"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

martedì 1 settembre 2020

Lalinguabatte. 98 «Resta instillata nella memoria dei telespettatori non tutta la sequenza razionale ma solo frammenti di informazione».


Tratto da “Discutere è un'arte. Marziale”, colloquio tra la giornalista Simonetta Fiori e lo scrittore – ed ex magistrato – Gianrico Carofiglio pubblicato sul settimanale “il Venerdì di Repubblica” del 28 di agosto 2020: (…). Processo ai talk show da parte d’un ex giudice che non li disdegna? «In realtà non sono tutti eguali (…). Talvolta l’obiettivo dichiarato è scatenare la zuffa con disprezzo totale della verità. In altri casi prevale il tentativo di approfondire anche se l’esito non è sempre felice. Ma quel che è interessante è il sentimento con cui in molti partecipano, che è poi lo Zeitgeist contemporaneo, lo spirito del tempo: l’idea che la comunicazione politica sia soprattutto manipolazione, contraffazione, imbroglio.  Di fronte a questa grave stortura sono possibili due strade. Uno potrebbe anche decidere: non ci vado e non vedo i programmi. Ma è una soluzione? Io ho scelto di accettare questa ineluttabile conflittualità e di scommettere sulle infinite possibilità dell’intelligenza».

Cita una frase attribuita a Bertrand Russell: il problema di questo mondo è che le persone intelligenti sono piene di dubbi e i cretini sono pieni di certezze. «Io confido in un cambiamento. E che il raziocinio prevalga sulla baruffa dissennata».
La neolingua denunciata (…) evoca espressivamente il bagaglio retorico del populismo contemporaneo, che dalla semplificazione aggressiva trae la sua ideologia e la sua forza. (…). Un armamentario oliato da tempi televisivi sempre più veloci e frenetici. «Ma è per questo che bisogna imparare a replicare in modo efficace, etico e pertinente. Nel mio catalogo cerco di offrire suggerimenti non tanto in merito alle scelte – i contenuti restano essenziali! – ma al metodo, al come fare. E a cosa non fare. Regole che pratico ogni volta che vado in tv».
Fallacie. Così le chiamano gli studiosi della teoria dell’argomentazione. Sono gli errori nella costruzione del discorso che – il più delle volte deliberatamente – rendono inutile la conversazione. La interrompono impedendole di progredire logicamente. «Una delle più insidiose è quella dell’argomento-fantoccio che consiste nella scorretta rappresentazione della tesi che si vuole contrastare. Tale tesi viene esagerata, a volte ritratta in modo caricaturale e all’avversario vengono attribuite parole che non ha pronunciato o concetti che non ha mai espresso».
Il risultato è che l’asse centrale della discussione si sposta altrove e il manipolato finisce nell’angolo. «In questi casi bisogna evitare la reazione più istintiva, che è quella difensiva. Mai giustificarsi con un “ma io non ho mai sostenuto questo!”, perché nel momento in cui lo dici hai già perso. Ciò che resta instillato nella memoria dei telespettatori non è tutta la sequenza razionale ma solo frammenti di informazione».
Lei allora cosa suggerisce? «Si chiama “tecnica del sandwich”: innanzitutto ripeti quello che hai veramente detto, poi mostri il trucco a cui è ricorso l’avversario, alla fine ripeti la tua verità». (…).
È inevitabile domandare a Carofiglio se sia stata un’esperienza televisiva sgradevole a indurlo a vergare il suo manuale di autodifesa. «Ero in uno studio della Rai quando un volto molto noto si mise a mostrare alle telecamere cartelloni irridenti mentre gli altri ospiti prendevano la parola. Confesso che provai un’irritazione profonda, ma sarei un’ipocrita se dicessi di essere stato colto alla sprovvista. Se stai andando a fare a botte, non puoi sentirti a disagio se l’altro tira un pugno o fa cose scorrette. Lo sai e ti regoli di conseguenza».
Con quale possibilità di successo?  «Talvolta ha funzionato. Mi è capitato con qualche giornalista più attrezzato che, sentendosi scoperto nelle sue tecniche manipolatorie, ha provato a ragionare: alla fine s’era come ripristinato un principio di verità».
