"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi

"Il bruco (2017)". Foto di Aldo Ettore Quagliozzi
"Il bruco" (2017). Nikon Coolpix P900. Foto macro. Stato larvale della falena diurna "Macroglossum stellatarum" volgarmente detta "sfinge colibrì".

venerdì 18 settembre 2020

Ifattinprima. 88 Il Sì e il No a confronto.

Tratto da “Guida al referendum. Le ragioni del Sì, le obiezioni del No” di Marco Travaglio, pubblicato su “il Fatto Quotidiano” del 15 di settembre 2020: Qual è il numero perfetto di parlamentari? La domanda se la posero già i Padri costituenti eletti nel 1946 (556 in tutto). E ovviamente risposero che il numero perfetto non esiste: si tratta di una pura convenzione che, come tale, può cambiare a seconda dei tempi e delle circostanze. L’Assemblea si divise fra chi – come i liberali Einaudi e Nitti, i repubblicani Conti e Perassi e il comunista Nobile – voleva un organo più snello, rappresentativo ed efficiente (3-400 deputati e metà senatori), e chi – come il comunista Terracini e l’indipendente Ruini – pensava che quantità fosse sinonimo di qualità. Alla fine, nella Costituzione, si decise di non fissare un numero preciso, ma un criterio elastico: un deputato ogni 80mila abitanti o frazione superiore a 40mila; un senatore ogni 200mila abitanti o frazione superiore a 100mila. Risultato: nelle prime tre legislature il numero dei parlamentari cambiò tre volte col crescere della popolazione. Nella I (1948-’53) i deputati furono 574 e i senatori 237; nella II (1953-’58) 590 e 237; nella III (1958-’63) 596 e 246. Ma ormai la democrazia era già degenerata in partitocrazia e infatti all’inizio del 1963, a pochi mesi dalle elezioni, la maggioranza del governo Fanfani IV (Dc, Psdi e Pri con l’appoggio esterno del Psi) varò una legge costituzionale che cambiava per la quarta volta il numero degli eletti, moltiplicando le poltrone ben oltre il rapporto fissato dalla Carta: 630 deputati e 315 senatori (più quelli a vita). È quella legge targata Dc, non la Costituzione, che oggi difende chi fa campagna oper il No:i Padri Costituenti non c’entrano. Allora il potere legislativo era affidato in esclusiva al Parlamento. Poi, nel 1970, arrivarono le Regioni e in seguito il Parlamento europeo. E i nostri legislatori elettivi raddoppiarono, da quasi 945 a 1918 (945 parlamentari, 897 consiglieri regionali, 76 eurodeputati). Fu così che dagli anni 80 non i 5Stelle, ancora nel grembo di Giove, la gran parte dei partiti, dei giuristi e dell’opinione pubblica si convinsero che il Parlamento andasse sfoltito: in linea con le Camere elettive delle altre grandi democrazie, tutte meno pletoriche e costose delle nostre. La prima riforma costituzionale che invertiva la marcia rispetto alla legge del 1963 fu quella della commissione presieduta dal liberale Aldo Bozzi nel 1983: abortita in Parlamento. Poi quella della commissione De Mita-Iotti del 1993-’94: abortita in Parlamento. Poi quella della Bicamerale D’Alema del 1997-’99: abortita in Parlamento. Il gioco dei partiti era chiaro: promettere tagli alla Casta più impopolare del mondo e usarli per nascondere varie porcate; poi litigare perché c’era troppa carne al fuoco e lasciare tutto come prima, anzi peggio. La svolta fu la terrificante Devolution di B.