Ricordate Giovanni Tria? Tria chi? Potrebbe ancor
oggi occupare onorevolmente un posto nello scenario politico-sociale del bel
Paese per la Sua “biografia” che definire eccellente – non per niente è stato
professore presso l’Università di Tor Vergata e preside della Facoltà di
Economia di quella Università - è dir poco. Ma giusta ri-torna la domanda: ricordate
Giovanni Tria? Boh! “Tria chi”, solamente dopo due anni appena! Poiché quel 17
di ottobre dell’anno 2018, proprio come oggi, Giovanni Tria era all’apice del
Suo impegno politico. Ne scriveva a quel tempo Pino Corrias su “il Fatto
Quotidiano” del 17 di ottobre dell’anno 2018 in “Da Stella Rossa a B. Il
perfetto moderato che tratta coi barbari”: (…). Giovanni Tria, classe 1948,
preside della facoltà di Economia, Università di Tor Vergata, non è una mammola
e non è uno sprovveduto. È romano di Roma: per memoria ancestrale sa da un paio
di millenni come si trattano i barbari, che infine conquistarono il cuore
dell’impero, per poi esserne conquistati. Delle sue molte abilità, la più
utile, oltre al buon carattere, è stato l’insegnamento di Edmund Phelps,
economista premio Nobel 2006, che studiava “gli effetti a breve e a lungo
termine delle politiche economiche”. Corsi che ha frequentato (per davvero)
nelle aule di perfezionamento della Columbia University, New York, primi anni
Ottanta, insieme con il suo amico e collega Ernesto Felli, addestrandosi alla
pazienza. Dunque un keynesiano più incline alle detrazioni fiscali, agli
investimenti pubblici, all’etica del lavoro. E meno propenso alla fretta dei
condoni, all’assistenzialismo, alle indiscipline nei confronti delle serrature
di Bruxelles che custodiscono il bene più prezioso della nostra pace europea,
l’euro. Ma anche tanto realista da assecondare tutto il contrario, non
escludere temporanee forzature, quando necessarie, persuaso che al fondo di
ogni opinione ci sia sempre lo spazio per il dubbio che la contraddice o
persino la vanifica. Pertanto un perfetto moderato italiano d’alta classe
intellettuale che nel corso degli anni ha saputo convivere con il bianco e il
nero, il dritto e il rovescio. Con le intemperanze del suo amico Renatino
Brunetta, di cui fu consulente, durante i fasti del berlusconismo tanto
arrembante da condurci fino all’orlo del baratro. Poi con le commoventi
imperizie di Marianna Madia, creatura d’acquario veltroniano, che da ministro
della Pubblica amministrazione, si definiva orgogliosa di “portare in dote la
mia straordinaria inesperienza”. Infine oggi, diventato ministro di un governo,
dove Matteo Salvini ha lo sguardo di una ruspa e il guaglione Gigi Di Maio
dichiara da un balcone di avere appena abolito la povertà, saluta la “prima
manovra del popolo” e detta con spericolata fierezza il suo migliore nonsense: “Tra i numerini dello spread e gli italiani, io sto con gli
italiani!”. Tria sa far finta di non ascoltare. Naviga a suo agio tra i
sofismi da convegno tipo: “È sbagliato rispondere sì, ma credo non basti
rispondere no”. Ammette le imperfezioni dell’Economia, scienza esatta solo a
consuntivo. Salvo attestarsi senza titubanze – e meno male – in cima all’alto
recinto della Costituzione: “Ho giurato nell’esclusivo interesse della Nazione
e non di altri”, ha scandito lo scorso 26 settembre davanti alla platea di
Confcommercio, in piena battaglia tra Lega e Cinque Stelle sui conti e sugli
azzardi pubblici dello zero virgola. E per essere più chiaro alle orecchie dei
cacciatori e dei raccoglitori di governo, ha aggiunto: “E non ho giurato solo
io, ma anche gli altri”. Dunque: datevi una calmata, perché “non c’è crescita
nell’instabilità finanziaria”. Chiaro? Chiarissimo. Durerà? Il prof di palazzo.
