"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

sabato 31 ottobre 2020

Leggereperché. 44 «I precetti sulla condotta sessuale hanno perso di vista il primato dell'amore. Tornare a quella verità ora si può».

 

A lato. "Domenica", "acquarello e penna" di Anna Fiore.

Tratto da “La chiesa antica non condannava l'omosessualità” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 31 di ottobre dell’anno 2015:

venerdì 30 ottobre 2020

Cronachebarbare. 75 «Il prossimo aveva incominciato a morire prima, quando l’economia si scorpora dalla società».

Tratto da “Come siamo diventati disumani” di Ezio Mauro, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 29 di ottobre: Dove ci siamo smarriti, prima che il virus ci trovasse rivelando la nostra fragilità nascosta dietro la potenza del progresso, della scienza e della conoscenza? Eravamo ancora liberi, autonomi, quando abbiamo reagito alla grande metamorfosi del mondo intorno a noi attraverso la paura e l’esclusione, senza accorgerci che stavamo trasformando anche la nostra natura nel risentimento e nel rancore, producendo una nuova antropologia, una nuova lingua, una nuova politica.

giovedì 29 ottobre 2020

Cosedaleggere. 78 «L'altro lato degli esseri umani».

A lato. Foto di Simone Weil adolescente.

Tratto da “Le confidenze intime di Simone Veil” di Simonetta Fiori, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di ieri 28 di ottobre: (…). Si erano conosciute il 13 aprile del 1944 nel vagone che dal campo di Drancy le conduceva ad Auschwitz-Birkenau. Simone Jacob (poi sposata Veil) aveva 16 anni, Marceline Loridan-Ivens appena più piccola. A distanza di tanto tempo i ricordi appaiono confusi, ma la mappa del lager è scolpita nella testa. "Forse il primo incontro risale al blocco 9". "Alle docce o ai tatuaggi?". "No, ai tatuaggi eravamo lontane". Insieme hanno condiviso l'imbestiamento, la paura, la fame, gli schiaffi delle SS, il corpo denudato e spiato, gli stracci infestati dai parassiti, le scarpe spaiate, le notti troppo brevi e i giorni troppo lunghi, ma quando s'incontrano preferiscono parlare delle viole del pensiero che fiorivano vicino al crematoio. Sorridono al ricordo dei fiori cresciuti nell'odore persistente delle carni bruciate. Sanno entrambe che solo chi ha conosciuto "l'altro lato degli esseri umani" è capace di trovare le parole necessarie. Noi e loro, un limite invalicabile. Neppure con la sorella maggiore Denise, imprigionata negli stessi mesi a Mauthausen ma da partigiana non perché ebrea, Simone riusciva a parlare di Auschwitz. Deportati ebrei e resistenti non condividevano la stessa storia. Con lei poteva evocare i ricordi famigliari prima del lager - i posti a tavola, la maglia che piaceva alla mamma, il villino costruito a Nizza dal papà architetto, anche l'incredulità ostinata con cui erano scivolati nella tragedia - ma non il campo di sterminio né le difficoltà del ritorno, perché quella era un'esperienza unica e irripetibile. Solo Milou avrebbe potuto capire, l'altra sorella sopravvissuta insieme a lei a Birkenau e poi morta nel 1952 in un incidente stradale. "Sono convinta che non siamo mai ridiventate normali. In apparenza abbiamo vissuto come tutti, ma le nostre reazioni intime sono rimaste diverse". Bastava poco per riprecipitare nell'inferno, "un odore particolare, una certa sensazione di freddo, anche l'immagine felice di bambini vestiti a festa, visioni belle e insieme insopportabili" perché richiamavano l'assenza di quei milioni di fratellini morti da cui Simone Veil non volle mai separarsi. "Per tanto tempo ho avuto paura di imbattermi in un'uniforme o di attraversare la frontiera. Come se avessi costantemente qualcosa da nascondere". Fino alla fine ha evitato il contatto con gli altri, perfino la fila davanti al cinema, tanto era stata intollerabile la costrizione del corpo dentro i pagliericci del campo. "Prima ero gaia, vanitosa, spesso frivola. Dopo essere tornata mi ripetevo sempre: ma davvero è importante?". Ne è scaturita una corazza, l'abito altero di cui non è più riuscita a spogliarsi. "Sono diventata più severa rispetto agli altri. E più sensibile a questioni a cui prima non davo importanza". È una testimonianza toccante e irrituale, quella rilasciata dall'ex presidente del Parlamento Europeo, fin dal suo primo incontro con il regista Teboul che da anni progettava un documentario. "Cosa le interessa di me?", gli chiese una mattina con l'intento di scoraggiarlo. "Il suo chignon, signora". Improvvisamente Simone Veil apparve turbata. Senza saperlo Teboul aveva toccato un punto cruciale della deportazione, il fatto che lei e altre compagne del convoglio numero 71 non erano state completamente rasate, condizione che le avrebbe assicurato la salvezza. Era stata Stenia, una delle kapò più feroci, a notare il suo portamento pieno di grazia e dignità: "Sei troppo bella per morire. Ti troverò un posto dove tu possa sopravvivere". Insieme alla mamma e alla sorella, Simone fu trasferita a Bobrek, considerato dai prigionieri alla stregua di un "sanatorio". Per anni si sarebbe tormentata su quel gesto inesplicabile e su quella donna crudele poi morta impiccata: spietata con tutti, non con lei. Con la domanda sullo chignon, Teboul aveva aperto un varco sul mondo segreto di Simone che per la prima volta si sarebbe confidata sulla sua vita, sulle ferite mai rimarginate. Sull'intreccio inestricabile tra il suo vissuto e l'impegno nelle istituzioni. Anche la costruzione europea aveva molto a che vedere con la sua dimensione esitenziale e l'urgenza della riconciliazione. "Come potevamo vivere dopo quello che era accaduto? Come potevamo vivere tutti insieme? L'Europa unita era l'unica risposta possibile, a patto di non dimenticare". Al padre intellettuale doveva la scoperta dell'ebraismo come "condizione imprescindibile", legata alla sapienza e alla cultura acquisite dagli ebrei nel corso di secoli. Ma ancora più del genitore, perduto nel campo lituano di Kaunas insieme al fratellino Jean, fu Yvonne il lutto perpetuo della sua vita, la madre morta di tifo a Bergen-Belsen. "In fondo non ho mai accettato la sua morte. Ogni giorno della mia vita è stata qui con me. Quando mi chiedono dove abbia trovato la forza per studiare, sposarmi, avere tre figli, fare il concorso in magistratura, ecco credo che sia stata mia madre a spingermi nel futuro".

mercoledì 28 ottobre 2020

Leggereperché. 43 “ADHD, BES, DSA”: «avvio a un regime di controllo sociale, dove a ciascuno si insegna a stare al proprio posto».

