risultati di salute. Da qui la deduzione logica che, piuttosto che esclusivamente tracciare il virus, bisogna agire sulle condizioni che lo favoriscono. Eliminare, ove possibile (esposizione degli anziani e dei malati cronici), migliorare le condizioni sociali. Detto così, ci stupisce meno, visto che molti di noi abbiamo affermato che si tratta di un opportunista. Dobbiamo, lo fa intendere anche Horton, eliminare le opportunità che rendono facile al virus di colpirci. Traggo un approfondimento nel merito da “Caro Darwin sono un virus di successo” di David Quammen – divulgatore scientifico – pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 2 di ottobre: Nessuna persona dotata di buonsenso può contestare che il Covid 19 rappresenta una grande tragedia per l’umanità, una tragedia perfino nel senso in cui veniva usato questo termine nella Grecia antica, secondo la definizione di Aristotele, con il disastroso esito legato a un qualche peccato d’orgoglio del protagonista. Protagonista che questa volta non è Edipo o Agamennone: stavolta siamo noi quel protagonista presuntuoso che si è attirato addosso il disastro. La portata e la devastazione della pandemia sono frutto di sfortuna, certo, e di un mondo pericoloso, certo, ma anche di catastrofiche carenze di preveggenza, volontà comune e capacità di leadership da parte dell’umanità. Ma andiamo oltre questo bilancio di manchevolezze umane, per il momento, e consideriamo l’intero evento dal punto di vista del virus. Misuriamolo usando la fredda logica dell’evoluzione: la carriera del SARS-CoV-2 fino a questo momento, in termini darwiniani, è una grande storia di successo. Questo coronavirus ormai famigerato un tempo era una creatura insignificante che se ne stava quieta e tranquilla all’interno del suo ospite naturale: alcune popolazioni di animali, probabilmente pipistrelli, nelle grotte e in quel che resta delle foreste della Cina meridionale. L’esistenza di questo nascondiglio vivente, chiamato anche “riserva virale” è logicamente necessaria quando un qualsiasi nuovo virus compare all’improvviso sotto forma di infezione umana. Perché? Perché tutto viene da qualche parte e i virus vengono da creature cellulari come animali, piante o funghi. Un virus è in grado di replicare se stesso, funzionare come se fosse vivo e durare nel tempo solo abitando le cellule di una creatura più complessa, come una sorta di parassita genetico. Generalmente, il rapporto fra il virus e la sua riserva virale rappresenta un adattamento evolutivo antico. Il virus persiste mantenendo un profilo basso, senza causare problemi, senza proliferare in modo esplosivo, e in cambio ottiene sicurezza a lungo termine. I suoi orizzonti sono modesti: una popolazione relativamente piccola, una diffusione geografica limitata. Ma questo rapporto fra organismo ospitante e organismo ospitato non è imperturbabilmente stabile, né rappresenta la fine della storia. Se un diverso tipo di creatura entra in contatto con l’organismo ospitante, predandolo, catturandolo o magari semplicemente condividendo la stessa grotta, il virus può essere spinto fuori dalla sua comfort zone e catapultato in una nuova situazione: un nuovo potenziale organismo ospitante. All’improvviso, è come una torma di ratti che salta giù a riva da una nave approdata in un’isola remota. Il virus può prosperare in questo nuovo habitat, oppure fallire e morire. Se riesce a prosperare, allora può insediarsi non solo nel primo nuovo individuo, ma in tutta la nuova popolazione. Può scoprire di essere in grado di penetrare in alcune delle cellule del nuovo organismo ospitante, replicandosi in abbondanza e trasmettendosi da quell’individuo ad altri. Questa cosa è chiamata “salto di specie” (in inglese si usa anche un termine più vivido, spillover, che significa “tracimazione”, “traboccamento”). Se questo salto di specie dà luogo a una malattia fra una dozzina o due dozzine di persone, si ha un focolaio. Se si diffonde in un intero Paese, un’epidemia. Se si diffonde ovunque, una pandemia. Immaginate di nuovo quella torma di ratti che sbarca su un’isola dove prima i ratti non c’erano. Gli animali scoprono, con grande piacere, che l’isola è abitata da diverse specie endemiche di uccelli, ingenui e fiduciosi, abituati a deporre le loro uova a terra. I ratti mangiano quelle uova. Ben presto l’isola perde tutte le sue sterne, le sue folaghe, i suoi pivieri, ma ha ratti in abbondanza. Col tempo, i ratti acquisiscono anche la capacità di stanare le lucertole dai loro nascondigli fra rocce e tronchi, e se le mangiano. Sviluppano agilità nello scalare gli alberi e mangiare le uova dai nidi degli uccelli. Ormai quell’isola si può tranquillamente chiamare “Isola dei Ratti”. Per i ratti, è una storia di successo evolutivo. Se l’isola sperduta in questione è un essere umano appena colonizzato da un virus proveniente da un animale non umano, chiamiamo quel virus una zoonosi e l’infezione che ne risulta una malattia zoonotica. Più del 60 per cento