Consulente di Brunetta nell’era del berlusconismo. Poi Madia, Sacconi, La Malfa
fino al “cambio” con Savona. Come molti pompieri anche Giovanni Tria è nato
incendiario. Figlio di un dirigente di Confindustria e di una pacata professoressa
di francese, ha scelto il controcanto. Ai tempi del liceo romano Virgilio
militava niente meno che tra i maoisti di Stella Rossa. Albeggiava il ’68. Le
guardie rosse irrigavano la bella Rivoluzione culturale, anche se ancora non si
sapeva con quanto sangue. Del resto i maoisti d’Italia abitavano per lo più ai
Parioli, passavano le estati in Grecia e si preparavano, dopo gli allenamenti,
a sostituire i genitori tra le fila della classe dirigente. Tria studia e
viaggia. All’inizio persino su una motocicletta Bmw, come gli hipster di Nel
corso del tempo, capolavoro romantico di Wim Wenders. Un po’ di Oriente, le
isole greche, la Turchia. Traversate che ancora oggi sono i migliori ricordi a
cui appendere un po’ di malinconia. Dopo la moto, la laurea in Giurisprudenza
alla Sapienza, la carriera accademica in Italia, in America, persino in Cina
dove stava per nascere il liberismo-comunismo di Stato. Da lì in poi, due
mogli, due figli, le vacanze in gommone a Patmos. E sul lavoro molto prestigio,
molti incarichi, compresa la presidenza della Scuola nazionale
dell’amministrazione. Senza essere mai stato socialista, tantomeno craxiano,
entra nel comitato scientifico della Fondazione intitolata a Bettino Craxi, uno
dei politici più svelti a moltiplicare il debito pubblico italiano. E senza mai
essere stato di Forza Italia, tantomeno berlusconiano, collabora al programma
economico del nascente partito di Silvio B, quello che prometteva “il diritto
naturale” a una sola aliquota massima del 33 per cento, oltre, al celebre
milione di posti di lavoro. Tria è amico di molti, anche se non di tutti. Ha
lavorato con Maurizio Sacconi e con Giorgio La Malfa. Ha scritto a lungo per Il
Foglio. Considera Gianni De Michelis – conosciuto dopo la caduta di
Tangentopoli – uno dei “politici più intelligenti” della nostra storia recente.
Europeista convinto, ha criticato la Germania per il suo “strapotere
economico”. E su quelle righe si è conquistato l’amicizia e la stima di Paolo
Savona, il quasi sovranista che ha evocato il cigno nero dell’uscita dall’euro,
evento che ancora naviga nella nostra opaca palude. È stato proprio lui – come
rivelato a Repubblica – a chiamarlo al telefono una sera di maggio: il
presidente Mattarella non mi vuole all’Economia, “andresti tu al mio posto?”. E
siccome era sbagliato rispondere sì, ma neppure era possibile rispondere no,
Tria nicchia, ci pensa, poi accetta di salire in giostra. Nei primi giorni di
governo, allo scossone di cittadinanza replica: “Improbabile che si possa
configurare una società in cui una parte della popolazione produce e l’altra
consuma”. Mentre al carosello della flat tax, oppone il freno della
moderazione: “Meglio partire lenti per minimizzare la perdita di gettito, e
ridurre le aliquote una volta assicurati gli effetti sulla crescita”. Due quasi
no, per iniziare le danze, governando il sì. Dandosi tutto il tempo di
aggiustare il passo, come un danzatore provetto. Anche se non è vero, come in
molti hanno scritto, che Tria sarebbe stato un buon ballerino di Tango, “ci ho provato,
ma inutilmente”. Rotte di collisione e stonature ci sono state, aggiustate da
Mattarella e persino da Giuseppe Conte, che per carattere e silenzi gli
assomiglia. La più perigliosa agli sgoccioli del Def, il documento che prepara
il bilancio, quando l’incauto Claudio Borghi – il leghista che con un paio di
parole ha fatto crollare l’euro – gli ha spento il microfono in pubblico, e si
sono temute le sue dimissioni. Evento che avrebbe fatto esplodere i mercati,
dicono, privandoci di molti euro vantaggi, compresa la strepitosa imitazione
settimanale di Maurizio Crozza, dove il nostro Homo Sapiens, circondato dai
cacciatori e raccoglitori di governo, esibisce su un foglio, la muta
implorazione: “Aiuto!”. Ma al prossimo giro potrebbe anche cambiarla in una
domanda più perentoria: “Durerò?
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