&Bossi, che stravolgeva oltre un terzo della Costituzione e usava il taglio degli eletti come specchietto per le allodole: approvata anzi imposta a colpi di maggioranza nel 2005, fu fortunatamente bocciata dagli elettori nel referendum del 2006. Stesso copione dieci anni dopo con la controriforma Renzi-Boschi-Verdini, che stravolgeva oltre un terzo della Costituzione e indorava la pillola col solito taglio (ma solo al Senato): imposta dal centrosinistra dopo quattro letture nel 2015, fu sacrosantamente bocciata dagli elettori nel referendum del 2016. Il messaggio del popolo italiano era chiaro: basta maxi-riforme costituzionali che costringono gli elettori a un Sì o a un No “prendere o lasciare” su norme diverse ed eterogenee; vogliamo mini-riforme “un passo alla volta”, puntuali, chirurgiche e il più possibile condivise, per correggere o aggiornare pochissimi articoli della Carta e consentire ai cittadini un voto omogeneo e consapevole. Il tutto in linea con lo spirito dell’articolo 138, che prevede modifiche limitate, non blocchi enormi e indistinti. Così è nato in questa legislatura il ddl costituzionale “Quagliariello-Fraccaro” che recepisce i progetti gemelli dell’esponente di centrodestra e dei 5Stelle (e quello del Pd del 2008) per ridurre i parlamentari da 945 a 600 r risponde a entrambi i requisiti da tutti invocati: è puntuale (modifica i tre articoli della Carta sul numero degli eletti: 56, 57 e 59) e condiviso (grazie ai 5Stelle che l’hanno posto come condizione per il patto con la Lega e per l’alleanza col centrosinistra, è stato approvato nelle quattro letture con maggioranze del 59, 49, 57 e 88%). Siccome nella prima “seconda lettura” non si sono raggiunti i due terzi, era possibile ricorrere al referendum “confermativo” e allontanare l’amaro calice. Così FI e Lega – dopo aver approvato la riforma quattro volte su quattro – hanno raccolto le firme necessarie di 71 senatori: è per questi voltagabbana, che rappresentano appena il 7,5% dei parlamentari, che domenica e lunedì voteremo su una legge approvata da tutti e promessa da 40 anni. Se vince il No, il Parlamento ha un’ottima scusa per interrompere le autoriforme e magari riprendersi i privilegi perduti (vitalizi in primis). Se vince il Sì, si impone una nuova legge elettorale e si possono accontentare pure i benaltristi che al taglio degli eletti preferiscono quello degli stipendi. Da lunedì, se vince il Sì, il Fatto inizierà una campagna a tappeto per adeguare gli stipendi dei parlamentari a quelli dei colleghi europei e, soprattutto, per una legge elettorale che restituisca agli elettori il potere di scegliersi i propri rappresentanti: meno numerosi, ma migliori. Come li voleva Einaudi.