Tratto da “Ma è proprio vero che siamo così vulnerabili?” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 28 di ottobre dell’anno 2017: Si va diffondendo un'etica terapeutica che ci fa sentire bisognosi di protezione, di tutela, perfino di cura. Coach nei posti di lavoro per persuadere chi lavora che, se cambia atteggiamento o modo di vedere le cose, migliora il suo stato e le condizioni del suo lavoro, che diventa più piacevole e (ma soprattutto per l'azienda, però questo non lo si dice) più produttivo. Cassaintegrati e licenziati hanno bisogno di un'assistenza psicologica per la loro depressione o non piuttosto di un nuovo posto di lavoro? Perché patologizzare situazioni che diventano drammatiche non per ragioni psicologiche, ma per eventi oggettivi la cui soluzione coincide con la fine del disagio? E che dire degli psicologi che nelle scuole etichettano come "affetti da un disturbo da deficit di attenzione con iperattività (ADHD)" quei bambini che sono semplicemente un po' vivaci o perché creativi o perché bisognosi di un po' più d'attenzione o un po' più d'amore? Che dire di quei medici che, su richiesta dei genitori, sono disposti a rilasciare certificati che attestano "bisogni educativi speciali (BES)" che poi significa individuare i bisogni dell'alunno e le strategie più idonee per raggiungere concreti risultati educativi, impartire un insegnamento il più possibile individualizzato, coinvolgere più attivamente i compagni di classe in modo che interagiscano più efficacemente tra loro. In pratica quello che si dovrebbe fare per tutti gli alunni in tutte le scuole, con l'unica condizione di ridurre da trenta a quindici il numero degli alunni che compongono la classe. Se il BES non fosse sufficiente per un trattamento educativo speciale, il medico aggiunge il DSA (Disturbi specifici di apprendimento) che riguardano il lessico, le difficoltà nella lettura e nella scrittura, l'abilità nel calcolo, che spesso, senza essere etichettate medicalmente, sono difficoltà che possono essere superate con l'esercizio e l'applicazione, senza indurre nell'alunno la sensazione di essere diverso e senza fargli sentire l'ansia dei genitori che ne moltiplicano le cure. E a proposito di ansia, perché ricorrere a espressioni cliniche che parlano di "sindrome di ansia generalizzata" per dire che una persona è preoccupata, o di "ansia sociale" per chi è semplicemente timido, o di "fobia sociale" per chi ha un carattere riservato, o di "libera ansia fluttuante" per chi non sa di che cosa si preoccupa?

martedì 27 ottobre 2020

Virusememorie. 43 Corine Pelluchon: «L’esistenza conserva il suo valore fino a che si accorda con quella degli altri».

Generazioni a confronto al tempo della “peste”. 1- Tratto da «Noi "senior", fanti esposti in prima linea» di Bernardo Valli, pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 25 di ottobre: Da quando l’inquietudine nella metropoli è cresciuta, la mia siepe di capelli bianchi suscita reazioni insolite. Più marcate. Nelle vetture del metrò che mi capita di frequentare (sulle linee Montmartre-Opéra-Montparnasse) mi viene ceduto il posto con maggior frequenza. Di solito non ci facevo caso. Rifiutavo. Orgoglio? No, mi sembrava che nella ressa fosse meglio stare in piedi. Ma forse la troppa attenzione dedicata alla mia età mi infastidiva, anche se era dovuta a un naturale riguardo. Respingevo l’offerta persino nelle ore di calca, schiacciato come una sardina tra parigini, bretoni, magrebini e senegalesi. Coloro che volevano cedere il posto ai miei capelli bianchi sono aumentati in modo sorprendente. Ed è accaduto con l’epidemia del coronavirus. Le vittime più numerose di questa sinistra sorpresa del Ventunesimo secolo sono gli individui di entrambi i sessi adesso chiamati nelle nostre società anziani o persone di età avanzata o senior, o con altre espressioni garbate, invece di “vecchi” come un tempo, vocabolo asciutto che può suonare impietoso. Quella dei senior è la parte più vulnerabile dell’umanità. E quindi, questa è la mia impressione, il trattamento che le è riservato (di cui usufruisco) è al tempo stesso rispettoso e a volte inconsciamente pietoso. La convinzione di molti, non del tutto infondata, è che si tratti di una specie ormai fuori gioco, non più rivale o concorrente o complice d’avventure, alla quale si debbano dedicare riguardi adeguati, negli affari o nella complicità privata, che può essere amicizia. L’attenzione prestata ai senior è spesso dettata dal senso di superiorità o dalla generosità, o naturalmente dall’affetto. Non dimentico la solidarietà laica (le pensioni sono cosa recente), e naturalmente il rispetto formale, comandamento dell’educazione del cittadino. I tempi dei beneficiari sono corti e gli agguati alla loro salute sono tanti. Sui senior non si può contare a lungo. La vecchiaia sfugge alla nostra volontà: la si subisce con stati d’animo diversi; si tratta di riconoscere, ha detto un filosofo, che «è quel che accade». È pazienza. L’epidemia rispolvera concetti dimenticati. Nelle nostre società si dedicava sempre meno spazio al pensiero di fin di vita. Le distrazioni, gli interessi seri o ameni, i sempre più intensi ritmi di vita, lo occupavano. Quasi lo cancellavano. Quasi si dimenticava la morte. Nelle metropoli, per non intralciare il traffico, i funerali si dirigono verso i cimiteri di primo mattino, quando le strade sono deserte. Con l’eccezione di quelli ufficiali, avvengono con discrezione, sono convogli clandestini. Ora l’epidemia obbliga a cortei funebri notturni senza seguito, per timore di contagio. Il loro passaggio, oltre a turbare la circolazione, renderebbe ancora più fragili i cittadini più sensibili, già investiti dalle continue informazioni sull’epidemia. Più di due millenni fa, guardando i muri sgretolati della sua villa e i rami secchi dei platani del giardino, Seneca vi scorgeva un’immagine della vecchiaia che incombeva sul suo corpo e se ne rallegrava pensando che l’età senile lo avrebbe liberato dalle passioni. Fu poi costretto al suicidio. Vi fu obbligato per motivi politici, ma si può vedere nel suo suicidio imposto anche un esempio estremo di come la rara felicità che accompagna la vecchiaia può essere stroncata. La cicuta ha preso altri nomi. Gli anziani, quelli di tarda età, i senior, rappresentano in questa inquietante stagione una fanteria esposta in prima linea davanti a un nemico da evitare per farla franca, non avendo ancora le armi per renderlo innocuo. La vecchiaia sfugge alla nostra volontà, nonostante i rimedi che hanno allungato la vita. Può presentarsi con l’immagine del vegliardo glorioso che offriva il gagliardo, più che ottantenne, Victor Hugo, oppure con quella sofferente, degradata di François-René Chateaubriand, altrettanto ottantenne. La diversa vecchiaia dei due scrittori non era dovuta ai più o meno grandi successi, alla fama. O al denaro. La filosofa Corine Pelluchon ha scritto parole che restano sagge anche oggi con l’epidemia. L’esistenza conserva, dice, il suo valore fino a che si accorda con quella degli altri, attraverso l’amicizia, l’indignazione, l’amore, la compassione... E non perde di vista le illusioni che pensava perdute, non lasciando che l’ardore vitale raffreddato si spenga. Me ne rendo conto.

Generazioni a confronto al tempo della “peste”. 2- Tratto da “Nonni contro nipoti, le generazioni divise dalla pandemia” di Michele Serra, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi martedì 27 di ottobre: (…). Vecchiaia e giovinezza hanno necessità differenti, e di conseguenza costumi difformi. La clausura pesa meno a chi ha già potuto vivere i suoi anni promiscui, già sperimentato i suoi eccessi, già compiuto i suoi bagordi. Mentre chi si affaccia alla vita ha urgenza di viverla, impazienza di consumarla. E dunque sì, la frenesia dei giovani non si concilia con l’incolumità dei vecchi, e non per malvagità o per distrazione, ma perché la vita ha un’inerzia invincibile, spesso sorda e cieca. E questa inerzia, in tempi di contagio, è tutta a svantaggio dei vecchi e della loro fragilità. Ma questo, come dire, è la parte inevitabile (una delle tante parti inevitabili) della catastrofe chiamata Covid. Evitabile, magari, è che su quella zattera tutto sommato ancora solida e quasi confortevole che è la società contemporanea (con le ambulanze, gli ospedali, la ricerca medica, i vaccini e tutto il resto) ci si accapigli e ci si azzanni come i naufraghi del Medusa. Di un sindacato dei vecchi, e di un sindacato dei giovani, non abbiamo proprio bisogno. (…). Sabato 19 settembre passai, di sera tardi, in piazza delle Erbe a Verona, che era gremita di migliaia di ragazzi, molti senza mascherina, tutti col bicchiere in mano. Già si contavano, precisi come sentenze, i primi numeri nefasti, il contagio stava risalendo giorno dopo giorno. Già si sapeva tutto, dunque, a meno di essere un negazionista, dunque un ebete o un farabutto. Una parte di me augurò a quei ragazzi che lo spritz gli andasse di traverso, perché era evidente la loro incoscienza, evidente che quel gregge non solo non era incolume: era a disposizione del virus. Era il banchetto del demonio, per dirla come la direbbe un virologo di Radio Maria. Ma un’altra parte di me ha pensato che quell’adunata, e altre consimili, era arginabile solo fino a un certo punto. Cioè non più di tanto. Faceva parte, quell’adunata, della natura, proprio come il coronavirus.

lunedì 26 ottobre 2020

Virusememorie. 42 «Rammendi a questa vita sfilacciata».