La cura delle parole è un pilastro dell’etica democratica. Da Goethe a Gramsci, da don Milani a Bob Dylan, da Wittgenstein a De Mauro, sono innumerevoli i poeti, i filosofi, gli intellettuali militanti che hanno cercato di restituire senso alle parole. Negli anni Ottanta del secolo scorso, fu Italo Calvino a denunziare una nuova pestilenza della lingua, un’epidemia di grigiore e opacità che nel decennio successivo si sarebbe degradata in una patologia ancora più allarmante, quella che Carofiglio in un’opera precedente definisce «la conversione del linguaggio all’ideologia dominante».
Non a caso La manomissione delle parole – questo il titolo del suo saggio del 2010 – usciva sul finire dell’evo berlusconiano, segnato dall’impossessamento e dalla contraffazione di alcuni vocaboli del lessico politico come “democrazia”, “libertà”, “popolo”, “giustizia”. Le parole apparivano come scippate del loro significato, perché «consumate, estenuate, svuotate da un uso eccessivo e irresponsabile». «Nella storia d’Italia (…) Berlusconi ha rappresentato l’evento atipico e catastrofico in accezione classica, che ha accelerato il processo regressivo del lessico politico». Un’involuzione che non ha trovato un argine culturale a sinistra, nella gauche politica, spesso all’inseguimento retorico dell’avversario. «Abbiamo assistito alla resa totale rispetto all’uso di certe parole. Prendiamo la locuzione: “mettere le mani nelle tasche degli italiani”, slogan della destra populista. Quante volte oggi la sentiamo ripetere nell’area progressista?».
Sul terreno dei luoghi comuni, si sa, vincono i semplificatori. «Ho tentato di dirlo a qualche cattivo retore del mio stesso schieramento, ma è stato inutile».
Sullo sfondo di questo ormai trentennale impoverimento linguistico resta l’enorme problema dell’analfabetismo di ritorno degli italiani, una ferita democratica denunciata da pochi studiosi come De Mauro rimasti inascoltati: meno del trenta per cento della popolazione è capace di capire oltre al senso compiuto della proposizione principale anche quello delle sue subordinate. «Questa è una parte del problema. Ed è il motivo per il quale scrivo manuali di autodifesa: l’idea è proprio quella di dare strumenti critici a una platea sempre più vasta».
Carofiglio è polemico nei confronti di un ceto pensante che reagisce al decadimento dell’evo contemporaneo sollevando il ponte levatoio. «Noi in Italia abbiamo una classe intellettuale incline a parlarsi addosso, con una lingua che capiscono in pochi. Ma questo è un modo per sottrarsi a una funzione civile essenziale, che è la trasmissione dei saperi alla comunità».
Come realizzare questa trasmissione è la grande scommessa di oggi: la tv non sempre accoglie ragionamenti complessi. E quella digitale è una strada ancora da costruire. «L’errore è di pensare di parlare alla platea televisiva come da una cattedra universitaria» dice lo scrittore. «L’oscurità non è un destino ineludibile».
Colpisce che nel suo breviario Carofiglio recuperi la qualità della “gentilezza”, categoria altamente politica che non è resa all’avversario ma al contrario disponibilità al conflitto con l’intento di neutralizzare la forza distruttiva dell’altro. E non importa che questa forma di garbo civile, mutuata dalle arti marziali orientali, sia distinta dalla mitezza “impolitica” di Norberto Bobbio, a cui invece dieci anni fa Marco Revelli diede un significato profondamente attivo e militante. Al di là delle sfumature semantiche, “gentilezza” e “mitezza” sono entrambe un potente antidoto all’arroganza e alla sopraffazione del potere. Non è singolare che un Paese da decenni invochi la mitezza senza trovarla? «Non è una specificità italiana (…), ma certo segnala la persistenza di una ferita nel discorso pubblico. E va messa in relazione con la crescita delle diseguaglianze e quindi dell’infelicità delle persone. Il populismo cavalca il rancore e la rabbia alzando i toni. E a noi non resta che scommettere sulla gentilezza, che implica anche una buona dose di humour».
Se non vuoi essere deriso, diceva Benjamin Franklin, sii il primo a ridere di te stesso. Vale per i talk show ma anche per la vita quotidiana. È l’ultima regola dell’inventario. Ora siamo pronti per salire sul ring.

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