Le ragioni del Sì.

1 Il Parlamento sarà più efficiente. Durante l’Assemblea Costituente, precisamente il 13 settembre 1946, Luigi Einaudi disse: “Quanto più è grande il numero dei componenti di un’Assemblea, tanto più essa diventa incapace ad attendere all’opera legislativa che le è demandata”. Molti esperti, tra cui il professor Roberto Perotti e diversi costituzionalisti, sostengono che le assemblee pletoriche funzionino molto poco e male e creino troppa confusione: il taglio renderebbe più efficienti i lavori dell’aula e delle commissioni, dando per scontate le obbligatorie modifiche ai regolamenti parlamentari per adeguare Montecitorio e Palazzo Madama ai numeri stabiliti nella riforma. I parlamentari saranno poi incentivati a lavorare più e meglio, perché la loro attività legislativa – proposte di legge, emendamenti, interventi in aula, interrogazioni – sarà più incisiva. Con meno eletti, ciascuno avrà più peso nel dibattito interno ai partiti e in quello con le altre forze politiche, essendo più difficile delegare le responsabilità sugli altri.

2 Il taglio è un segnale di giustizia sociale. Dopo parecchi anni di lacrime e sangue – come si diceva fino a qualche tempo fa – e di sacrifici imposti ai cittadini (tanto più con la crisi provocata dal Covid), il taglio dei parlamentari sarebbe uno dei rari casi in cui è la politica a mettersi a dieta. Un gesto simbolico, oltre che di sostanza. Non solo: da qualche tempo i partiti hanno accettato, talvolta loro malgrado, spesso su pressione o per paura del Movimento 5 Stelle, qualche taglio ai loro sprechi. Si sono tagliati i vitalizi (anche se al Senato tentano di farli rientrare dalla finestra), hanno abolito il finanziamento pubblico e infine hanno approvato la riduzione delle proprie poltrone. Se vincesse il No, la Casta avrebbe ottimi motivi per tirare un sospiro di sollievo e considerare il risultato del referendum come un alibi per interrompere questo processo virtuoso di autoriforma contro i privilegi e gli sprechi, e magari sentirsi in diritto di riprendersi anche ciò che faticosamente era stato tagliato negli ultimi anni.

3 Abbiamo quasi 2mila “legislatori”: troppi. Quando la Carta entrò in vigore, nel 1948, si pensò di legare la quantità di seggi in Parlamento al numero degli abitanti, rendendo quindi variabile la composizione di Camera e Senato a seconda della popolazione. Solo nel 1963 si arrivò, attraverso una riforma costituzionale voluta dalla Dc e dai suoi alleati, all’attuale formazione di 630 deputati e 315 senatori. Ma né nel 1963 né tantomeno nel 1948 esistevano i consigli regionali e il Parlamento europeo: istituzioni legislative che garantiscono ulteriore rappresentanza politica, da una parte con un ente intermedio tra Stato e Comune e dall’altra portando i nostri interessi nell’Unione. Ma che han fatto lievitare il numero dei legislatori eletti a 1918: 945 parlamentari, 76 eurodeputati e 897 consiglieri regionali. Per i primi consigli regionali si votò nel 1970 e per il Parlamento europeo nel 1979. Circostanze che oggi consentono di ridurre quel numero di parlamentari nazionali deciso nel 1963, in un contesto che concentrava l’intera produzione legislativa e la rappresentanza a Roma: ora le leggi si fanno anche a Bruxelles e nelle Regioni.

4 Si apre la strada a una nuova legge elettorale. Come sostiene la costituzionalista Lorenza Carlassare, il Sì permetterà – anzi imporrà, non foss’altro che per ridisegnare collegi più ampi – di “approvare una legge elettorale” che (si spera, e ci batteremo per questo) restituisca agli elettori il diritto e il potere di scegliersi i parlamentari. Il No invece lascerebbe intatto il numero degli eletti e dei collegi, non obbligherebbe il Parlamento a intervenire sulle regole del voto e sarebbe una pietra tombale su ogni altra riforma. Il taglio permetterà anche di approvare correttivi già incardinati in Parlamento: il 25 settembre arriva alla Camera il “Brescellum”, un proporzionale sul modello tedesco con soglia di sbarramento al 5% e potrebbe essere l’occasione per reintrodurvi le preferenze; il 28 giungeranno a Montecitorio i due correttivi del deputato di LeU Federico Fornaro (superamento della base regionale del Senato e riduzione dei delegati regionali per eleggere il Capo dello Stato). Il Senato ha già approvato l’equiparazione dell’elettorato attivo delle Camere: i diciottenni potranno votare anche per il Senato.

5 Potremo controllare meglio i parlamentari. Tagliare il numero dei parlamentari – meglio se con un buon sistema di scelta – sortirà un altro effetto positivo: gli eletti, essendo stati scelti da un maggior numero di elettori, saranno più rappresentativi e autorevoli e si sentiranno anche più autonomi dal controllo dei partiti. Non solo: essendo meno numerosi (da 945 a 600), ciascuno non potrà più nascondersi dietro gli altri 944 e approfittare dell’anonimato di un’assemblea pletorica per non lavorare: gli eletti sapranno cioè di essere più riconoscibili, dunque più controllabili dall’opinione pubblica e dai cittadini. Quindi ridurre il numero degli eletti sarà un incentivo a lavorare di più e meglio. Molti elettori oggi non conoscono nemmeno il nome dei propri rappresentanti, un po’ per l’alto numero degli eletti, un po’ perché sistemi elettorali fantasiosi hanno reso difficile risalire a quale parlamentare sia stato scelto nel proprio collegio. Se saranno in 600 sarà molto più facile tenerli d’occhio: è il valore, britannico, dell’accountability.