 

Quadro primo. Tratto da "Chiudiamo le Rsa. Ma per sempre" di Enzo Bianchi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi lunedì 26 di ottobre: (…). Gli anziani sono ritenute persone che stanno per uscire dalla vita, e ad essi non solo non si riconosce più la saggezza dell’esperienza ma vengono considerati unicamente dal punto di vista demografico: quanto pesa la loro percentuale sulla società a livello medico; quale impegno comporta la loro assistenza; quale costo rappresentano per la società. Molti sono soli, abbandonati, senza nessuno che li cerchi o li riconosca, invisibili e quasi senza nome, visto che nessuno più li chiama. In quest’ora di pandemia vivono la clausura e, nonostante quanto si è vissuto in primavera e la previsione della seconda ondata, nulla è stato approntato affinché l’isolamento potesse essere alleviato da possibili visite, in strutture apposite che permettano, senza il pericolo del contagio, di incontrarsi, vedersi, sorridersi e parlarsi. E così la solitudine imposta diventa desolazione e ben presto disperazione. Sono queste le parole che ascolto più spesso da quegli anziani che mi telefonano dalle Rsa per sentire una voce amica. Forse perché ho molto ascoltato il grande teologo e visionario Ivan Illich, mio amico, ho sempre diffidato della "istituzione della carità": non solo perché è una carità "presbite", che demanda ad altri di stare vicino a chi noi teniamo lontano, ma perché istituzionalizzare orfani, malati e anziani significa ritenerli scarti, fuori dal giro della vita. Abbiamo chiuso le case per malati mentali, abbiamo chiuso gli orfanotrofi: cerchiamo di chiudere presto anche le Rsa! Contrastiamo la follia che ci conduce a una vecchiaia artificiale di solitudine e di non vita, impegnandoci a percorrere vie diverse, come in altri Paesi: convivenze, condomini protetti, comunità, domiciliarità.  Altrimenti succederà sempre più ciò che molti vecchi mi hanno confidato: chiedono di non venire più curati e di essere lasciati morire al più presto. Povera umanità!

Quadro secondo. Tratto da “Le nostre vite sfilacciate nella città ripiombata nel silenzio” di Natalia Aspesi pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” di oggi lunedì 26 di ottobre: (…). Che fare? Visto che le buone maniere democratiche non solo non migliorano la situazione ma consentono a una quantità di pazzi di dire la loro diventando star del web e della televisione e peggiorando quindi sia il morbo che le persone, oso pensare che senza arrivare a Beria (che risolverebbe tutto in mezza giornata), un polsino meno fragile si potrebbe immaginare, per esempio: tralasciando oltre all'avanti e indietro di chiusure e aperture a vari orari, smettere di fantasticare-promettere quando questa vita di nebbia finirà: tra una settimana, tra trenta giorni, a Natale, la prossima estate... Non lo sappiamo noi sempliciotti, non lo sanno i cretini e i saccenti, non lo sanno i governi, non lo sa la scienza, forse non lo sa nemmeno il Covid-19 stesso. Nei secoli ci si è abituati a vivere con le guerre di religione, le guerre tra nazioni, le carestie, la peste e tutte le maledizioni della terra, perché non attrezzarsi anche adesso per convivere con questa pandemia, difendendosi al meglio sino a quando, se gli umani non troveranno un'arma definitiva, per ignoti incantesimi riprenderà la sua astronave e se ne andrà a far fuori gli abitanti, animali o vegetali o minerali di un altro sistema solare? Ci vorrebbe però quella disposizione d'animo ignota agli italiani che si chiama disciplina, e una anche peggio, detta ubbidienza: ma pure, e qui siamo dei maghi, una delle nostre virtù massime è proprio quella di violare anche la legge meno fastidiosa, perché fregare gli altri ci rende importanti, in quanto siamo quelli che non si fanno fregare. Oppure seguire l'istinto di sopravvivenza, non ritenere uno stupro disinfettarsi spesso le mani, una galera star qualche sera a casa, un attentato alla libertà portare la mascherina (quando per la moda si è disposti a ogni tortura tipo tacco a spillo o tatuaggio anche nei luoghi meno esposti allo sguardo). Sarà mortalmente noioso tanto da creare depressione e violenza rinunciare alla movida, quando a noi vecchi pare noiosissimo stare in piedi con un bicchiere in mano davanti a un bar a chiacchierare con uno sconosciuto di cose prive di interesse e rigorosamente solo dopo mezzanotte. E le palestre? Non ne ho mai vista una in tutta la mia vita, ma nella pubblicità e nei film si vedono ambosessi di ogni età solitari, senza nessuno vicino, che sudano orribilmente sballonzolando su congegni da tortura: se però poi fanno una doccia con qualche disinfettante bruciantissimo sono a posto. E i teatri e i cinema e i musei e quei luoghi dove si fa cultura presentando libri o altro? Si sa che non contano nulla perché non interessano a chi conta ma proprio per questo perché chiuderli?

domenica 25 ottobre 2020

Storiedallitalia. 87 Biografie eccellenti “made in Italy”.

Tratto da “Poltrone, Twitter & C. Carletto ora gioca al capriccio Capitale” di Pino Corrias, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” di oggi domenica 25 di ottobre: Svegliandosi nel caro letto sempre dopo l’onesto villan, il fabbro e la sonante officina, il giovin signore Carlo Calenda chiamò le cucine per il caffè, si concesse un minutino alla doccia, accese twitter, guardò l’ora, ed era solo mezzogiorno. Che fare? Vendere Ferrari negli Emirati arabi l’aveva già fatto. Visitato il mondo, l’aveva visitato con delegazioni d’alto rango. Persino in Confindustria aveva navigato per quattro lunghi anni all’ombra di Luca Cordero di Montezemolo (“che non è un transatlantico” come scrisse un giorno il dispettoso Fortebraccio). E per una manciata di stagioni era pure stato al governo della Repubblica, un mordi e fuggi a velocità psicotropa con Letta junior, Renzi figlio, Gentiloni senior. E ora? Brillò intorno all’ora indolente dell’aperitivo la nuova idea: e candidarsi a sindaco di Roma, perché no? Così andò il giorno in cui Carletto – per noia e per ennesimo capriccio – si fabbricò in terrazza il nuovo giocattolo della candidatura Capitale. È vero, sino al giorno prima aveva detto cento volte il contrario, “Io sindaco di Roma? Neanche morto, sarei un cialtrone!”. Ma che importa? Tutti in politica disdicono tutto, nessuno scaglia mai la prima pietra, e poi ci si ritrova fraternamente a cena. Lui cucina benissimo. E visto che in corsa per il Campidoglio l’allegra sinistra Dem schiera “i soliti sette nani”, capaci al massimo di un uovo sodo, lui sarebbe diventato Biancaneve in proprio. In quanto al programma ne aveva uno già pronto, con cuciture rifinite a mano: “Dare rappresentanza al pragmatismo”. E poi? “Decoro urbano, rilancio delle periferie”. E addirittura: “Praticare il buon governo”. A differenza di tutti gli altri che, a suo modo di vedere, promettono il contrario. Fatto il programma, restano le alleanze risolte in una frase: “Il Pd si accontenti”.

sabato 24 ottobre 2020

Memoriae. 21 «Un racconto breve. “Inatteso incontro”».

