"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 16 ottobre 2020

Virusememorie. 41 «Segni tragici di un fato planetario assunto e realizzato con progressiva accelerazione dall’umano».

Ha scritto Giuseppe Genna in “Le tenebre e la speranza” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’11 di ottobre 2020: (…). …il passaggio forse più drammatico dell’intera enciclica (“Fratelli tutti” di Francesco vescovo di Roma n.d.r.) sta nel negare che la pandemia sia un castigo di Dio, quasi che non avesse a che fare col genere umano e le sciagure che commina a ciò di cui dovrebbe prendersi cura. (…). La frantumazione di ogni sogno e il crollo della coscienza storica, la sperequazione economica e la collettivizzazione della rabbia, la connessione pervasiva che crea la disconnessione tra sé stessi e il mondo, l’incultura violenta che tende a scartare l’ultimo. Sono i segni tragici di un fato planetario assunto e realizzato con progressiva accelerazione dall’umano. Non una volta viene posta la domanda da dove il male provenga. Una fenomenologia cupa, l’analisi gelida di un mondo altrettanto gelido, che più si sovrappopola e più diviene deserto. Questo urlo di Munch emesso dal mondo e, insieme al mondo, da Francesco, conferma lo stato delle cose: un “Metropolis” ubiquitario preme alle porte della percezione e della vita umana. È uno degli atti più disperati che si siano visti compiere a un pontefice, detto che la storia dei Papi è una reiterazione rinnovata di disperazioni dal carattere storico e cosmogonico (…). In questa discesa agli inferi, che sono poi il mondo che abitiamo nel nostro tempo travagliato e duro, «è la realtà stessa che geme e si ribella». Non la natura, non l’umanità: la realtà stessa. (…). Le cose piangono, la mente umana ne è toccata. (…). Ha ben ragione il vescovo di Roma a rivolgersi agli uomini del secolo ventunesimo con le forme ed i toni utilizzati nel Suo scritto. Non può esserci in questo tempo una mistificazione tale che le responsabilità collettive degli umani passino in un subordine per il quale figuri la volontà preminente ed ostinata di un dio tesa ad infliggere la “peste” per un “castigo celeste”. Un messaggio così lanciato sarebbe valso semmai a quegli uomini del diciassettesimo secolo che nel volume “Tutte le vite di Spinoza” - di Maxime Rovere - patiscono la “peste” di quel tempo. Scrive Rovere (a pag. 223) a proposito della “peste” che sconvolse Amsterdam ed il Paese intero nell’anno 1665: Così è la peste. Senza preavviso le persone si macchiano come la frutta, impallidiscono, marciscono e muoiono. Nessuno sa perché né come. Non c’è preavviso, la minaccia mortale che grava sulla città si abbatte sul vostro vicino, sul marito, su uno dei vostri figli, su di voi… Assai diffusa nell’Antico Testamento, la peste è un evento che avvelena tutto. Il sapore del pane, un corvo che passa in volo sopra le vostre teste, un cattivo odore, la strada che scorre sotto i vostri piedi, una vecchia che tossisce, la prima lettera di una pagina… Tutto si carica di segni e di terrori. Intorno ai morti che vengono caricati a mucchi sui carri vi è una pletora di strani comportamenti. Chi si confessa spontaneamente sulla pubblica piazza, chi riconosce i propri crimini in lacrime, molti, fuori di sé dalla paura, si lanciano dalle finestre. Quando una casa è colpita dal lutto, i medici portano via i bambini, sbarrano porte e finestre, insistono affinché gli abitanti restino chiusi in casa, in modo da non contaminare gli altri. Poi le famiglie si smembrano, i vicini si evitano, ci si lascia a gemere, strisciare, gridare, rantolare, crepare dietro la porta. L’angoscia, tra i cittadini che hanno perso la ragione, è talmente forte che il 21 gennaio 1665 gli Stati generali devono decretare un giorno ufficiale “di digiuno e preghiera per scongiurare la collera di Dio e il fuoco della pestilenza”. No, la peste non è una malattia. La peste è la manifestazione terribile di un male profondo che l’umanità si porta dentro. Sono ben pochi quelli che la considerano l’effetto di cause fisiche, perché uccide senza che si sappia mai da dove è venuta.   Di seguito “Ed io avrò cura di te” di Massimo Recalcati – psicoterapeuta di scuola lacaniana - pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 15 di ottobre 2020: Ne La peste Albert Camus descrive l’esperienza della malattia e della morte nella forma estrema di una epidemia pestilenziale. Il pastore della città invasa dalla peste tiene due prediche in due diversi momenti dell’ondata epidemica. Una all’inizio quando la curva del contagio ha appena iniziato la sua tremenda impennata; l’altra nel suo punto più alto quando i morti hanno prevalso sui vivi e l’avvenire è diventato pesantemente incerto. Nella prima predica Paneloux parla dal pulpito in una chiesa gremita di fronte ad un popolo impaurito e smarrito. La sua voce è forte e ammonitrice ed