6 Il taglio c’è già: non pagare gli assenteisti. Secondo i dati Openpolis, nella scorsa legislatura “dei circa mille deputati e senatori, solo un centinaio è riuscito a influire sui lavori di Montecitorio e Palazzo Madama”. Tra il 2013 e il 2018, “il 40% dei deputati e il 30% dei senatori ha disertato più di un terzo delle votazioni”. Nella nuova legislatura le cose non vanno molto meglio, se si pensa a record clamorosi: alla Camera è eletta la forzista Michela Vittoria Brambilla, che però in aula è stata assente quasi il 99% delle volte: ha concesso al Parlamento cinque o sei apparizioni l’anno. Così ha fatto anche Antonio Angelucci, berlusconiano e dominus della sanità laziale, che supera il 94% di assenze in aula. Al Senato invece Tommaso Cerno ha mancato l’84% dei voti e Niccolò Ghedini il 69%. Casi limite che però non sono così fuori contesto, in un’assemblea che rinuncia già di fatto a centinaia di eletti ogni legislatura. Con la riforma, almeno, smetteremo di pagar loro lo stipendio.

7 Una riforma ampiamente condivisa. Nonostante qualcuno, nelle ultime settimane, abbia associato la riforma al simbolo dell’anima “populista” e “antipolitica” del Movimento 5 Stelle (oltre che della Lega e di FdI), il taglio dei parlamentari è stato promesso per 40 anni – nella Prima e nella Seconda Repubblica a partire dalla commissione Bozzi del 1983 – da tutti i partiti e ha sempre riscosso il favore della maggioranza degli italiani, stando ai sondaggi. Centrosinistra e centrodestra hanno più volte inserito la riduzione dei parlamentari nei loro programmi elettorali, certi di solleticare i propri simpatizzanti su un tema largamente apprezzato. Nel 2008 il Pd presentò un disegno di legge identico a quello di oggi. Anche quando questa riforma è arrivata in Parlamento il consenso è stato ampio: nelle precedenti legislature e ancor più nell’attuale, quando nell’ultima lettura alla Camera il testo è stato approvato col 98% dei votanti e soltanto 14 contrari. Solo in un secondo momento alcuni ci hanno ripensato, promuovendo il referendum e iniziando la campagna per il No.

8 Così ci allineiamo agli altri paesi europei. Con il taglio, l’Italia si uniforma agli altri Paesi europei per i costi e i numeri del Parlamento e per le riforme in materia. In primo luogo, secondo i bilanci di previsione della Camera, il Parlamento italiano è il più caro d’Europa se paragonato agli altri Paesi omogenei al nostro: solo la Camera costa 970 milioni l’anno (16,2 euro a cittadino), contro i 970 della Germania (14,1 a cittadino), ai 517 della Francia (7,7), 226 milioni della Gran Bretagna (3,7), 85 della Spagna (1,8). Se nel conteggio aggiungiamo poi anche il Senato, elettivo solo in Italia, il costo annuale del Parlamento sale a 1,5 miliardi, pari a 25 euro per ogni contribuente. Anche sulle riforme, l’Italia si allineerebbe agli altri Paesi che stanno approvando progetti di legge simili: la Germania vuole modificare i distretti elettorali (e quindi gli eletti del Bundestag) da 298 a 280, la Francia progetta di ridurre i rappresentanti dell’Assemblea Nazionale del 25% (da 577 a 404) e la Gran Bretagna i deputati da 659 a 600.