A lato. "Rocamadour" - Francia - (2019). Acquarello di Anna Fiore.

Mi implorò: - Non schiacciarmi -. E sì che l’avrei potuto schiacciare facilmente; poggiato e bene in vista sullo sgabello stava quell’arnese, oggi di plastica, pensato e fabbricato per schiacciare le mosche. Ed è pur vero che nella calura della giornata non l’avevo ancora utilizzato; avevo scansato le mosche con gesti indolenti, di un’indolenza dovuta all’eccessiva calura della mattinata. È pur vero che per un po’ di refrigerio mi ero riparato sotto una specie di pergolato ove a malapena fluiva il lento, per quanto meno caldo, alito della giornata; ma pur sempre pativo, al pari di tutti gli altri esseri viventi, l’inclemenza torrida della stagione. – Non schiacciarmi - tornò a dirmi, e la sua implorazione si perdeva nell’alto frinire della stagione. Io non riuscivo a capacitarmi alla vista di quell’animaletto che, posatosi sullo sgabello che utilizzavo a mo’ di tavolinetto, mi si rivolgeva con parola umana. Mi veniva di rassicurarlo, ché mai e poi mai lo avrei schiacciato a mo’ di una mosca qualsiasi. Ma non era una mosca affatto; era un grilletto, piccolo, di quelli che si vedevano saltare per i prati tutt’attorno. Lo sbalordimento mio fu in verità enorme: come fare a credere che quell’animaletto potesse proferire umana parola? Ma le cose stavano proprio così. Ma ancor più sbalorditiva appariva la sua preoccupazione; ché avesse riconosciuto la finalità propria dell’arnese che mi ero premurato di portare con me e che non avevo utilizzato? Preoccupazione veramente sorprendente, più di quanto mi avesse sorpreso la sua vocina che si levava netta dalle pagine aperte del libro che stavo leggendo con interesse e sulle cui pagine si era posato con leggerezza senza che io me ne accorgessi. Dovetti necessariamente stropicciarmi gli occhi dopo aver rimosso gli occhiali che inforcavo. E per prendere tempo, e per meditare come se nulla fosse, mi detti alla pulizia delle lenti; nel frattempo mi ponevo ancora una volta la questione, ovvero come fosse possibile che un grillo potesse comunicare con linguaggio umano. Non trovavo conforto nell’operazione di accurata pulizia delle lenti nella quale mi ero votato, né tanto meno mi pareva giusto rompere per qualsivoglia motivo quell’incantamento che all’improvviso si era creato. Il grillo intanto se ne stava comodo comodo sulle pagine del mio libro, quasi a volersi godere anche esso la frescura del pergolato. Mi sforzavo di ricordare tutti i grilli della letteratura, o dei film di animazione, ed in verità l’unico grillo che mi attraversasse prontamente la mente fu il grillo saggio della magnifica storia di Pinocchio. Che fosse anche il presente grillo un grillo saggio? Solo che quel povero grillo della storia di Pinocchio, se non ricordavo male, il burattino tentò pure di schiacciarlo. Era necessario comunque che io riprendessi in mano la situazione intricata e singolare che si era venuta a creare. E tutto d’un fiato ebbi a dirgli: - Ma tu, sei veramente un grillo? –  E per tutta risposta ebbe a dirmi: - Perché, ne dubiti forse? -. Era effettivamente un grillo, un grillo parlante d’altra parte.

venerdì 23 ottobre 2020

Ifattinprima. 94 Gentiloni sul Mes: «“è un duello italo-italiano, dal quale cerco di stare lontano”».

“Mes” sì o “Mes” no? E Voi, da quale parte state? Ha ben ragione a definire lo sproloquiare sull’argomento il Commissario Europeo Gentiloni come un “duello italo-italiano”, ovvero di quel non-senso del quale si pregia autorevolmente la cosiddetta “politica” del bel Paese.

giovedì 22 ottobre 2020

Leggereperché. 42 «I bambini non hanno bisogno di tempo “di qualità”. Ma di tanto tempo trascorso con loro».

Tratto da “L’amore non si conta in ore” di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 22 di ottobre dell'anno 2016:

mercoledì 21 ottobre 2020

Cosedaleggere. 77 Gramsci: «io venivo dipinto come un mascalzone vizioso, cocainomane, con le dita cariche di anelli»

Tratto da «Giulia, l’amore e l’accusa di essere un “mascalzone”. Le “Lettere” mai viste di Gramsci» di Simonetta Fiori, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” dell’11 di ottobre 2020: (…). Prima di trasferirci al numero 3 di via Arcivescovado a Torino, sotto le finestre dell’Ordine nuovo, dove il direttore Antonio Gramsci tiene una pistola sulla scrivania perché nel biennio rosso non si può star tranquilli, occorrerà soffermarsi sulla prima vera notizia culturale: le Lettere dal carcere tornano a circolare integralmente (…). …da svariati decenni per leggere il romanzo epistolare più bello del Novecento bisognava rivolgersi a Sellerio, che nel 1996 ha pubblicato per la cura di Antonio Santucci un elegante cofanetto azzurro con tutte le lettere, ormai fuori diritto. (…). Ogni edizione porta con sé nuove lettere e nuovi documenti, e ha ragione Ernesto Franco quando lo definisce «un libro forse interminabile». Qui siamo a quota 489 missive di cui 4 inedite, le datazioni si fanno più certe, alcuni brani cassati dallo stesso prigioniero e ora reintegrati aprono piccoli squarci su sogni presto svaniti («Ho pensato di essere finalmente diventato una bolla e di essere da domani fuori», scrive il 6 novembre del 1932 nell’illusione di beneficiare dell’amnistia. «Chissà quanti viaggi»). Ma il merito principale del curatore è di aver ripercorso le incredibili traversie di un libro postumo – involontario e conteso – con la serenità di chi vuole lasciarsi alle spalle le zuffe politiche novecentesche. (…).

martedì 20 ottobre 2020

Quellichelasinistra. 17 «Noi abbiamo conosciuto il grande romanzo della sinistra, lo abbiamo vissuto e cantato».

Ha scritto Maurizio Maggiani in “Sinistra” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 18 di ottobre 2020: Non riesco più a pronunciare bene la parola sinistra, come se me la stessi dimenticando. So che è perché da un pezzo ormai la sinistra non la vedo, non la sento, non la tocco più. Come dissolta, oppure dispersa nella sua materia sensibile. Io lo so ancora cos’è la sinistra, lo so perché ho memoria e perché ho ancora coscienza di chi sono io, da dove vengo, dove mi preme ancora andare. E sulla strada che faccio incontro a ogni passo, e le tocco con mano e le vedo e le ascolto, le ragioni della sua inevitabile necessità. Su quella strada continuo a incontrare umani con cui viaggiare volentieri assieme, li riconosco come fratelli, non hanno segni particolari di riconoscimento in verità, non sono altro che umani, umani colmi di una militante umanità. Umani che si riconoscono nella parte più radicale della loro umanità. Indefessi costruttori di vita, generosi combattenti avverso ai costruttori di morte. Libertà, fraternità, uguaglianza, pane, lavoro, dignità, e amorevolezza, cos’altro se non questo è vita. Noi abbiamo conosciuto il grande romanzo della sinistra, lo abbiamo vissuto e cantato, e le generazioni che ci hanno preceduto ne hanno fatto parte per secoli, per millenni, ancor prima che i patrioti della fraternità, della libertà e dell’eguaglianza alla Convenzione si schierassero nei seggi alla sinistra. È romanzo che racconta di infinite sconfitte e lampi di vittoria, di mirabili gesta e immani sacrifici, improvvisi trionfi e repentini tradimenti, eroi e martiri, come è nella natura delle grandi storie è romanzo di migliaia di capitoli e milioni di capoversi, miliardi di immagini, infiniti autori, così che ognuno ha un posto per sé, il suo piccolo o grande racconto nel tutto. E Hugo e Steinbeck ne fanno parte quanto mio zio minatore e Pino Pinelli, Rosa Parks e il bracciante di Portella della Ginestra, e Zero Calcare e l’operaia tessile di Dakka innamorata del suo compagno di lavoro bruciato vivo nell’incendio della fabbrica. Come sia stato possibile che questo grande fiume si sia prosciugato, questa incessante voce ammutolita? Dobbiamo convocare alla torre i narratori. Chiamarli all’impellente servizio del romanzare. Architetti, geografi, filosofi, scienziati, storici, giornalisti, musicisti, fumettisti, operatori audiovisivi, filosofi... chiunque sia disponibile a mettere mano alla propria arte e mestiere e ne sappia trovare gli elementi per farne racconto di un capoverso del rinato grande romanzo della sinistra. Farsi testimone e custode e propalatore anche di una sola parola da preservare, da riscattare, da ripristinare, e riconsegnarla alle coscienze colma di tutta l’umana vicenda che la possiede, perché se ne torni a fare materia del pensare e dell’agire delle vite, militanti parole di umanità. Comunità in carne e ossa, e romanzo vivente. O non saremo più, se non nell’inane infelicità. Tratto da “Oltre Marx, la nuova sfida al capitalismo”, intervista di Simonetta Fiori a Fausto Bertinotti pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” del 17 di agosto 2020: “Oggi bisogna andare oltre Marx. Non si può prescindere dall'autore del Capitale, ma la mutazione intervenuta nel capitalismo richiede nuove analisi". (…). Ora non ricorrerò all'epigrafe cattivissima che liquida come "giardinaggio" l'ecologia svincolata dal conflitto sociale. Ma l'ambiente sottratto alla lotta contro le diseguaglianze è solo olio nel motore. Ora dobbiamo chiederci dove ci porti questo capitalismo. A me pare verso una crisi di civiltà".