impone una lettura teologica della peste fondata sul principio della maledizione: il male che ci ha colpiti non è affatto estraneo al male che abbiamo fatto. La peste è il flagello che Dio ha scatenato contro l’uomo affinché l’uomo possa comprendere la gravità dei suoi peccati. È la frusta con la quale Dio richiama l’uomo alle sue responsabilità. Se la peste semina morte tra gli uomini è per riportarli sulla retta via. Non è semplicemente una terribile malattia quanto un giusto castigo, un segno della provvidenza che spetta agli uomini riconoscere e accettare al fine di redimere i propri peccati. In questa prima predica la violenza della peste acquista un significato teologico rivelando da una parte la natura spietata della giustizia divina e, dall’altra, quella irrimediabilmente peccaminosa dell’uomo. Il principio che è alla base della sua interpretazione è quello di una concezione rigidamente proporzionale e retributiva della giustizia di Dio: più l’uomo è cattivo e più severa è la sua punizione. Ma se fosse come il prete ha raccontato al suo popolo terrorizzato non dovrebbe esistere il dolore e la morte dell’innocente. Solo il malvagio dovrebbe assaggiare la frusta di Dio, solo il colpevole dovrebbe essere sanato attraverso la sofferenza. Ma i conti chiaramente non tornano. È lo scandalo che s’incarna nel grido di Giobbe: perché il giusto è colpito nonostante la sua santità? Perché non c’è alcun rapporto tra il bene fatto e il male subito? Perché anche il giusto e l’innocente possono cadere sotto i colpi del male? Tra la prima e la seconda predica la peste ha falcidiato la popolazione senza distinguere tra giusti e colpevoli. La sua furia maligna ha colpito ciecamente, senza distinzioni. Ma tra la prima e la seconda predica il Padre ha visto morire tra le sue braccia, in una lenta e straziante agonia, un bambino. Questa esperienza ha demolito traumaticamente la teologia della maledizione che aveva ispirato la prima predica: Dio non può volere la morte di chi non ha colpe, il dispositivo della giustizia retributiva che proporziona la punizione al male commesso viene bruscamente demolito dalla tragedia del dolore e della morte dell’innocente. Per la seconda volta il Padre convoca il suo popolo prendendo la parola «in un giorno di gran vento» e in una chiesa «fredda e silenziosa». La morte ha decimato la popolazione, la gente teme di uscire di casa vivendo impaurita e confinata nel chiuso delle proprie abitazioni. La voce del prete appare «più dolce e riflessiva», le sue parole non hanno più alcun tono di rimprovero; non dice più «voi» ma «noi». Il suo ragionamento sovverte uno ad uno i principi teologici che avevano ispirato la sua prima predica: non è vero che la peste ha un significato morale, non è vero che in essa si manifesta la volontà di Dio, non è vero che è la sua punizione inflitta agli uomini per i loro peccati, non è vero che è un segno della provvidenza. La sola cosa vera è che la peste è un male “inaccettabile” che porta la morte ovunque e che la nostra ragione non è in grado di spiegare perché la sua violenza sé stessa inesplicabile, illeggibile, senza ragione. Mentre allora nella prima predica l’accento cade su Dio e sulla giustificazione teologica della peste, ora invece cade sull’uomo: se non possiamo spiegare l’evento assurdo e inaccettabile della peste c’è almeno qualcosa che possiamo imparare e che possiamo fare di fronte al trauma senza senso del male, del dolore e della morte? Al piano astrattamente teologico della prima predica subentra quello etico della seconda, al piano della maledizione quello della cura. Questo male ci rende responsabili in modo profondamente differente da come la responsabilità dell’uomo veniva descritta nella prima predica. In quel caso era la responsabilità di aver compiuto il male e di avere conseguentemente scatenato la violenza di Dio. Ma nella seconda predica Dio si è allontanato dall’uomo lasciandolo solo di fronte al carattere spietato non della sua giustizia, ma della sofferenza in quanto tale. Dunque, cosa fare? È qui che le parole del Padre illuminano il presupposto di ogni esperienza umana della cura. Egli racconta come durante la grande pestilenza di Marsiglia degli ottantuno religiosi presenti nel convento della Mercy solo quattro sopravvissero alla peste. E di questi quattro tre fuggirono per salvare la loro vita. Ma almeno uno fu capace di restare. È questa l’ultima parola che il padre consegna ai suoi fedeli: essere tra quelli che sanno restare. Saper restare è effettivamente il nome primo di ogni pratica di cura. Significa rispondere all’appello di chi è caduto. In termini biblici è ciò che illumina la parola «Eccomi!» che rende umana la cura umana non abbandonando nessuno alla violenza inaccettabile del male. Non dando senso al male ma restando accanto a chi ne è colpito.

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