9 Si risparmia il 7% dei costi del parlamento. Il taglio di 345 parlamentari su 945 produrrà un risparmio sui conti pubblici. Le stime sono diverse: secondo l’osservatorio dei Conti Pubblici di Carlo Cottarelli, il risparmio ammonta a 57 milioni l’anno, pari a circa 300 milioni di euro per legislatura. Per Roberto Perotti, docente di Macroeconomia alla Bocconi, si risparmia circa il doppio: 100 milioni all’anno, di cui 22 per le indennità, 35 per rimborsi spese, diaria e assistenti, 20 per vitalizi e doppia pensione e altri 20 per i costi variabili, dalla pulizia dei locali alla carta prodotta per leggi, emendamenti e dossier. Con questo calcolo il risparmio arriva a quota mezzo miliardo a legislatura. Ma c’è chi, come il sottosegretario 5Stelle Riccardo Fraccaro, fa notare che le spese scenderanno ancora di più, tenendo conto dei contributi ai gruppi parlamentari. In ogni caso, prendendo per buono il calcolo di Perotti, gli italiani risparmierebbero circa il 6-7% sui costi del Parlamento. Una cifra che, se eguagliata da tutte le altre Pubbliche amministrazioni, inciderebbe sulla spesa pubblica per svariate decine di miliardi.

10 Se vince il sì, possibili altre buone riforme. Il taglio del numero dei parlamentari può essere l’inizio di un percorso volto a migliorare l’efficienza del Parlamento e la selezione dei nostri rappresentanti. Per questo, in caso di vittoria del Sì, il giorno dopo il referendum Il Fatto avvierà una campagna per promuovere altre due riforme, attraverso la legge ordinaria. La prima affinché, una volta tagliate le poltrone, i parlamentari si riducano gli stipendi, adeguandoli alla media degli altri Paesi europei: oggi, infatti, i parlamentari italiani sono i più pagati al mondo. La seconda, affinché si approfitti dei necessari correttivi imposti dal taglio alla legge elettorale (andranno anzitutto rivisti i confini di collegi e circoscrizioni, ma non solo), scrivendo una nuova legge elettorale che cancelli il peccato mortale delle ultime tre approvate da destra e sinistra (Porcellum, Italicum e Rosatellum): le liste bloccate che dal 2005 in poi hanno espropriato noi cittadini del potere di scegliere i nostri rappresentanti, consegnandolo a capipartito e capibastone.

Le obiezioni del No.  

1 “Si sfascia la Costituzione del 1948”. Non è così. I Costituenti del 1948 non stabilirono un numero fisso di parlamentari, ma soltanto un criterio variabile per gli eletti in rapporto alla popolazione del momento: un deputato ogni 80mila abitanti o frazione sopra i 40mila e un senatore ogni 200mila o frazione sopra i 100mila. Nella I legislatura (1948-1953), per esempio, i deputati furono 574 e i senatori 237 mentre nella IV 596 e 246. Il numero fisso di 630 deputati e 315 senatori fu stabilito con la legge costituzionale del 9 febbraio 1963 sotto il IV governo di Amintore Fanfani che si reggeva su una maggioranza Dc-Psdi-Pri e l’appoggio esterno del Partito Socialista Italiano. Quindi i Padri costituenti non c’entrano nulla. Inoltre nel 1963 era un’altra epoca e non esistevano ancora gli altri due organi legislativi elettivi: le Regioni e il Parlamento Europeo.

2 “Saremo ultimi per numero di seggi in Europa”. Il dato, estrapolato da un dossier della Camera e rilanciato da Repubblica e da Carlo Cottarelli su La Stampa, calcola che oggi l’Italia sarebbe quintultima per numero di rappresentanti ogni 100mila abitanti dei 28 Paesi Ue e domani, se vincesse il Sì, diventerebbe ultima. Ma è un palese falso: la comparazione non va fatta con Paesi che hanno un numero di abitanti molto più basso e che devono avere un numero minimo di rappresentanti (questi sono in cima alla classifica) e con Parlamenti a Camere differenziate e in parte non elettive. Il paragone ha senso tra Paesi simili per numero di abitanti e Camere elette direttamente che, pur con poteri diversi, diano la fiducia al governo. Con questi parametri, oggi l’Italia ha il più alto rapporto tra parlamentari ed eletti fra i grandi Paesi Ue (1,6 ogni 100mila abitanti) e lo manterrà dopo a pari merito con Uk (1 ogni 100mila) e davanti a Germania (0,09), Francia (0,09) e Spagna (0,8).