Ma l'attenzione all'ambiente non esclude la battaglia contro le diseguaglianze, al contrario. Come dimostrano i ragazzi del Friday for future. "Certo! Ma a me pare che Sassoon tenda a sottovalutare le diseguaglianze, considerandole fisiologiche".

Non direi questo. Sassoon parte da una considerazione più generale difficilmente contestabile: il capitalismo trae le la sua legittimazione dal fatto che i bisnipoti dei proletari inglesi della rivoluzione industriale stanno molto meglio dei loro avi. "Dal punto di vista dei consumi è una riflessione fondata. Ma perfino i lavoratori della prima industrializzazione - le cui descrizioni ci facevano rabbrividire - stavano meglio degli schiavi. Questo però non è un indicatore del livello di civiltà. Insieme agli elementi economici ci sono questioni che riguardano il senso della vita e della comunità: il processo di spoliazione dell'attuale capitalismo fa impressione. E le crescenti diseguaglianze sono la cifra prevalente di questo sistema: come se fossero lenti di ingrandimento sulla natura specifica del nuovo capitalismo".

lunedì 19 ottobre 2020

Cosedaleggere. 76 «Ricordare a noi stessi chi eravamo prima della pandemia».

Tratto da “Il vaccino della scrittura” di David Grossman, pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 17 di ottobre 2020: (…). Qui, oggi, noi scrittori, poeti, traduttori, redattori, editori, agenti ma soprattutto lettori, paragoniamo tristemente le circostanze odierne a quelle degli anni passati e ci chiediamo quale sia il nostro compito nell'attuale realtà. Potremmo dare un qualche contributo? Creare una sorta di "anticorpo" o di "vaccino spirituale" al virus? Contrapporre qualcosa di significativo al senso di restrizione e di annientamento generato dalla pandemia? Credo che questo "qualcosa" sia la nostra capacità di osservare. Il modo in cui guardiamo il mondo e descriviamo ciò che vediamo. L'osservazione è il fulcro della nostra arte. Ciò che fa di noi degli scrittori, e forse le persone che siamo. E c'è molto da osservare. E da raccontare. In quasi tutti gli ambiti della vita avvengono, e avverranno, cambiamenti. Sistemi economici, politici, sociali, culturali collasseranno o assumeranno nuove fisionomie. Probabilmente anche i rapporti tra le persone, tra famigliari, tra amici, tra coppie muteranno. Forse la prossimità alla morte farà sì che donne e uomini, dopo la pandemia, vedano la loro vita in una luce diversa e non vogliano più accettare compromessi. E forse scopriranno quanto siano significativi e importanti i rapporti di amicizia e d'amore.

sabato 17 ottobre 2020

Leggereperché. 41 «“Tra i numerini dello spread e gli italiani, io sto con gli italiani!”».

Ricordate Giovanni Tria? Tria chi? Potrebbe ancor oggi occupare onorevolmente un posto nello scenario politico-sociale del bel Paese per la Sua “biografia” che definire eccellente – non per niente è stato professore presso l’Università di Tor Vergata e preside della Facoltà di Economia di quella Università - è dir poco. Ma giusta ri-torna la domanda: ricordate Giovanni Tria? Boh! “Tria chi”, solamente dopo due anni appena! Poiché quel 17 di ottobre dell’anno 2018, proprio come oggi, Giovanni Tria era all’apice del Suo impegno politico. Ne scriveva a quel tempo Pino Corrias su “il Fatto Quotidiano” del 17 di ottobre dell’anno 2018 in “Da Stella Rossa a B. Il perfetto moderato che tratta coi barbari”: (…). Giovanni Tria, classe 1948, preside della facoltà di Economia, Università di Tor Vergata, non è una mammola e non è uno sprovveduto. È romano di Roma: per memoria ancestrale sa da un paio di millenni come si trattano i barbari, che infine conquistarono il cuore dell’impero, per poi esserne conquistati. Delle sue molte abilità, la più utile, oltre al buon carattere, è stato l’insegnamento di Edmund Phelps, economista premio Nobel 2006, che studiava “gli effetti a breve e a lungo termine delle politiche economiche”.

venerdì 16 ottobre 2020

Virusememorie. 41 «Segni tragici di un fato planetario assunto e realizzato con progressiva accelerazione dall’umano».

Ha scritto Giuseppe Genna in “Le tenebre e la speranza” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” dell’11 di ottobre 2020: (…). …il passaggio forse più drammatico dell’intera enciclica (“Fratelli tutti” di Francesco vescovo di Roma n.d.r.) sta nel negare che la pandemia sia un castigo di Dio, quasi che non avesse a che fare col genere umano e le sciagure che commina a ciò di cui dovrebbe prendersi cura. (…). La frantumazione di ogni sogno e il crollo della coscienza storica, la sperequazione economica e la collettivizzazione della rabbia, la connessione pervasiva che crea la disconnessione tra sé stessi e il mondo, l’incultura violenta che tende a scartare l’ultimo. Sono i segni tragici di un fato planetario assunto e realizzato con progressiva accelerazione dall’umano. Non una volta viene posta la domanda da dove il male provenga. Una fenomenologia cupa, l’analisi gelida di un mondo altrettanto gelido, che più si sovrappopola e più diviene deserto. Questo urlo di Munch emesso dal mondo e, insieme al mondo, da Francesco, conferma lo stato delle cose: un “Metropolis” ubiquitario preme alle porte della percezione e della vita umana. È uno degli atti più disperati che si siano visti compiere a un pontefice, detto che la storia dei Papi è una reiterazione rinnovata di disperazioni dal carattere storico e cosmogonico (…). In questa discesa agli inferi, che sono poi il mondo che abitiamo nel nostro tempo travagliato e duro, «è la realtà stessa che geme e si ribella». Non la natura, non l’umanità: la realtà stessa. (…). Le cose piangono, la mente umana ne è toccata. (…). Ha ben ragione il vescovo di Roma a rivolgersi agli uomini del secolo ventunesimo con le forme ed i toni utilizzati nel Suo scritto. Non può esserci in questo tempo una mistificazione tale che le responsabilità collettive degli umani passino in un subordine per il quale figuri la volontà preminente ed ostinata di un dio tesa ad infliggere la “peste” per un “castigo celeste”. Un messaggio così lanciato sarebbe valso semmai a quegli uomini del diciassettesimo secolo che nel volume “Tutte le vite di Spinoza” - di Maxime Rovere - patiscono la “peste” di quel tempo. Scrive Rovere (a pag. 223) a proposito della “peste” che sconvolse Amsterdam ed il Paese intero nell’anno 1665:

giovedì 15 ottobre 2020

Memoriae. 20 «Un racconto breve. “L’Emigrante”».