delle malattie infettive umane, Covid 19 compreso, ricade in questa categoria delle zoonosi di successo. Alcune malattie zoonotiche sono provocate da batteri (come il bacillo responsabile della peste bubbonica) o altri tipi di patogeni, ma nella maggior parte dei casi sono virali. I virus non hanno niente contro di noi. Non hanno scopi, non hanno progetti. Seguono gli stessi semplici imperativi darwiniani che seguono i ratti o qualsiasi altra creatura guidata da un genoma: estendersi quanto più possono in numero, spazio geografico e tempo. Il loro istinto primario è fare quello che Dio comandava agli esseri umani che aveva appena creato nella Genesi 1:28: «Siate fecondi e moltiplicatevi, riempite la terra, soggiogatela». Per un virus sconosciuto, che resiste dentro la sua riserva virale (un pipistrello o una scimmia in qualche regione sperduta dell’Asia o dell’Africa, o magari un topo nel Sudovest degli Stati Uniti), il salto agli esseri umani offre l’opportunità di compiere il mandato celeste. Non tutti i virus di successo riusciranno a “soggiogare” il pianeta, ma alcuni andranno vicini a soggiogare quantomeno gli esseri umani. La pandemia di Aids andò così. Un virus degli scimpanzé oggi noto come SIVcpz passò da un singolo scimpanzé a un singolo essere umano, forse per contatto ematico durante una lotta mortale, e prese piede fra gli umani. Evidenze molecolari sviluppate da due team di scienziati ci dicono che tutto questo probabilmente è successo oltre un secolo fa, nell’angolo sudorientale del Camerun, in Africa centrale, e che il virus ha impiegato decenni per diventare provetto nella trasmissione da uomo a uomo. Ora lo chiamiamo “H.I.V.-1 gruppo M”: è il ceppo pandemico, responsabile di gran parte dei 71 milioni di infezioni umane conosciute a tutt’oggi. Il SARS-CoV-2 ha fatto qualcosa di simile, anche se il suo successo è avvenuto in tempi molto più rapidi. Non è il virus infettivo umano di maggior successo sul pianeta: questo titolo spetta ad altri, forse al virus Epstein-Barr, una specie di herpesvirus altamente contagiosa, che si è insediata in almeno il 90 per cento di tutti gli esseri umani, provocando sindromi in alcuni e rimanendo latente nella maggior parte. Ma il SARS-Cov-2 è partito col botto. Ora, a scopo illustrativo, immaginiamo un diverso scenario, che coinvolge un virus diverso. Nelle foreste di montagna del Ruanda vive un piccolo pipistrello insettivoro, il rhinolophus hilli, della famiglia dei rinolofidi. Questo pipistrello esiste, ma è stato avvistato solo raramente ed è classificato fra le specie in stato di conservazione critico. Poniamo che un coronavirus usi questo pipistrello come riserva virale. Chiamiamo questo virus RhRW19 (un’abbreviazione in codice di quelle che usano i biologi), perché è stato individuato all’interno della specie rhinolophus hilli (Rh) in Ruanda (RW) nel 2019 (19). Il virus è ipotetico, ma è plausibile, considerando che sappiamo che molti tipi di rinolofidi nel mondo ospitano coronavirus. L’RhRW19 è sull’orlo dell’estinzione, perché questo raro pipistrello è il suo unico rifugio. La scialuppa di salvataggio sta imbarcando acqua da tutte le parti ed è quasi affondata. Ma poi un contadino ruandese, che ha bisogno di fertilizzante per il suo fazzoletto di terra, entra in una grotta e si porta via qualche palata di guano di pipistrello. Il guano viene dal rhinolophus hilli e contiene il virus. Spalando e respirando, il contadino si infetta con l’RhRW19. Lo passa a suo fratello, e il fratello lo porta in un ambulatorio provinciale dove lavora come infermiere. Il virus circola per settimane fra i dipendenti dell’ambulatorio e i loro contatti, facendo ammalare qualcuno e uccidendo una sola persona, mentre la selezione naturale migliora la sua capacità di replicarsi all’interno delle cellule delle vie respiratorie umane e di trasmettersi fra una persona e l’altra. Una dottoressa in visita si infetta e si porta dietro il virus a Kigali, la capitale del Ruanda. Ben presto il virus arriva all’aeroporto, nelle vie respiratorie di persone che non avvertono ancora sintomi e si stanno imbarcando su voli diretti a Kinshasa, Doha e Londra. Ora possiamo dare a questo virus potenziato un nome diverso: SARS-CoV-3. È una storia di successo che non si è ancora verificata, ma potrebbe verificarsi. Ma l’evoluzione non è pensata per compiacere l’homo sapiens. Il SARS-CoV-2 ha fatto una grande mossa di carriera saltando dalla sua riserva virale agli esseri umani. Ha già realizzato due dei tre imperativi darwiniani: espandere il suo numero ed estendere la sua portata geografica. Solo il terzo imperativo rimane una sfida da vincere: perpetuarsi nel tempo. Riusciremo mai a liberarcene interamente, ora che è un virus umano? Probabilmente no. Riusciremo mai a lasciarci indietro i patimenti di questa emergenza? Sì. I virus sono capaci di evolversi, rapidamente e con efficacia. Ma noi esseri umani siamo in gamba, a volte.

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