3 “Ci sarà meno rappresentanza”. Non è vero. Il criterio della rappresentanza dipende dalla legge elettorale con cui i cittadini scelgono gli eletti e non c’entra nulla con il numero dei parlamentari. Quanto più una legge è proporzionale e permette agli elettori di scegliere i parlamentari – con preferenze o collegi, ma senza liste bloccate – tanto più è alto il livello di rappresentanza. Se bastasse il numero dei parlamentari, potremmo dire che quello della Cina (con 3mila componenti) è il Parlamento più rappresentativo e democratico del mondo. Invece non è così: Israele e Paesi Bassi, con appena 120 e 150 eletti, hanno i Parlamenti più rappresentativi perché al loro interno sono rappresentati rispettivamente 8 e 13 partiti. Non solo: i partiti più piccoli non subiranno penalizzazioni perché già oggi esiste una soglia di sbarramento implicita – nelle regioni medio-piccole – che porta a far eleggere solo senatori di partiti medio-grandi. In base alle simulazioni dell’Istituto Cattaneo, con una legge proporzionale tutti i partiti continuerebbero a essere rappresentati.

4 “È un regalo all’antipolitica dei grillini”. Il testo è stato approvato un anno fa in ultima lettura alla Camera col 98% dei Sì. Anche ammettendo che improvvisamente tutti i partiti avessero cambiato idea soltanto per soddisfare un capriccio dei 5Stelle, resta il fatto che in passato proposte simili o identiche erano arrivate da destra e da sinistra. Nel 2008 il Pd presentò un ddl Zanda-Finocchiaro&C. uguale a quello per cui si vota oggi: 400 deputati e 200 senatori. Anche la coalizione di centrodestra, nel suo programma elettorale per le elezioni del 2018, parlava di “riduzione dei parlamentari”, e infatti Matteo Salvini, poi alleatosi col M5S nel governo Conte I, esultò alla prima approvazione in Senato con tanto di selfie sorridente: “Taglio di 345 parlamentari, fatto”. Per quanto storicamente lacerato dalle divisioni, la recente direzione del Pd ha comunque confermato il suo pieno sostegno alla riforma, approvando il Sì con 188 Sì, 18 No e 8 astenuti.

5 “Così il parlamento sarà più debole”. Molti, tra i sostenitori del No, immaginano che il Sì ci consegni un Parlamento ostaggio delle bizze di una manciata di eletti: controllandone anche soltanto quattro o cinque – dicono – una lobby o un leader di partito potrebbe tenere sotto scacco il governo o la maggioranza. In realtà, spesso, nelle ultime legislature, si sono avute maggioranze ballerine che si sono rette su improvvisi cambi di casacca (Domenico Scilipoti & C. ai tempi di Berlusconi) o sulla difficile convivenza tra gruppi eterogenei (come nel governo Prodi del 2006). Posto che la formazione di una maggioranza più o meno ampia riguarda più la legge elettorale e i voti presi nelle urne che il numero di eletti, avere meno parlamentari potrebbe servire proprio a responsabilizzare deputati e senatori e a esercitare su di loro maggior controllo sociale per evitare ingiustificate transumanze dall’opposizione alla maggioranza (o viceversa).

6 “Serviva una riforma più ampia”. È quello che è stato fatto nel 2006 dal centrodestra e nel 2016 da Renzi&Boschi con due controriforme-monstre che miravano a stravolgere due terzi della Carta lasciando a un’unica scelta secca tra Sì e No un blocco di misure molto eterogenee imbellettate dal taglio dei parlamentari (la Renzi-Boschi andava dalla più “innocua” per la Costituzione – l’abolizione del Cnel, su cui c’era ampio consenso – alla più impattante: quella di un Senato composto da 100 membri non più eletti, ma nominati dai consigli regionali). Gli italiani bocciarono con ampio margine entrambe le controriforme extra-large. Anche per questo, l’anno scorso, il Parlamento ha preferito muoversi con modifiche chirurgiche alla Carta, promuovendo il taglio dei parlamentari e lasciando a un secondo momento l’eventualità di altre proposte che intacchino il bicameralismo perfetto o le competenze del Senato.