A lato. "Obridos" (Portogallo, 2020), acquarello di Anna Fiore.

Correva con il cuore gonfio e gli occhi pure; sentiva le gambe venirgli meno, eppure riusciva ancora a correre. Spesso alzava il braccio libero e con la manica del cappotto asciugava le lacrime che come rivoli prima distinti, si univano poi a gocciolare sotto il naso.

mercoledì 14 ottobre 2020

Cronachebarbare. 74 Per una tipologia del «fascista».

Ha scritto Marcello Fois - scrittore sardo - in “Fascista” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 4 di ottobre 2020: La parola “Fascista” esiste. Difficile da riconoscersi dopo anni di sdoganamento, ma sempre individuabile, con precisione, per chi voglia individuarla.

martedì 13 ottobre 2020

Ifattinprima. 93 «Non c’erano untori, ma piuttosto era l’economia che non si poteva fermare».

Ha scritto Roberto Saviano in “Non ci sono untori ma cittadini spaesati” pubblicato sul settimanale “L’Espresso” del 23 di agosto ultimo: (…). …credevamo di aver trovato l’untore nel cinese, nel runner, nel povero cristo solitario che passeggiava sulla spiaggia, cacciato in malo modo da un elicottero munito di altoparlante. Solo io scorgo il ridicolo in una donna o un uomo che prende aria, da solo, e che viene redarguito niente meno che da un elicottero in volo solo per lui? Del ridicolo e dell’antieconomico al tempo stesso? Ora spero che almeno su questo punto siamo tutti d’accordo: non c’erano untori, ma piuttosto era l’economia che non si poteva fermare. L’economia delle regioni più produttive d’Italia che hanno deciso di salvare il Pil a scapito di “qualche” vita. Anche se tale decisione non pare essere stata mai condivisa con la popolazione di quei territori.

lunedì 12 ottobre 2020

Leggereperché. 40 Altan: «Gli italiani sono un popolo straordinario. Vorrei tanto che fossero un popolo normale».

Tratto da “Storia d’Altan”, intervista di Simonetta Fiori al fumettista e vignettista Francesco Tullio-Altan pubblicata sul settimanale “Robinson” del quotidiano “la Repubblica” del 12 di ottobre dell’anno 2019: “Queste celebrazioni? Sono premi gerontologici. Arrivi a una certa età e tutti si affrettano a darti una medaglia. Finché fanno in tempo...". (…).

Come spiega la coincidenza di mostra, libri, film? Non c'è neppure il pretesto dell'anniversario a cifra tonda: mancano tre anni all'ottantesimo compleanno. "Appunto: non me lo spiego. Se non con le parole profetiche che mi disse tantissimi anni fa Alberto Breccia, un grande disegnatore argentino pluripremiato: non è gloria, ma vecchiaia".

domenica 11 ottobre 2020

Cosedaleggere. 75 «Un pensiero per Rossana Rossanda, tardiva gratitudine».

Tratto da “Le censure nascondono cattive intenzioni (o sguardi): vedi la diatriba sulla minigonna a scuola (che sia un invito di tipo erotico definisce chi lo pensa... anche se a mio avviso resta scomoda. E in generale, semplificare troppo non si può di Concita De Gregorio pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 3 di ottobre 2020:

sabato 10 ottobre 2020

Memoriae. 19 «Un racconto breve. “Evasione”».

 

A lato. "Pier 39. San Francisco" (2019), acquarello di Anna Fiore.   