7 “Dovevano ridursi lo stipendio anziché le poltrone”. I soliti benaltristi ignorano, o fingono di ignorare, che l’una cosa non esclude l’altra: in caso di vittoria del Sì, il Fatto inizierà una campagna per promuovere anche la riduzione degli stipendi degli eletti. E i 5Stelle hanno già proposto agli altri partiti di procedere col taglio appena dopo il voto di domenica. Per farlo non servirà il lungo iter che ha accompagnato la riforma costituzionale, e neppure una legge ordinaria: basterà una delibera dell’Ufficio di presidenza di ciascuna Camera. In ogni caso, il risparmio ottenuto con la riduzione dello stipendio dei parlamentari non sarebbe certo maggiore a quello che si avrebbe col taglio di 345 eletti: oltre alle indennità, infatti, vanno considerate le spese per l’attività politica e quelle per gli staff.

8 “Il risparmio è un misero caffè”. Questo calcolo prende per buone le stime dell’economista Carlo Cottarelli, fautore del No al referendum, secondo cui si risparmieranno circa 300 milioni l’anno. Ma è proprio l’argomentazione che non ha senso, perché paragona le mele con le patate. La comparazione dei costi prima e dopo il taglio non va fatta con la spesa pubblica italiana nel suo complesso, ma con il totale del costo annuo del Parlamento (circa 1,5 miliardi): e qui la riduzione dei parlamentari produrrebbe un risparmio del 6-7%. Che, se imitato da tutte le Pubbliche amministrazioni, risolverebbe gran parte dei problemi della nostra finanza pubblica. Inoltre il risparmio è una buona cosa indipendentemente dalla sua entità: anche per il segnale che dà all’opinione pubblica, riconciliando dopo anni di distacco e disaffezione il Paese legale col Paese reale.

9 “Vincono destra e presidenzialismo”. Manca la controprova. E in ogni caso questo argomento, tutto politico, non ha niente a che vedere col taglio degli eletti, che riguarda tutti gli schieramenti, non solo quello avverso alla destra. Se la destra avrà la maggioranza dipenderà dai voti che riuscirà a prendere e, casomai, dalla legge elettorale. Il presidenzialismo invece non è neppure accennato nella riforma. È un vecchio sogno del centrodestra, che ogni tanto lo ritira fuori. Il M5S lo ha sempre osteggiato e il Pd contribuì a farlo saltare quando il Pdl, che aveva la maggioranza, lo propose nel 2012. Anche gli italiani, l’ultima volta che si trovarono a votare una modifica costituzionale verso un semipresidenzialismo (quella di B. del 2006), la bocciarono al referendum. Il taglio dei parlamentari taglia i parlamentari e basta. Nessun cambiamento per la democrazia parlamentare e per i poteri di governo e Parlamento, che restano intatti: gli stessi fissati dai nostri Padri costituenti.

10 “Avremo un sistema oligarchico”. Il taglio, secondo alcuni (il gruppo Repubblica-Espresso-Stampa, Emma Bonino e altri propagandisti del No), ci restituirebbe un Parlamento in mano alle segreterie dei pochi partiti che vi avrebbero accesso. Ma è falso: il risultato delle elezioni e la conformazione del Parlamento dipendono non dalla quantità di deputati e senatori, ma dalla legge elettorale e dalle scelte degli elettori. Il Sì può accelerare il ritorno alle preferenze o comunque il superamento delle liste bloccate – quelle sì, sintomo di un Parlamento oligarchico. E non è vero che i partiti più piccoli (posto che la frammentazione sia un valore e non una degenerazione) sarebbero esclusi a priori. Il loro accesso dipenderà dalla soglia di sbarramento nella legge elettorale: riducendo quella, potrebbero bastare anche meno voti rispetto a prima. Quanto alla presunta nuova casta oligarchica: ne avete mai vista una che si mette a dieta e taglia il 36% delle poltrone?

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