Aveva lasciato da quasi un’ora quel mondo relegato, secondo lui, ai confini della civiltà; ci ripensava ancora col naso schiacciato al finestrino della corriera e più volte si era fatto male a stare in quella posizione, poiché la corriera subiva quei sussulti allorquando si viaggia o si cammina per le strade polverose, pietrose e solitarie dei nostri luoghi. Aveva lasciato ogni cosa, anzi gli sembrava di avere scordato tutto, almeno per ora; tutto, dalle lise sue manichette che usava per l’ufficio per non sciupare le maniche della giacca, ai suoi libri preferiti, che tanta noia gli levavano quando l’ufficio gli lasciava del tempo libero. Lui era fatto così; strano forse per un mondo quale era quello del paese in cui lo avevano mandato. Cercava costantemente qualcosa a cui aggrapparsi, qualcosa che avrebbe potuto giustificare tutto ciò che faceva; eppure si guardava attorno e non trovava nulla che lo potesse aiutare, che lo potesse sorreggere. Una speranza del resto gli era rimasta in cuore; poter vivere tranquillamente, senza fastidi, come tutti gli uomini del resto! Ma come? Gli mancava la cosa essenziale, ciò a cui egli teneva sopra ogni cosa, con un attaccamento quasi morboso e selvaggio. Da quando la povera mamma era andata via per sempre, egli si era sentito più solo, solo in mezzo alle strade, solo in mezzo alla gente che si affatica, che gode, che soffre; e lui aveva sofferto in un primo momento, poiché l’amore materno, il ricordo di quegli occhi teneri, di quei capelli bianchi, di quelle mani benedette, faceva tardi a lasciarlo. Ma poi si era ripreso e non aveva più sentito nulla, né godeva né soffriva, e questo lo preoccupava. Proprio nulla egli sentiva a questo mondo? Capiva che il suo cuore era oramai come un ramo secco che non partecipa più alla bellezza della natura e che chiunque può servirsene; così il suo cuore era divenuto ora che quell’ultimo amore lo aveva per sempre lasciato. Aveva abbandonato la casa, la città perché gli facevano noia ed a volte anzi sentiva come un odio inusitato per il suo animo buono e sensibile. Così era andato via, con quella speranza propria di sostituire a quell’amore mancato quello di una brava donna, che a lui tutta si dedicasse, che gli desse il conforto della sua vicinanza, della sua tenera amicizia; con la speranza di formare finalmente quella famigliola, quieta, onesta, che forse l’affetto per la mamma non lo aveva spinto a formare. Il tempo del resto era trascorso ed egli non aveva ancora trovato ciò che tanto desiderava, quella calma, quella pace e non aveva trovato soprattutto quell’amore che avrebbe potuto riempire il vuoto del suo cuore, del suo letto, della sua casa. Ora ripensava, guardando per i campi che si svegliavano al nuovo giorno, mentre i contadini salutavano la corriera che strombazzando passava per le strade polverose, pensava che avrebbe potuto anche combinare qualcosa, poiché in verità le occasioni gli si erano presentate. La Lucia, per esempio, una buona donna sui trent’otto anni che, con sua meraviglia, non si sapeva spiegare come non avesse ancora trovato marito; una buona donna l’aveva egli definita tutte le volte che, nel buio della notte, con gli occhi fissi verso l’alto, la sua immagine era andata ad occupare i suoi pensieri. Del resto in paese la conoscevano tutti, anche perché era la sarta che aveva quella vasta clientela di provincia, che paga poco e si contenta di poco. Il parroco stesso certe volte aveva buttato lì per lì delle voci che commentavano i rapporti che sembravano correre tra lui e la Lucia; e sempre lo aveva incoraggiato a concludere, dicendogli ch’era un buon partito, onesto e sicuro e così avrebbero potuto fare un bel banchetto, di quelli che non se ne vedevano da dieci anni a quella parte. Ma lui no, ogni volta a ripetere che con la Lucia non c’era nulla, poiché erano tutti dei pettegolezzi. Però ora pensava alla sera in cui si era presentato alla sua porta, aveva aggiustato la cravatta, mentre si guardava attorno e il paese tutto taceva; aveva esitato dapprima, pensando di sbagliare, ma in cuor suo era sicuro che la Lucia al mattino gli avesse fatto intendere che alla sera lo avrebbe atteso. E lui ci era andato, impacciato e timido, poiché sapeva che alla fine avrebbe potuto rimediare. La Lucia del resto aveva proprio fatto intendere che lo aspettava alla sera, poiché aprì la porta prima che il campanello squillasse. È stato bene, si scusava lei, poiché le orecchie che origliano sono tante, e il buon nome di loro due valeva tale precauzione. La cena fu buona, preparata con mani esperte e con quella premura particolare che la donna interessata sa mettere in ogni sua cosa. Si erano poi intrattenuti a parlare del più e del meno, su come l’annata era stata ed alla fine si erano accordati di vedersi la sera seguente. Al mattino uno stordimento lo aveva colto al primo svegliarsi, non aveva dormito bene, anche perché il suo stomaco non era poi abituato a quelle abbondanti e succose cenette. E poi aveva fatto un sogno strano, con mille voci che si rincorrevano, che si scambiavano mille segreti; ed alla fine si era visto lui, rannicchiato su una sedia quasi spagliata e gli altri del paese che intorno gridavano e lo indicavano a dito. Svegliandosi si era trovato sudato e stordito; pensò subito a ritirare la bottiglia del latte, ma preferì ingurgitare un poco d’acqua con bicarbonato. In ufficio del resto non rese come sempre; si scopriva spesso a pensare a cose diverse, lontane e poi, se dapprima si era rimproverato, se ne compiaceva. Vagava ecco, ma sempre gli tornava alla mente la serata trascorsa con la Lucia, risentiva ciò che si erano detti e pensava alla sera che sarebbe venuta. Sentiva però che qualcosa la sera innanzi non era andata bene; era sempre sul punto di rammentarsene, ma poi gli sfuggiva quasi per incanto. Per giunta i colleghi di camera quel mattino gli sembravano strani; si porgevano strane occhiate, e strano a dirsi, lo richiamavano sempre quando veniva ripreso dai suoi pensieri. Cosa potevano sapere? Qualcuno forse lo aveva visto entrare dalla Lucia? Ma la strada era vuota, e così si rassicurava e scacciava quei fastidiosi pensieri come si scacciano d’estate le mosche. Quando uscì dall’ufficio corse a comprare qualcosa per la Lucia; poca roba, ma che si sentiva in dovere di portare. Nel pomeriggio, mentre riposava, gli venne alla mente, come una illuminazione ed una sorpresa assieme, ciò che al mattino lo aveva tormentato; ecco, la Lucia aveva tirato la mano a sé quando egli aveva cercato di prendergliela! Finalmente ciò che lo aveva torturato egli lo conosceva. Se dapprima scoprire ciò era stato il suo più grande impegno poiché sperava che, dopo averlo scoperto si sarebbe calmato e riappacificato con sé stesso, questa scoperta gli metteva ora in corpo una strana sensazione. Si sentiva certo in colpa per avere osato tanto con la Lucia, ma del resto si spiegava che lo aveva fatto in un momento di pazzia e che quindi si sarebbe scusato con lei. Anche questa spiegazione però non gli portò alcun giovamento, poiché continuò a pensare a ciò che aveva fatto; perché, cosa avrebbe voluto fare dopo con la Lucia? Certamente nessun pensiero gli era passato per la mente la sera innanzi, anzi era stato calmo, controllato, quasi assaporasse la gioia di una vita a due. Ed allora, perché lo aveva fatto? Forse gli aveva dato lo spunto la Lucia? Del resto la sera innanzi lei gli era sembrata diversa, più eccitata e ripensandoci gli era parso anche che la Lucia avesse quindici anni di meno. E sì che si era abbellita, ma spirava dal suo corpo maturo un’aria ed una sensazione diversa che egli non aveva mai sentito e mai provato in tutte le volte che le era stato vicino. Del resto era stata lei a volere quell’improvviso incontro, da lei tutto era partito; ed allora perché aveva ritratto la mano quando la sua l’aveva cercata? Che forse un senso di pudicizia albergasse in quell’animo di donna? Per la qualcosa egli si trovava già con la coscienza a posto poiché sapeva di doverle chiedere scusa. O forse l’aveva ritirata per altri motivi, forse perché lo detestava e lo aveva invitato solo per farsi burla di lui con le sue amiche ogni volta che poi lo avrebbero incontrato? O forse aveva scoperto in quel primo incontro che non era quello che lei sperava, un uomo quale una donna vuole incontrare? Per la qualcosa egli avrebbe dovuto riparare, farle capire che egli era un uomo nel vero senso di tale parola, con tutti i crismi della mascolinità; ma poi, guardando torvo come se la Lucia gli fosse davanti, ripensò alla possibilità che lo avesse invitato per burlarsi di lui. Allora sì, doveva fargliela pagare, perché lui non era un uomo da burlare e tantoméno per finire nel ridicolo del paese. Anzi ora pensava al comportamento strano che i suoi colleghi avevano tenuto al mattino e ne conveniva che la Lucia gli avesse tirato un brutto scherzo. Saltò allora su tutte le furie ed in un primo momento decise che quella sera non sarebbe andato da lei. Si sentì più libero dopo aver preso tale decisione ma poi lo assalì un dubbio, quel dubbio che tanto dispiaceva al suo orgoglio di uomo; che la Lucia avesse trovato in lui un debole e non un vero uomo? Ciò lo fece subito trasalire ed egli abbandonò il partito che prima aveva preso; sì, egli ci sarebbe andato, soprattutto per avere uno schiarimento sulla cosa. Ne aveva tutti i diritti del resto, poiché aveva rischiato la sera innanzi di passare per un dongiovanni da strapazzo, agli occhi del paese. Al tramonto lasciò il letto e si diede a pulirsi per farsi più attraente; ci teneva che la Lucia si ricredesse, qualora avesse pensato in modo sbagliato sul suo conto. Quella toeletta da scapolo durò più del solito, tanto che quando andò alla finestra era già buio. Attese ancora al bar con i rari amici che si era fatto in tutti quegli anni e quando poi restò solo nel locale anche egli andò via, con quell’animazione caratteristica che anima coloro che stanno per intraprendere un’avventura. Giunse più presto del solito alla porta della Lucia e scorse per la finestra che la camera era in una penombra che ami aveva notato in quella casa; un lume infatti la rischiarava appena. Con un leggero tocchettìo bussò alla finestra e dopo poco la porta gli si aprì. Con un dito in atteggiamento tale da imporre il silenzio, la Lucia lo invitò ad entrare, ed egli sentì un odore particolare che quella casa emanava in quella sera. Ed il ritrovarsi in quell’ambiente familiare gli fece svanire tutti quei propositi di schiarimento che intendeva avere. Seguì la Lucia in cucina e notò sottola luce, che qui non era fioca, quanto lei si fosse abbigliata per quell’incontro: era bella e soprattutto gli ispirava una strana e nuova avvenenza. Notò che si muoveva nella cucina con leggiadria e sicurezza ed allora sentì in cuore accendersi la nostalgia di una donna, di una casa e di una famiglia. Forse la Lucia sarebbe stata la sua donna ideale. Estasiato quasi la seguiva con lo sguardo in tutti i suoi movimenti per carpire tutti i pregi che ancora non si erano svelati agli occhi suoi. L’adorava con gli occhi ed intanto un sommesso desiderio di possesso si impadroniva di lui. La Lucia di sottecchi osservava lui che, appoggiato allo stipite della porta, la osservava mentre si affaccendava attorno ai fornelli. D’improvviso qualcosa lo scosse, i pensieri si affollarono nella sua mente ed uno parve imporsi agli altri: la Lucia era pur sempre una donna, lui un uomo che avrebbe dovuto dimostrarle di essere tale. Ché forse con il gesto della sera innanzi la Lucia non avesse voluto porre in dubbio la sua validità? Scosse il capo come per allontanare una mosca fastidiosa che però puntuale tornava a posarsi sul naso, sulla bocca, sulle orecchie. Ora sì, era certo, la Lucia voleva una prova; forse gliela aveva chiesta ed egli non lo aveva compreso; o forse no, lei che era donna, doveva attendere la mossa di lui. Allora si mosse come un automa e gli sembrò una distanza grandissima raggiungere la Lucia dalla parte dei fornelli, dove lei accudiva serenamente. Le giunse di dietro, la prese attorno alla vita, la portò a sé con violenza mentre lei faceva cadere un piatto in cui stava frullando delle uova. La strinse con passione, prese a baciarla sul collo, sul mento, sulle labbra, sulla fronte; sentiva che non si sarebbe più fermato, sentiva che una forza superiore faceva sì che la stringesse sempre più forte. Sentiva quei seni schiacciarsi al suo petto e ne provava gioia immensa. Quella serenità familiare era stata infranta ormai; egli si sentiva forte, virilmente forte, che non aveva il coraggio di abbandonarla. Un solo pensiero gli attraversò la mente in quei momenti; ecco, la Lucia ora lo conosceva e non avrebbe potuto più dubitare di lui. Del resto lei era stata docile, anzi quando si lasciarono era rossa in viso, con il grembiule sporco delle uova che aveva rovesciato. Con la femminilità propria delle donne mature non avvezze a tali avventure, si mise a pulire dove era sporco, raccattò i cocci del piatto e poi si rallindò con una mano i capelli scomposti. Lui, era andato nella camera attigua e si sentiva svuotato, senza pensieri e quasi senza peso. Una nausea lo prese improvvisamente, si sentì venir meno; sentì la testa girargli forte, forte come una trottola. Aprì allora la finestra per prendere una boccata d’aria fresca e rianimarsi; anche questo espediente però non servi a nulla, anzi si sentiva sempre più male. Indossò il cappotto e senza dir nulla lasciò quella casa che tanto gli era sembrata ospitale e serena. Attraversò le strade buie camminando rasente ai muri: una inquietudine lo aveva assalito e gli sembrava che la gente del paese fosse alle finestre per parlare di lui, per indicarselo. Ecco il sogno, il sogno della notte avanti; ora lo rammentava. Si sarebbe detto che lui quella sera avrebbe voluto approfittare di una donna sola, buona ed indifesa; forse l’avrebbe anche pagata alla fine e lui sarebbe stato l’inizio di una tragedia per quella donna. Con questi pensieri giunse a casa, si buttò sul letto con la testa che gli doleva, spossato come se avesse sostenuto una impari lotta con avversari più forti di lui ed alla fine ne fosse uscito vincitore. Non pensò più a nulla e si addormentò presto; le preghiere per la mamma quella sera non furono dette. Al mattino si sentì meglio, anche perché l’aria della domenica gli faceva sempre un certo effetto. Non ricordò più nulla della sera innanzi, si lavò, si vestì, fece una magra colazione e poi decise; sarebbe andato in città, avrebbe voluto prendersi una giornata diversa dalle altre, diversa da quelle giornate lunghe, noiose e che non presentano nulla di nuovo nella vita di un uomo qualunque.

“Evasione”, “racconto breve” (1966) di Aldo Ettore Quagliozzi.

venerdì 9 ottobre 2020

Capitalismoedemocrazia. 70 «La globalizzazione finanziaria ha finito per propagare instabilità invece che maggiori investimenti e crescita più rapida».

Riparto dalla bella analisi di Giorgio Ruffolo “Sono dolori se la ricchezza è un fantasma”, pubblicata sul quotidiano l’Unità (2011) e riportata su questo blog nella sezione “Sfogliature” del 7 di febbraio dell’anno 2017, per proporre un interessante scritto di Dani Rodrik - professore di Economia Politica Internazionale all'Università di Harvard ed autore del saggio “La globalizzazione intelligente”  edito in Italia per i tipi Laterza (2011) - riportato sul quotidiano “la Repubblica” dell’8 di settembre dell’anno 2011 che di seguito trascrivo in parte. Ha scritto il professor Ruffolo:

mercoledì 7 ottobre 2020

Cosedaleggere. 74 «Nessun essere umano è un’isola».

 

Ha scritto Enzo Bianchi “priore di Bose” (ché tale rimane per me per quell’impegno universalistico che lo ha animato e che ha profuso per l’intera Sua vita e per il Suo indefesso, fecondo operato) in “Il mestiere di vivere insieme” pubblicato sul quotidiano “la Repubblica” del 6 di luglio 2020:

martedì 6 ottobre 2020

Capitalismoedemocrazia. 69 «Il populismo è il marchio del XXI secolo. Orfano di alfabeto, proscritto dal presente».

 

“L’ipotesi dell’apocalisse finanziaria, del default italiano poi europeo poi mondiale volteggia sulle nostre teste. Ma provate a materializzarla, a capire come cambierebbe concretamente il mondo, che cosa perderemmo, a quali rinunce saremmo costretti, e non ci riuscirete.

lunedì 5 ottobre 2020

Virusememorie. 40 «La modernità intera è stata di fumo: ciminiere, sigarette, locomotive, transatlantici, automobili, bombe atomiche».

 
Ha scritto Giacomo Papi in “Lo spazzacamino, eroe della modernità” pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 6 di ottobre dell’anno 2012: (…). Guardo fuori dalla finestra. Il cielo è terso. È tutto spento. Le polveri sono così sottili che non si vedono proprio.

domenica 4 ottobre 2020

Virusememorie. 39 «La carriera del SARS-CoV-2 fino a questo momento, in termini darwiniani, è una grande storia di successo».

Non finiranno di stupirci i cosiddetti “esperti” chiamati a dipanare la matassa del Covid. A parte quelli che vivono perennemente sul piccolo schermo e che ad ogni loro “strambata” pubblicano un ponderoso testo che pochi o pochissimi leggeranno, tutti gli altri si barcamenano sulle ipotesi più o meno plausibili su di un Covid divenuto “diverso”, più “buono” e via discorrendo.

sabato 3 ottobre 2020

Cosedaleggere. 73 «L’ambivalenza dell’amore materno, che non è solo amore ma anche, in taluni momenti, odio».

A lato: "Saint Ives" (Cornovaglia), "acquarello" (2019) di Anna Fiore.


Tratto da «Siamo abitati dal nostro Io e dalla nostra Specie» di Umberto Galimberti, pubblicato sul settimanale “D” del quotidiano “la Repubblica” del 5 di settembre 2020: E i loro interessi sono in naturale conflitto. Ma la nostra infelicità sta anche nel non saper esprimere noi stessi per ciò che siamo.

venerdì 2 ottobre 2020

Cosedaleggere. 72 Edgar Morin: «La vita è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso isole di certezze».

Tratto da “Il potere dell'incertezza”, intervista di Anais Ginori al filosofo Edgar Morin pubblicata sul quotidiano “la Repubblica” di ieri primo di ottobre: "Siamo entrati nell'epoca delle grandi incertezze". (…). Non riuscendo a dare un senso alla pandemia, impariamo da essa per il futuro" (…).

giovedì 1 ottobre 2020

Capitalismoedemocrazia. 68 «Nella globalizzazione il capitalismo coincide con il mondo».

“Capitalismoedemocrazia” è luogo “virtuale” per riflettere sullo stato delle cose. È luogo di condivisione di idee e di quant’altro abbia a che fare con la grande “crisi” che attanaglia il mondo occidentale e che trova, nella crescita esponenziale delle iniquità sociali, il lato più evidente del declino di quello che va configurandosi come il “capitalismo finanziario” di rapina del secolo ventunesimo.